di Filippo Casaccia
Quando segni solo tre gol in vita tua, poi te li ricorderai per sempre, come se fossi appena uscito dal campo.
Il primo l’ho segnato durante l’ora di educazione fisica, in quarta liceo, e non so se possa valere ai fini statistici. Ma diciamo di sì, perché dover parlare solo di due gol risulterebbe umiliante.
Ero il terzino destro titolare della mia classe, probabilmente per mancanza di alternative. I calzettoni tirati giù sino alle caviglie, come Toninho Cerezo, cui mi accomunava solo la magrezza. Ero scarso, ma alto e in qualche maniera efficace: se non arrivavo alla palla di cuoio, arrivavo a quelle di carne dell’attaccante che marcavo. Ogni tanto, negli ultimi minuti, mi concedevo una licenza offensiva, approfittando della stanchezza fisica degli avversari e di quella mentale dei miei compagni. Il mio primo gol l’ho fatto così, senza neanche lasciargli il tempo di protestare: scattai sulla fascia e, stupendo tutti, me per primo, mi trovai davanti al portiere. Litigai con la palla e la misi dentro di sinistro, piede col quale a malapena cammino. Per tutti avevo scartato l’estremo difensore con una classe inedita.
Io sapevo che era stato assolutamente casuale.
Il secondo gol è dello stesso anno, in un torneo. Anche stavolta sono il disperato terzino destro di un incontro disperato, che dopo pochi minuti stiamo già perdendo 2 — 0. Gli avversari sono fortissimi e la rabbia mi fa abbandonare la difesa per accorrere su uno dei nostri rari calci d’angolo. Il destino vuole che la palla, dopo una respinta, arrivi ballonzolando verso di me. Il regista poco distante, mi chiede — non senza ironia — di “dare respiro alla manovra”. Ma io non lo sto ascoltando perché ho già cominciato una rincorsa a passettini che prelude alla deflagrazione di un missile terra-aria. Riprovassi altre cento volte, non riuscirei più a ripetere quella micidiale fucilata verso la porta. Due difensori che mi vengono incontro si aprono come i petali di un fiore che sboccia. Il portiere unisce gli avambracci per respingere la sassata, ma viene piegato anche lui e la sfera finisce sotto la traversa. Mi sento Tardelli e urlo come un ossesso, finché non sono sommerso da un mucchio di compagni increduli e felici.
Un gol straordinario e inutile, perché poi ne abbiam buscati altri tre.
L’ultimo gol della mia carriera è stato il più bello. L’ho segnato in quinta liceo, in un incontro di qualificazione del torneo interno che dovevamo stravincere. Dovevamo, ma vabbeh. Comunque, mi sgancio al galoppo dalla mia zona, evito un difensore avversario chiamando il triangolo, la palla mi viene resa perfettamente, io allungo di mezzo metro mettendo fuori causa il libero e poi scarico un siluro che entra nel sette opposto, bucando la rete. E non solo perché il nostro campo faceva pena: avevo proprio tirato una bella botta. Questa divenne la mia specialità e anche la mia croce. Appena potevo, scaricavo con violenza ciabattate incredibili. Sotto gli occhi di una biondina di cui ero segretamente innamorato provai anche una presuntuosa soluzione da metà campo, manco fossi il fulmicotonico Dirceu. Ruppi i vetri della palestra a fianco e, chiaramente, addio biondina.
Quando segni solo tre gol in vita tua, cerchi nel calcio dei grandi quell’entusiasmo infantile che hai provato tu e la tua passione calcistica rimarrà sempre legata a motivi sentimentali. Non tecnici, perché non li possiedi e non li sai comprendere fino in fondo. Ovviamente li apprezzi, ma quello che ti esalta ancora è il gesto emotivo, che diventa narrativo ed epico .
Sono cresciuto con il mito dell’Olanda degli anni Settanta, che non ho visto in diretta ma in tante immagini, e quell’Olanda lì era bella perché giocava da dio e gli olandesi erano hippie che si portavano le compagne in ritiro. Che attaccavano e difendevano tutti assieme. E perché nel 1978 erano d’accordo che se avessero vinto il mondiale, avrebbero rifiutato di ricevere la coppa FIFA dalle mani sporche di sangue di Videla.
Ho amato anche la nostra nazionale quando ne è venuta fuori l’anima proletaria e all’improvviso in campo non c’eran più undici fighette, che pensavano alla macchina, alla velina o alla playstation, ma undici ragazzi. E negli occhi gli leggevi che eran tornati bambini, che giocavano con la voglia di giocare, alla morte. Come nella semifinale incredibile dell’Europeo del 2000, quando la nostra difesa diventò Fort Apache e Toldo parò non so quanti calci di rigore.
E poi non dimenticherò mai quel 5 luglio del 1982, quando fin dalla mattina sentivo la paura e la speranza che solo a dodici anni si possono provare, andando a incontrare una squadra incomparabilmente più forte.
Ma non quel pomeriggio.
In questi mondiali, avari di grandi novità, l’unico che sa ancora colpirmi in fondo all’anima, è un vecchio protagonista, uno che ho amato nel 1986 quando si mangiò metà campo e cinque difensori inglesi, per poi ricevere – lui nanerottolo – l’abbraccio del gigantesco compagno Valdano, dopo il gol più bello di tutti i tempi.
Uno che ho compreso quando ci ha dato dei figli di puttana nella semifinale del Mondiale italiano del 1990. Uno che ho compatito quando la sua vita è diventata più difficile di qualunque paso doble.
Diego Armando Maradona è il calcio che non si arrende agli schemi, alle tattiche, ai computer e ai preparatori atletici. In queste sere lo vedi a bordo campo che freme, che vorrebbe entrare a dare una mano alla sua nazionale e che, ogni volta che la palla passa dalle parti della panchina, non resiste e dà un saggio della sua classe, anche se è vestito come a un matrimonio di narcos. Se la sua squadra segna, lui bacia e abbraccia tutti, smanaccia e strattona dai titolari alle riserve, e salta in preda alla gioia incontenibile, come quando era un tappo ricciolone sui campetti di Lanus e incantava i suoi piccoli compagni di squadra.
È lui che rende questo mondiale degno di essere visto, lui eccessivo e viscerale, lui con due enormi orologi da polso, proprio come il Fidel a Rivoluzione vinta. Lui che fa giocare Verón che ha un secolo sulla schiena e pure il Che tatuato sulla spalla. Come Diego. E come Miccoli, che il tatuaggio se l’è fatto per emulazione e poi, dopo, ha scoperto chi fosse Guevara.
E Diego fa giocare pure Palermo, che di secoli sulla schiena ne avrà due, ma è una bandiera della Boca e, per riconoscenza reciproca, corre. O ci prova, perlomeno.
Anche Lippi ha portato in Sud Africa la sua vecchia guardia, ma il paragone è improponibile. Maradona lo ha fatto per coraggio, cuore e follia, Lippi per taccagneria sentimentale e tattica, perché non aveva altre idee e perché pretendeva che questi giocatori gli obbedissero. Il risultato lo si è visto in campo: gli argentini, magari confusionari, ma vitali; i nostri dinamici come se fossero esposti al museo di Madame Tussaud.
Diego Armando è il fratello maggiore, con cui litigherai pure, ma che mai tradirai. Lippi, invece, era (e per fortuna il passato è d’obbligo) il padre-padrone, il leader indiscutibile della nazionale di un paese che agli uomini soli al comando non ha ancora imparato a rinunciare.
Da una parte c’è l’irresponsabilità gaglioffa di chi non è mai cresciuto, che crede ancora alla fantasia e che sa ridere e piangere, con sincerità. Dall’altra c’è chi invece ha preteso di avere il Verbo, che ha dichiarato che nessuno sarebbe salito sul carro del vincitore e che sarebbe venuto il momento in cui tifosi e giornalisti avrebbero dovuto rimangiarsi tutto… E che quando ha pianto, lo ha fatto per vergogna, assumendosi retoricamente tutte le responsabilità proprio per non doversele assumere, evitando di rispondere dello scempio combinato.
Non so se questo Maradona servirà all’Argentina per vincere il Mondiale. Però per esaltarci, sì. Per dare la speranza, a noi che ci ostiniamo ad amare questo sport, che ci sia ancora un calciatore che insegua La voglia, la pazzia, l’incoscienza, l’allegria.