di Marilù Oliva
Uno stesso scenario affrontato diversamente e letto, nei primi due libri qui recensiti, attraverso il portavoce eccellente di una certa Italia, Silvio Berlusconi, cui è dedicato uno spazio secondario ne “La battuta perfetta” di Carlo D’Amicis (minimum fax, 2010, p. 365, euro 15), e sostanziale nel “Berlusconario. Tutte le gaffe del presidente” di Giovanni Belfiori e Giorgio Santelli, (Melampo, 2010, pp. 240, euro 13). Nella terza opera, “Giovani, nazisti e disoccupati” di Michele Vaccari (Castelvecchi, 2010, p. 224, euro 14), l’Italia è narrata attraverso le proiezioni di falsi miti propinati e imboccati a una gioventù priva di punti di riferimento.
«Le dispiace, presidente, se accendo un’altra lampada?»
Mi allungo verso il comodino. Quando mi rigiro Silvio sembra aver perso un’altra volta conoscenza. L’osservo attentamente. E ciò che vedo — dal ventre dilatato ai quattro peli arruffati sulla testa, dalle caviglie gonfie alla bava che si rapprende agli angoli della bocca- è ontologicamente ciò che è, ma che nessuno al mondo, guardando Berlusconi, ha visto mai: un vecchio di settantatré anni.
Stremato, questo vecchio sembra dormire. E invece mi sta frugando nei pensieri.
«Ha pietà di me, vero, Spinato?»
“La battuta perfetta” di Carlo D’Amicis, copre l’ultimo cinquantennio di società italiana attraverso uno sguardo disincantato sui personaggi che la incarnano: Filippo Spinato, Canio Spinato, Silvio Spinato, rispettivamente nonno, padre, figlio. Il primo funzionario Rai, il secondo venditore per la tivù commerciale, poi consigliere di Berlusconi e suo ideatore di battute nonché compagno di bagordi, l’ultimo staccatosi dai modelli familiari e orientato verso correnti di estrema destra.
Raccontato da Canio, con un dialogo in seconda persona rivolto, nella prima parte del romanzo, a un tu destinato al padre e, nella seconda parte, al figlio, “La battuta perfetta” è la battuta di spirito agognata dal vero protagonista, il pagliaccesco Canio, divorato dall’ansia di piacere al mondo, colui che ha la battuta pronta anche nei luoghi più impensati, davanti a politici, a sostituti procuratori, a soubrette, davanti a frequentatori raccomandati — e poco raccomandabili — di festini riservati: «Nel 1979 quasi quindici milioni di elettori avevano votato Democrazia Cristiana. Varcata la soglia della nostra futura abitazione, mi aspettavo perciò di ritrovarmi in mezzo a un variegato campionario di italiani. In quel 40 % di aventi diritto, mi dicevo, ci sarà pure qualche tipo interessante: personalità dello spettacolo, sportivi, un paio di ragazzette in minigonna e tacchi a spillo». Tra i personaggi del romanzo ne spiccano molti conosciuti e già passati sulle bocche di ogni italiano. Ma in cima a tutti c’è lui, il presidente del consiglio. Con quella sua ossessione per le donne, i continui tentativi di arginare il tempo e le sue barzellette inaffrontabili:
«Un sieropositivo va dal dottore a chiedere una cura e il medico gli prescrive delle sabbiature.
“Ma funzionano?”, chiede il malato.
“No” risponde il medico “ma intanto si abitua a stare sottoterra”».
D’Amicis ci restituisce — con una scrittura intensa ma fluida, forbita ma ironica e con punte di sarcasmo — il ritratto deprimente di un’Italia che, pur se immaginata, senza dubbio esiste. Un corrosivo spaccato di italianità e di un popolo che conferma la veridicità dei propri assunti con la frase «L’ha detto la televisione…» (ergo Verbum est), che coglie la metamorfosi subìta dal paese — e dallo stesso accettata — col beneplacito di un perbenismo ipocrita, attraverso la metafora del piacere inteso come verbo. E se per piacere è opportuno stimolare la risata con spiriti clowneschi, quale maschera è più significativa di quella miniata con un eterno, quasi beffardo sorriso sul viso del capo di Governo?
Carlo D’Amicis, nato nel 1964, collabora col programma Fahrenheit della terza rete radiofonica della Rai e ha pubblicato diversi romanzi: Piccolo Venerdì (Transeuropa, 1996), Il ferroviere e il golden gol (Transeuropa, 1998), Ho visto un re (Limina, 1999), Amor Tavor (Pequod, 2003), Escluso il cane (Minimum Fax, 2006; Gallimard 2009), La guerra dei cafoni (Minimum Fax, 2008) e La battuta perfetta (Minimum fax, 2010).
«Non c’è nessuno sulla scena mondiale che può pretendere di confrontarsi con me, nessuno dei protagonisti della politica che ha il mio passato, che ha la storia che ho io. […] La mia bravura è fuori discussione. La mia sostanza umana, la mia storia, gli altri se la sognano.»
(Berlusconi, Ansa del 7 marzo 2001)
«Noi vinciamo sempre, siamo votati a vincere, come ho sempre fatto in tutta la mia vita: è una condanna.»
(Berlusconi, Ansa del 24 maggio 2003)
Un lavoro certosino, quello dei giornalisti Giovanni Belfiori e Giorgio Santelli, per il “Berlusconario. Tutte le gaffe del presidente”, per la quantità esorbitante di barzellette, battute, gaffes del premier, dispacci d’agenzia, articoli di giornale, pubbliche dichiarazioni e nutrite testimonianze basate su altre fonti documentali.
Illustrato da Paolo Deandrea, con una prefazione di Travaglio e un’introduzione dei due autori, questo libro informativo – o dizionario su Berlusconi, “Berlusconario”, appunto – è una rassegna di frasi celebri di Berlusconi, catalogate per tema: dagli esordi agli acquisti calcistici alle carriere e alle collusioni mafiose, ai deliri da autoincensamento, all’ostentazione dello status sbandierato di macho italiano fino agli epitaffi conclusivi: «Passerò alla storia. Preparate il monumento.» (Ansa del 30 maggio 2001). E mentre il monumento è in via di allestimento, da sociologi e studiosi di comunicazione arrivano copiose le interpretazioni di un fenomeno che non è solo una svista all’insegna dell’italianità. Lo psicologo Alessandro Amadori ha inquadrato l’esemplare come una persona che «riesce a stimolare una sorta di invidia costruttiva nel pubblico, perché egli dice al tempo stesso che lui è superiore a qualunque altra persona e però anche che è “alla portata di qualunque altra persona”». Invidia alchemica che trascende la polarità? O, più semplicemente, un personaggio che forse ha molto della sua decifrazione nelle parole pronunciate da lui stesso, quando, sulle pagine del Corriere della sera del 10 dicembre 2004, Berlusconi parla di una popolazione culturalmente specchio del suo elettorato: «La media degli italiani è un ragazzo di seconda media che nemmeno siede al primo banco… È a loro che devo parlare.»
Le spiegazioni del premier appaiono tutte limpide, forse più luminose del suo ora non più distesissimo sorriso. E se il mafioso Mangano viene edulcorato solo a “stalliere che accompagna i bimbi a scuola”, Silvio impiega una frazione di secondo a sovrapporsi a Maria Teresa di Calcutta o a cospargersi di balsami forieri di una santità intrisa di vittimismo e sacralità: «Se camminassi nell’acqua, direbbero che non so nuotare».
La P2, secondo l’Illustrissimo, raccoglieva «gli uomini migliori del paese» (da Mixer del 1994) ma, ad andarci sotto, finisce col dichiarare quello che poi asseriranno alcuni suoi ministri invischiati in scandali e corruzioni, ovvero la totale estraneità ai fatti. In un’Ansa dell’8 marzo 1994, a proposito della Loggia Massonica di Licio Gelli, il Cavaliere sostiene di non saperne nulla della sua iscrizione: «Mi hanno dato la tessera.» (Più o meno come il suo ministro Scajola si è ritrovato, sedici anni dopo, una casa intestata, affacciata sul Colosseo, totalmente ignaro che altri gliel’avessero pagata)
La realtà è ridisegnata ad hoc secondo una scansione ossessiva: lo spettro del comunismo cannibale d’infanti, i giudici nelle vesti di nuovi inquisitori, Berlusconi è il Perseguitato – con la P maiuscola – che però sforna una soluzione per ogni evenienza, perfino per chi è senza lavoro: le fanciulle col sorriso decente, che si cerchino mariti ricchi. E per gli altri, ecco dispensati buoni consigli: «Auspico che chi è stato licenziato si trovi qualcosa da fare. Io non starei con le mani in mano.»
La reiterazione a prendere sotto gamba anche gli episodi tragici della storia e della cronaca recente, ha la sua corrispondenza in molte gaffes di berlusconiana paternità, prima tra tutte quella in difesa dei metodi repressivi fascisti: «Mussolini non ha mai ucciso nessuno: gli oppositori li mandava in vacanza al confino». Parole, queste, rilasciate durante un’intervista in due puntate pubblicata da La Voce di Rimini e da The Spectator. E che dire della conferenza stampa cui partecipò insieme a Putin nel 2008, quando Natalia Melikova rivolse al leader russo una domanda “sconveniente” sulla sua relazione con l’ex olimpionica di ginnastica artistica? Prima che Putin – già contrariato – levasse i suoi minacciosi ruggiti, Berlusconi schizzò mimando contro la giornalista – e con uno dei suoi teatrali sorrisi – una mitragliatrice. E fece questo in un paese, la Russia, in cui negli ultimi dieci anni sono morti più di 200 giornalisti e gli assassini sono rimasti non solo impuniti, ma anche senza nome.
Il “Berlusconario” non è il primo libro/saggio che Melampo dedica al personaggio. E spero neanche l’ultimo. Perché, anche se la tendenza di una certa ala intellettuale è affrancarsi dietro uno snobismo silenzioso, per guarire dalla nostra devastazione occorre continuarne a parlare. Aggiungerei infine un motivo pratico dell’utilità di questo volume, come ha sottolineato Travaglio nella prefazione: «(Su Berlusconi) C’è sempre qualcosa da scoprire. E ho il sospetto che, leggendo il “Berlusconario”, persino Lui vi troverà qualche stronzata che si era scordato di aver detto».
«Io, tanto per cominciare, non ho mai raggiunto nessun primato, da una parte come dall’altra. In compenso, ho discrete credenze d’acciaio, desideri abbastanza inattaccabili e una fortissima probabilità di successo visto che non sono uno che spreca ore in università a regalare gli occhi vai a capire per cosa. Io, a vent’anni, non mi sento per niente un giovane. Bologna non mi piace, se ci sono venuto è per laurearmi, la robba, come la chiamano loro, la trovo ovunque, e a Trento o a Perugia, per fare un esempio concreto, ne avrebbero a vagonate a prezzi migliori. Non voglio sbiascicare per esservi più simpatico, non voglio fare finta di non essere capace di fare niente, non voglio essere uno del gruppo. Non voglio perdermi in questa o quella storia, non voglio sentirmi strano, non voglio presentarmi con frasi tipo: «Io sono troppo pazzesco», non sono pazzesco, non sono speciale, non farò mai nulla di incredibile per dimostrarvi quanto ci stia dentro o sia un figo, non voglio tirarmela, non voglio fare il misterioso, il depresso, l’emo, il marcio, quello contro a tutti i costi, non sono un capo, non sono un coglione, non voglio litigare con i miei, essere sbattuto fuori di casa, farmi lasciare perché in questo momento ho voglia di divertirmi, rubare caschi dai motorini, toccare i duecento in autostrada, mettere un impianto fuorilegge sulla mia autovettura, cercare rissa con chiunque con la scusa che mi ha guardato».
È all’insegna della normalità più totale che si pone, fin dall’incipit, il protagonista di “Giovani, nazisti e disoccupati” (Castelvecchi) di Michele Vaccari, genovese classe 1980. Lo scrittore sceglie di ambientare a Bologna la storia di uno studente, consumatore di trielina, inizialmente anarchico poi trascinato dagli eventi, dall’inerzia e dalle circostanze nelle fila del neo partita nazista. Distruttivo verso le categorie che rappresentano il diverso, quindi xenofobo, cinico e irridente, questo nichilista del 2010 è prototipo involontario di una fetta di popolazione apparentemente giovane, ma invecchiata dentro di una senilità senza scampo. Una senilità in grado, all’occorrenza, di investirsi di pericolosi poteri di leadership, soprattutto nei momenti di ebbrezza pubblica, quando il protagonista lancia al suo auditorio proposte deliranti dal sapore propagandistico: «Niente più Partito Nazista. Suona male. La gente ha fiducia, ma deve far bella figura con amici e amiche, se ne parla in giro o se, non avendolo ancora fatto, magari vuole farlo. Ho compiuto alcuni studi in proposito. Credo che Movimento Nazionalsocialista dei Lavoratori abbia un altro sapore. I simboli restano, sempre il vecchio font celtico utilizzato dal Reich nello scrivere gli slogan, ma edulcoriamo la faccenda con stile».
Mancano punti di riferimento e si sfaldano le ideologie in questa Bologna attuale che è specchio offuscato di un’Italia in rovina, dove sono tramontati perfino per gli stalinisti convinti o gli oppositori del giudaismo economico. I rimasti, i sopravvissuti, sono «nullatenenti alla ricerca dell’ennesimo suicidio momentaneo, un branco di bestie dopate che si affannano per divertirsi». Ora è il niente a farla da padrone e a trascinare nella sua risacca apatici e indifferenti. Un nulla che l’autore asserisce con la sua prosa spesso in negativo, coll’irruzione lessicale di una sintassi a cascata, a tratti pregiata ma condita di slang, esauriente, mai ripetitiva, sbocco esteriore di un io che narra in prima persona trasfigurando sulla pagina il flusso del pensiero.