Una cara amica, strozzata dalla tirannia delle banche, mi ha reso edotto che, quando si richiede un mutuo, come in ogni sistema morale, si viene valutati. La scala di valutazione è composta da tre fasce: bianca, e allora l’esito è positivo; grigia, e allora si è sottoposti a ulteriori accertamenti; nera, e allora il mutuo non viene concesso. Questo esoterismo bancario è uno specchietto della nostra contemporaneità. Mentre la massa di abitanti dell’occidente crasso vive in stato di grigia nebulizzazione, si fatica a comprendere che due potenti forze premono sul corpo sociale e, al tempo stesso, ne vengono irradiate. C’è una contemporaneità nera, tumultuosa, il cui colore non rimanda a improbabili fascismi postmoderni, quanto alla potenza eruttiva di azioni tese a crepare l’esistente, a spaccare la croppa economicista. E poi c’è un magnetismo bianco, che rappresenta la traslazione estrema di istanze culturali che, dalla tradizione alla contemporaneità, sussume in sé la figura quasi ascetica di un uomo rinnovato. E’ ciò che disse Sant’Agostino e che Melville citò nel 42° capitolo di Moby Dick: il bianco come cosmetico spirituale. Mappare questa contemporaneità bianca è fondamentale per collocarci. Per questo dobbiamo rendere grazie a Doppio zero, l’atlante culturale che Marco Belpoliti ha pubblicato per Einaudi (10.80 euro).
E’ una summa di articoli che Belpoliti, flaneur della contemporaneità, ha in questi anni pubblicato sul manifesto, su L’indice, su La Stampa. Ed è un manabile per esercitare lo sguardo sul nostro tempo laico. Questa specie di ultrafenomenologia della cultura non può prescindere dall’impiego neutrale di uno sguardo al culmine dell’attenzione: è uno dei segnali della modernità che figlia la contemporaneità bianca – il tentativo di uscire dalla teoria pregiudiziale per addentrarsi nella prassi teorica, che rimanda al thorein, al guardare, al discriminare al di fuori del giudizio. Serve equilibrio, attenzione agli stili, consapevolezza degli importi tradizionali che, in una complessa storia degli effetti che dura per tutta la vicenda umana, costituisce l’uomo contemporaneo (dice Belpoliti nell’introduzione: “Siamo figli di Ermes, il dio dei passaggi, dei commerci, piè veloce, messaggero degli dèi, protettore dei ladri”).
Il libro è strutturato in nove sezioni, tappe di un itinerario che è tuttavia un continuum, sia per il fatto che l’occhio di chi osserva è sempre lo stesso, sia perché il mondo, seppure non riducibile a uno, è comunque riguardabile in una prospettiva. Questo è il presupposto epistemologico della mappatura di Belpoliti: tenere conto delle differenze senza ridurle a un’univocità con cui lo sguardo, per sua natura, tende a confezionare il divenire. E’ l’esito estremale di un laicismo della cultura che, dopo il Novecento, ci appartiene quale categoria fondante del nostro convivere e del nostro comprenderci. Ecco la sintesi di un simile esercizio di appropriazione della nostra matrice illuminista: “Tuttavia il ‘viso non è mai un oggetto dato, direttamente accessibile, ma una realtà continuamente costruita dai sistemi simbolici” (Patrizia Magli), una superficie – facies – che costituisce il luogo di congiunzione tra anima e corpo, vero e unico teatro di passioni e sentimenti”. Questo snodo fondamentale (non a caso posto all’inizio del volume) decreta quanto è implicito nell’operazione di mappatura che compie Belpoliti: il panopticon, la Nuova Atlantide, la riassunzione dell’umano secondo i sogni cognitivi che furono dell’età barocca. E’ un Barocco à la Benjamin, in ogni caso, che spinge qui lo sguardo ad abbracciare il teatro tutto della commedia umana: non un’irrazionalità priva di disegno, non il caos che urge da zone imprescindibili ma anarchiche dell’inconscio collettivo, bensì un Barocco della luce e della ragione, che postula anzitutto una teoria del corpo e delle passioni. C’è, come in ogni pratica fenomenologica, anzitutto l’esigenza di capire di quale storia siamo figli. Questa valutazione e scelta della tradizione è ciò che Belpoliti effettua a partire dall’incipit di Doppio zero.
Come sempre, l’esercizio fenomenologico comunica impressioni equivoche. Per esempio, un vago senso di frammentazione e di bizzarria (una bizzarria barocca che è esattamente il Barocco che non interessa a Benjamin). Prendiamo la quarta di copertina che descrive l’opera cosmografica di Belpoliti: “L’alfabeto del corpo e le teste parlanti, gli scarabocchi infantili e quelli degli adulti, le forme dell’acqua, la pietra, la polvere, la schiuma, Alice e i lombrichi, la nascita delle vetrine e l’espansione degli ipermercati, il virtuale e il museo Lombroso, la fotografia e il disegno, la città dei bit e la storia dei grattacieli di Manhattan, le architetture che non possono essere abitate, lo spazio e gli incerti confini, la cybergeografia. Sono alcuni degli argomenti trattati in questo libro: una sorta di piccola mappa della contemporaneità tracciata da prospettive insolite, eccentriche, curiose, dove le cose vengono guardate con sguardo appassionato e obliquo”. E’ certamente così: in apparenza. In verità, è il contrario: Belpoliti osserva eventi e scriminature della contemporaneità che non sono affatto eccentriche ma centrali, e il suo sguardo è appassionato soltanto in ragione di una teoria delle passioni che egli stesso denuncia e costruisce quale esigenza nel corso di tutto Doppio zero. Vecchio equivoco per cui Benjamin viene ridotto alla sagoma di un bizzarro collezionista di marginalità, di singolarità secondarie, mentre è esattamente l’opposto: un massimalista che dialoga con Scholem su Ain Sof e le sefiroth, sulla riassunzione del mondo in una schematica antigerarchica, in un’ontologia non autoritaria.
Componendo un’impressionante elenco dei padri nobili della nostra contemporaneità – da Callois a Lévi Strauss, da Hillmann a Foucault -, Belpoliti inizia il lettore a un’interpretazione graduale e discreta del mondo come crittogramma significante, oggetto privilegiato di esercizi incrociati di empatia e rilevazione di senso. I riferimenti, dalla teoria dei golori goethiana alla cartografia deleuziana, intercettano radici ed evenienze del nostro oggi, che si traducono sì in analisi sulla cybergeografia e sul design, sull’estetica del corpo post-organico e sulle culture post-coloniali, ma che tentando un’incursione in tutto il paesaggio della contemporaneità ricostruisce dalle fondamenta l’idea che il mondo sia teatro – e il tutto ben al di fuori dell’equivoco platonico di piallare in una landa unica i territori del divenire.
Il futuro anteriore disegnato da Belpoliti è un sentimento del mondo che molte frange della contemporaneità declinano in modi diversi, a volte conflittuali, ma dal quale sono accomunate: la comunicazione tra contemporanei avviene proprio su questo sfondo comune. Dopo la paralisi che l’illusione nichilista aveva imposto per almeno vent’anni, il Doppio zero di Belpoliti si traduce esattamente come accade sullo schermo dei cellulari: equivale a un “+”. Integrare in questa contemporaneità bianca con la contemporaneità nera che, in questi ultimi anni, emerge quale istanza di una collettività in movimento – ecco l’opera che l’intellettuale del futuro anteriore dovrà in qualche modo assumere su di sé.
Marco Belpoliti – Doppio zero – Einaudi – 10.80 euro