di Dziga Cacace
In the electric cinema or on the telly
Nine out of ten movie stars make me cry
Nine Out of Ten, Caetano Veloso
44 – Arrapaho del talvolta geniale Ciro Ippolito, Italia, 1984
Questa pregevole raccolta di impressioni cinefile ha la primaria funzione di informarvi su tutto ciò che potreste vedere un giorno sugli schermi, grandi e piccini. E allora non starò a fare figli e figliastri: ogni film ha diritto a una recensione, anche se è una schifezza (la recensione e/o il film). E vi dirò di più: non è questo il caso. Arrapaho è una solenne vaccata, ma divertente, a tratti squallida ma più spesso esilarante, e merita un commento che non ho negato, per esempio, a cazzate vere come Tutti pazzi per Mary. La differenza tra quel film e questo è che quello costava 1000 volte il film di Ippolito e faceva ridere molto di meno (anche se due o tre scene… vabbeh, facevo un esempio, dài). Dunque: nei verdi pascoli dell’Oregon (una discarica della Tiburtina, fonte Giusti) vivono tre tribù di indiani: i Cefalones, gli Arrapaho e i Froceyenne. La vicenda ruota intorno all’amore tra Arrapaho e Scella Pezzata, interpretata dall’erede di Irene Papas, l’elegante attrice greca Photina Lappa, in arte Tinì Cansino.
La quale, per la gioia di chi la vedeva compressa come l’omino della Michelin nei succinti costumini del Drive In, ci concede le sue procaci grazie nella classica scena della doccia, filologicamente ambientata sotto una cascata. Tornando alla pregevole pellicola: Cavallo Pazzo non è d’accordo con l’amorazzo stile Romeo e Giulietta, ma alla fine scopre la sua natura omosessuale e il film si conclude con la promessa di un secondo episodio: The Gay After. Follia cinematografica degli Squallor accompagnati al regista “intelligente” di sceneggiate Ciro Ippolito, Arrapaho perde colpi e pezzi, ma chi se ne frega: la comicità è volgarissima e liberatoria, gestita in uno svacco attoriale, organizzativo (alcuni, tra cui la suddetta Cansino, hanno le spalle bruciate dal sole) e narrativo che diventa cifra stilistica: quando c’è un errore la regia invita a ripetere la scena oppure dialoga con gli attori o commenta a favore del pubblico. Il livello è di grana grossa, ma è, ahimé, esattamente ciò che va bene per me, adesso: spesso le gag sono azzeccate e la frammentarietà della storiellina diventa occasione per tanti corti pubblicitari. Purtroppo (e non so se ricorda male Giusti o se hanno tagliato la pellicola), non è presente la parodia delle telenovele, Anche i ricchioni piangono. Per quel che mi ricordo è in Uccelli d’Italia. L’ho visto senza vergognarmi e mi procurerò un disco degli Squallor con ‘O tiempo se ne va. (Vhs da Italia1; 19/11/00)
45 – Ronin del bollito John Frankenheimer, USA 1998
Uno accetta il film di genere, il thrilling, sospende l’incredulità e si gode botte, botti e inseguimenti. Ma qualcosa deve pur avere una coerenza, una credibilità interna, una consequenzialità, eh. Ronin è il ritorno del vecchio Frankenheimer alla regia e, siccome il regista è passato alla storia per una scena d’inseguimento ne Il braccio violento della legge, il film è costruito apposta per fargli girare due belle scene simili. Ma bastasse una scena a fare un film… Ronin narra di un gruppo di agenti segreti freelance che devono rubare, per conto di non si sa chi, una misteriosa valigetta contenente non si sa cosa. Praticamente poi lottano tutti contro tutti e la totale incoerenza narrativa si salva con l’appartenenza (forse) di De Niro ai servizi segreti che, essendo onnipotenti, permettono raccordi assolutamente improbabili tra i personaggi, tutti segretissimi e abilissimi eppure rintracciabili nel giro di pochi minuti grazie a soffiate di onniscienti suggeritori che irrompono nella trama a piacere. Insomma: non sta in piedi manco per niente. Aggiungiamo poi alcune scene iniziali messe giusto per far metraggio o psicologia spicciola (ma per niente importanti ai fini della trama). Insomma: Ronin è una pacchianata dove anche il titolo evocativo è arbitrario e serve a dare un po’ di spessore mitico alla vicenda. Il ritmo, se si dimenticano le incongruenze, non manca. Gli attori se la cavano (De Niro, come rimanerne delusi?), il montaggio è spedito, e la scena per cui s’è organizzato il tutto è eccezionale. Ma va anche detto che è tutto così preordinato che la tensione va a farsi benedire dopo quattro minuti di inseguimento nelle viuzze di Parigi e Nizza. Quando Hackman inseguiva ne Il braccio violento, beh, tenevi i piedi tesi per frenare, perché tutto ti aspettavi fuorché quell’accelerazione narrativa e cinematografica passata alla storia. Qui allacci la cintura e sai che arriverai comunque in fondo. Ronin è una innocua porcatina che adesso non mi offende, ma tra due anni irriterà al ricordo. (Vhs da Tele+; 21/11/00)
46 – Grazie per la cioccolata del ripetitivo Claude Chabrol, Francia/Svizzera 2000
Andiamo al cinema Anteo per vedere Dancer in the Dark di Von Trier e, sorpresa, Barbara ha sbagliato l’orario della proiezione. Capita. (Sempre). E allora ci tocca l’ultimo Chabrol per il quale, nonostante le recenti osannanti critiche al festival di Venezia, nutrivamo qualche dubbio: gli ultimi due film dell’anziano regista francese erano risultati – a bassa voce, ma diciamocelo – due cagate, specie se a confronto con il clamoroso Il buio della mente. Va detto che stavolta, di nuovo, si vola alto. Grazie per la cioccolata è film di rara eleganza, girato in stato di grazia. Isabelle Huppert è un’industriale svizzera del cioccolato che ha appena sposato (per la seconda volta) il pianista André Polonski (Jacques Dutronc, bella faccia). Intanto la diciottenne Jeanne Pollet scopre che forse è figlia di Polonski. Si convince che è stata scambiata per un banale errore di culle con Guillaume, il figlio legittimo del pianista, nato lo stesso giorno. Jeanne conosce il pianista, si fa dare lezioni di pianoforte e sospetta della Huppert che serve cioccolate arricchite di sonnifero e che forse, anni prima, ha assassinato la moglie di Polonski. Il giallo arriva alla soluzione con un climax d’ironica freddezza che col giallo nulla ha a che fare e sembra quasi uno sberleffo a chi al giallo ha creduto. Gli attori sono bravi, dialoghi e trama filano, la fotografia è di livello e ci sono pure alcuni momenti di buon cinema (il duetto pianistico o la scena conclusiva). Il film parte come una commedia in interni per diventare un giallo hitchcockiano con, di fondo, la consueta acidità di Chabrol nei confronti della borghesia, questa volta quella inerte e temibilissima della Svizzera. Bene: allora mi è piaciuto, no? Massì, è bello da vedere, ma poi, dopo, cosa ti rimane? Chabrol fa lo stesso film da un po’ di anni e mi chiedo, lui che odia così la borghesia, come passa le serate? Mette bombe sotto i tralicci dell’alta tensione? Disselcia il pavé parigino o tira di fionda con sua moglie per le stanze di casa? A me, della storia di questa pazza schizofrenica della Huppert che confonde bene e male perché è ricca e non riesce a comprare anche l’amore, beh, rimane poco. Ma deve essere colpa mia: probabilmente sono di cattivo umore. Comunque splendida Anna Mouglalis, acerba ragazzona che cammina a talloni alzati per non ingombrare, ma che semplicemente incanta con la sua apparizione sullo schermo. Citati, non senza motivo, La nuit du carrefour di Renoir, Dietro la porta di Lang e La vita è un lungo fiume tranquillo di Chatiliez. Bella recensione di merda. (Cinema Anteo, Milano; 22/11/00)
47 – Fight Club del solito David Fincher, USA/Germania 1999
Fincher è quel bellimbusto che in passato ci ha regalato Alien 3, Seven e The Game. Tutti film che, per un motivo o per l’altro, mi avevano un po’ scocciato. Alien 3 era poca cosa ma aveva qualche ideuzza scenografica non male. Seven mi fece incazzare come un pitone perché era un film furbo, assolutamente disarmante e stupido come impostazione della trama (senza senso) e dei personaggi (con schemi abusati). Però c’era una scena finale cattiva, cosa rara nei film yankee, e — di nuovo — un apparato scenografico molto curato (per quanto rubacchiato qui e là senza pudore). Vabbeh, il dubbio restava. Fincher era un cialtrone o uno che s’impegnava poco? Chissà. Altra occasione, The Game, e altra incacchiatura. Anche qui qualche illusione e poi la certezza che eravamo stati presi un’altra volta per il naso. Ora arriva Fight Club e i pareri discordi mi stuzzicano. Accuse di fascismo, altre di nichilismo, altre ancora che difendono il film da queste accuse. Insomma, è da recuperare. Lo faccio e stavolta non ho proprio dubbi: Fincher è un mestatore, un professionista scaltro ad agitare le acque, che si serve di trucchetti per strizzare l’occhiolino a certa critica e per passare come intelligente. Insomma: che si dibattesse sulla paternità ideologica di certe rivendicazioni presenti nel film è veramente assurdo, dal momento che Fincher non si cura per niente di ciò che dice: a lui importa spararla più grossa, far chiasso come un moccioso di merda che vuole attirare l’attenzione degli adulti. Sicuramente il testo di Palahniuk da cui il film è tratto — che non conosco, ma chi conosco me ne parla bene – avrà una sua coerenza e una credibilità. Qui, invece, non si crede un attimo alla sincerità di chi racconta (personaggio e regia). Il bravo Edward Norton è il protagonista principale, un senza nome che ci racconta la sua storia: vive facendo un lavoro turpe e non riesce a dormire. Dopo una parentesi in cui frequenta gruppi di ascolto e sostegno per tutti i disgraziati della terra, incontra Tyler Durden (Brad Pitt), uno strano tipo che gli farà vedere la luce a suon di mazzate. Per sentirsi vivo anche Norton si mena di brutto e capisce che il dolore fisico è l’unica maniera per apprezzare nuovamente i valori della vita. A questo violento vitalismo si accompagna anche il rifiuto del sistema dell’accumulo e del possesso. I due fanno proseliti e i Fight Club – ring dove ci si pesta come fabbri – si diffondono nel paese. Ma il protagonista ha un tardivo ripensamento e prova a fermare Tyler che ormai ha organizzato un piano per far crollare palazzi, banche e, di conseguenza, conti e carte di credito, per rendere tutti uguali e senza un soldo (ma la differenza sta in chi detiene i mezzi di produzione, bestie!). Norton si spara e uccide il suo alter ego, Tyler, il lato oscuro che aveva saputo salvarlo dall’omologazione. Ma scoppia tutto e il film finisce con un ultimo sberleffo: un fotogramma subliminale di un grosso membro virile. Il cazzo: cioè quello per i protagonisti del film e per Fincher rappresenta il massimo sfregio alla tranquillità pacifica dell’integrato moderno, un fotogramma pornografico in un film mainstream (a Fincher il concetto di ipocrisia non deve neanche sfiorarlo). Bene, quel bel membro lo userei volentieri per schiaffeggiare a cazzate questo mascalzone; che qualcuno si sia poi sforzato di prendere sul serio il bailamme ideologico del film rasenta il ridicolo. Per il resto? Qualche momento di pausa e qualche sotto traccia narrativa sviluppata alla carlona, in un film che riesce a intrattenere per più di due ore e spaventa assai quando appare la faccia di Helena Bonham Carter. Se non ci si fa domande questo è un film americano molto flashy e anche abbastanza entertaining, ma se gratti la superficie sotto c’è solo tanto mestiere e furbizia. (Vhs da Tele+; 23/11/00)
P.s. di qualche mese dopo: ripensandoci… no. Però lo rivedrei.
48 – Il signore del male dell’efficace John Carpenter, USA 1987
A neanche una settimana da Distretto 13, altro Carpenter, altro giro. La cugina Alessandra caldeggia la visione da anni e come dirle di no? Una chiesa di periferia: nella cripta una teca che contiene un liquido verdastro (e che solo io potrei ritenere uno shampoo) e un libro che promette rivelazioni. Un gruppo di fisici e studenti viene portato lì da un prete leggerissimamente preoccupato. E infatti dopo poco ci si rende conto che se esiste l’antimateria, esiste anche il Male assoluto. È solo dietro lo specchio e sta venendo dalla nostra parte del mondo, quello “positivo”. Questa la semplice motivazione narrativa di un horror che poi, se volete, si banalizza e percorre i soliti binari del genere. Ma, ossignur, che gran paura: era tempo che non strizzavo a questa maniera. L’adesione agli stereotipi del genere c’è tutta: i personaggi gironzolano da soli e si fanno ammazzare uno per volta, il male si diffonde con appetitose vomitate tipo L’esorcista, c’è l’agnostico che viene punito e c’è l’eroe che rimarrà con l’incubo. Carpenter gira con pochi soldi e tira fuori il meglio: pochi effetti, anche infantili, ma perfettamente funzionali. E, al solito, scrive, dirige e compone anche la musica. Curiosità: una strizzata d’occhio ai fan dei Blue Öyster Cult (il loro simbolo, lo stesso di Kronos, è quello del signore del male) e cameo di Alice Cooper che, senza trucco, è quasi più brutto di certi zombie (truccati, è ovvio) che gironzolano attorno alla chiesa. Film hard rock niente male, anzi. (Vhs da Retequattro; 24/11/00)
50 – La ragazza sul ponte del lezioso Patrice Leconte, Francia 1999
Una ninfomane aspirante suicida e un tenebroso lanciatore di coltelli: s’incontrano su un ponte di Parigi, lei si butta, lui la recupera. Attendibilissimo. Lui la convince a seguirlo e a lavorare assieme. Da Montecarlo a Sanremo (fischia!) a una crociera, dove si dividono. Lei crede di aver trovato finalmente l’amore della sua vita. Lui non riesce più a lanciare coltelli (vorrà mica dire che non gli rizza più l’uccello? Naaaa). Finisce a Istanbul e quando deciderà di buttarsi nel Bosforo, chi ti arriva? Ma ovviamente lei, che ha capito che l’unico che può amare è lui, il solo che non l’abbia toccata, se non coi coltelli che le lanciava addosso. Fiaba onirica e stronzata tangibilissima, senza mezzi termini. Leconte si lancia in una storia scintillante delle luci del circo e del mondo degli artisti ambulanti, quelli che fan tanto chic sullo schermo e che per la strada la gente evita con fastidio. Sceglie un attore come Auteuil che ormai tende al gigione e un’attrice presunta gnocca e invece sexy come un inginocchiatoio coi ceci. Fotografa il tutto con un bianco e nero abbacinante e ne viene fuori un film leccato, tutto di confezione e di nessuna verità, che cerca il bizzarro a ogni costo. Dopo un po’ scoccia e finisce per irritare. Lei ha il musetto infantile, gli occhi sgranati e la dentatura sconnessa di Vanessa Paradis. Film inutile. (Vhs da Tele+; 26/11/00)
51 – Dancer in the Dark del calcolatore Lars von Trier, Danimarca/Svezia/Francia 2000
Mi prendo il privilegio di una visione pomeridiana: Von Trier merita questo e altro. Fuggo da Cologno Monzese come un profugo e alle 14 e 30 arrivo all’Eliseo, sala in cui mai son stato prima. Cinema enorme, con lo schermo convesso (e un operatore che dormicchia), sedili troppo distanti l’uno dall’altro, bagni mediocri e arredamento dallo strano disegno. Del resto la sala è in salita. Tutto molto molto Dogma. Prendo posto assieme ad altri 14 sparuti spettatori, per lo più pensionati che avranno approfittato delle riduzioni di prezzo pomeridiane e “perché è un musical”. E in effetti Dancer in the Dark è un musical, ma uno strano tipo di musical. Tutto il cinema di Von Trier funziona sempre anche a livello metacinematografico: The Kingdom non era solo un horror ibridato con una soap opera e una sit-com: era anche una riflessione su tutti questi generi. E così anche Le onde del destino, straziante melò che ragionava sul melò. Ora, Dancer in the Dark è una storia drammatica in cui la sfigatissima protagonista trova sollievo solo con l’aiuto della musica, in particolare modo quella dei musical, perché nei musical tutto è bene quel che finisce bene: Von Trier lo dimostra ma con qualche tocco personale, come se uno chef mettesse uno spicchio d’aglio nella macedonia, ecco. Selma sta diventando cieca per una malattia congenita. Emigrata dalla Cecoslovacchia nell’America degli anni Cinquanta, lavora duramente per poter operare il figlio ed evitargli la cecità ereditaria. Ma il vicino di casa le ruba i soldi messi da parte e così Selma è costretta a ucciderlo per riaverli indietro. La beccano e la condannano a morte, ma a Selma rimane la certezza che il figlio vedrà ancora perché il medico che dovrà operarlo ha ricevuto i soldi. La trama strazzacore evoca Magnifica ossessione, le interpretazioni sono intensissime, le musiche di Bjork geniali (il musical in versione postmoderna e industriale). Però Von Trier – per conto mio – calcola tutto un po’ troppo. Era più di un mese che amici e conoscenti vari, ben sapendo la mia predilezione per il genietto danese, mi chiedevano cosa pensassi del film in questione. Tutti a dirmi: vedrai come ti prende, come piangi. E invece non mi sono così emozionato. Per tutto il film ho sentito come un ricatto emotivo e una freddezza narrativa troppo distante. Forse il problema è mio, ma m’è sembrato tutto molto cerebrale. Che poi sia un trucco per farti sciogliere quando all’improvviso la narrazione si distende e diventa più dolce (come nelle solari parti musicali) o si contrae per il dolore e diventa più straziante (l’esecuzione finale), è possibile, ma ancora di più evidenzierebbe l’esercizio stilistico piuttosto che la partecipazione vera. Non so… come fai a non trovarlo bello? Dancer in the Dark è a tratti folgorante o intensissimo, ma nel complesso non m’ha convinto. Boh. Menzione speciale per Bjork, bravissima e perfetta per il ruolo, con quella faccia un po’ eschimese, le manine piccole e cattive e l’instabilità psicologica cui credi subito… (l’avete vista quando in un aeroporto ha menato di brutto una giornalista? Gran scenata da isterica vera e botte da orbi). (Cinema Eliseo, Milano; 30/11/00)
52 – Viale del tramonto del grande Billy Wilder, USA 1950
Precisiamo subito una cosa: il classico di Wilder non inizia con la dichiarazione che chi sta parlando è morto. Si può intuire – se si è un po’ più svegli di me – ma lo scopriremo esplicitamente più avanti e chi dice il contrario mente sapendo di mentina. Questo per puntualizzare che alcuni manuali, enciclopedie e storie del cinema sono compilate da gente che il film lo ha visto distrattamente: qualcuno s’è sbagliato la prima volta e tutti ad assumere per vera la faccenda, senza verificare. Comunque il commento off ci accompagna al 10026 del Sunset Boulevard. C’è un corpo che galleggia in una piscina e la voce si premura di farci sapere la verità, prima che stampa e televisione si approprino della notizia distorcendola. Dunque: Joe Gillis è uno sceneggiatore in bolletta. Finisce per caso nella residenza di una diva del muto, Norma Desmond, lontana dalle scene da vent’anni. Rimane invischiato nella torbida atmosfera della casa, ospite con conti pagati, prigioniero della vecchia pazza che vuole tornare alla ribalta con un drammone come la Salomé, con lei stessa come protagonista principale. Wilder dà la parte a una vecchia gloria del cinema muto, la Swanson, e gioca con un cast di illustri vittime del passaggio al sonoro. C’è il magnifico Von Stroheim, Keaton finalmente parlante e tanti altri. Wilder è come al solito cinico e per un mondo di morti, sceglie come prigioniero uno sceneggiatore mediocre, una mezza calza che da quel mondo viene irretito perché anch’egli già morto, già senza speranza in una Hollywood spietata. Film dalla trama ricchissima di notazioni, intelligente e tagliente, ha anche ritmo e attori perfetti, grandi dialoghi e scenografie azzeccate. E ci volevo io per dirvelo? (Vhs da Retequattro; 1/12/00)
53 – Pane e cioccolata del per niente banale Franco Brusati, Italia 1974
A prima vista Pane e cioccolata sembra un film sull’immigrazione italiana in una terra ostile, l’odiosa Svizzera, terra di intrighi, segreti bancari e altro, eppure così pulita e silenziosa. Invece c’è qualcosa di più che emerge pian piano dallo sviluppo della storia. Manfredi è Nino, da anni in Svizzera e incapace di integrarsi. Subisce vessazioni tremende, sempre ricattato a causa della mancanza del permesso di lavoro (storia vecchia che nessuno, ora, vuole ricordare). Ma non demorde: ammira gli svizzeri, vuole diventare uno di loro al punto che, anche dopo l’ultima fuga verso l’Italia, non saprà che tornare indietro. Quello che del film sorprende piacevolmente è la capacità di rimanere in equilibrio: non c’è una terra ospite solo brutale e una madre patria lontana e idealizzata, no, c’è una Svizzera interiore che Manfredi cerca disperatamente e un’Italia vera, reale, tangibile, che fugge. La fugge anche il miliardario in bancarotta (un Dorelli molto misurato) e i tanti minatori, ma non è un problema di soldi o di razza (perché c’è sempre qualcuno più a sud). Lasciamo Manfredi all’uscita della galleria che lo porterebbe in Italia, così come Chaplin ne Il pellegrino rimaneva a cavallo del confine. Qui si parla di qualcuno che è un vero estraniato, dovunque si trovi, perché i difetti di classe non te li abbona nessuna democrazia. E non solo: è un estraniamento esistenziale, questo. Camus, capito? Mi rendo conto che sta venendo fuori un pastrocchio senza molto senso, ma voglio dire che Pane e cioccolata ha un significato più complesso di quello che si potrebbe attribuirgli a prima vista. Il racconto procede tra episodi tragici, altri grotteschi, con Manfredi a suo agio. Brusati ogni tanto sceglie anche la strada del surreale (gli italiani che vivono nel pollaio in adorazione dei rampolli del padrone, belli e biondi) e riesce ad essere più incisivo di quando fa stretta satira sociale. Buon film, con qualche incertezza (tutta la seconda parte) che però ben riflette quelle del protagonista. (Vhs da RaiTre; 2/12/00)
55 – Placido Rizzotto del coraggioso Salvatore Scimeca, Italia 2000
Un western: Placido Rizzotto è un western, ambientato nella Sicilia del dopoguerra. A inizio film Scimeca ricorda agli spettatori che la storia che andrà a narrare potrebbe essere ambientata in tante terre di oggi, tutte terre del terzo mondo. È una storia di mafia, ma soprattutto di potenti contro deboli, di un sindacalista contro i latifondisti. E proprio perché è una storia che si ripete in tanta parte del mondo, Scimeca la racconta senza paura di usare certi stereotipi narrativi, con personaggi molto definiti, troppo buoni o cattivi: questa è una ballata talmente crudele che non ci si possono permettere ambiguità. E alla fine del film (dopo un Rashomon siculo, giustamente pirandelliano) scopri che i tanti personaggi che non avevano un nome o lo avevano avuto di sfuggita erano persone ben note nella storia del nostro paese, colpo di scena che invera l’archetipo narrativo che fin lì abbiamo seguito. Molto, molto bello. Povero, girato con poco, ma con tantissima forza, passione e capacità di fare scelte estetiche rigorose e assolutamente gratificanti: ci s’incanta davanti alla semplicità e alla purezza dei film iraniani? Scimeca è altrettanto limpido e rigoroso e sa dare alla storia un ritmo che un film iraniano non avrebbe neanche con l’avanzamento veloce (non c’entra niente e non voglio fare polemica, ma m’è venuta così: è un periodo che scrivo poco e peggio del solito). Insomma, gran bel film, che incalza lo spettatore, lo emoziona, lo commuove, lo disorienta. Ci sono belinate che offenderanno gli schizzinosi: qualche recitazione un po’ impostata, alcuni errore del trovarobato e negli arredi o quella discutibile didascalia finale in cui Dalla Chiesa viene indicato come il principale autore della sconfitta del terrorismo in Italia (posto che la democrazia vinse con metodi da dittatura cilena, Dalla Chiesa venne rimosso dall’incarico ben prima che la lotta armata fosse neutralizzata). Difettucci che hanno poca importanza di fronte all’ottima riuscita di un film coraggioso. Grande Scimeca. Film visto al Nuovo Orchidea, piccola sala d’essai con buona proiezione, sedili vicini come al Cineclub Lumière e architettura da rifugio atomico. È vicino a casa, è comodo e ha una bella programmazione: promosso. (Cinema Nuova Orchidea, Milano; 11/12/00)
(Continua — 4)