(Smells Like Skunky Spirit)*
della Redazione di Carmilla
«Qui a Berlusconia, tra fandonie e miti, tra spettri ed epifanie del Maligno, tra risentimenti e narcisismi è in corso da un pezzo una vera e propria guerra all’intelligenza, dove ogni ragionamento di un qualche spessore è tacciato di sabotaggio o di spregio dell’umore popolare». Così Marco Bascetta, difendendo la pubblicazione per manifestolibri del libretto Eroi di carta [158 pp., € 18.00, d’ora in poi EdC], stigmatizzava gli attacchi all’autore, il professor Alessandro Dal Lago («La libertà negata di criticare Saviano», manifesto, 30 maggio 2010).
Lasciamo perdere il termine “Berlusconia”, usato in difesa di un libro che individua (non a torto) nella «personalizzazione e simbolizzazione» della politica sotto forma di un continuo referendum pro o contro Berlusconi «il segnale della vittoria strategica del berlusconismo» [EdC p. 148], e cerchiamo di capire dove stiano i risentiti e i narcisi, a quale intelligenza si dichiari guerra, e soprattutto come siano questi ragionamenti «di un qualche spessore».
Eroi di carta è un libro la cui ambizione è inversamente proporzionale all’agilità. In circa 150 pagine, dietro le quali viene dichiarata un’opera di ricerca e studio di quasi tre anni, l’autore si propone non solo di smitizzare e demistificare (“desantificare”, potremmo dire) il libro Gomorra [d’ora in poi G], la figura del suo autore, e l’intero movimento letterario «nazional-popolare» del quale Gomorra è parte: vale a dire quel «cappello messo sopra correnti e autori che aspirano ad allargare la nicchia della narrativa “di qualità” o supposta tale» [EdC p. 149], e cioè il New Italian Epic: Il caso Gomorra e altre epopee è infatti il sottotitolo del libro.
Di più: in una lettera al manifesto, il professor Dal Lago si attribuisce il merito di aver svelato, nella sua «ingenuità di sociologo che si immischia di letteratura», la formazione, alle spalle dell’icona-Saviano, di «uno schieramento politico-culturale molto, molto consensuale che prepara il nostro futuro»: il che giustificherebbe il «putiferio» suscitato dal suo opuscolo. Per uno che diffida delle detection e soprattutto dei Grandi Complotti, non è cosa da poco [1].
È un fatto che questo libretto abbia ricevuto molte critiche. Alcuni lo hanno criticato senza averlo letto, altri ( Adriano Sofri, Severino Cesari, Helena Janeczek) con argomenti puntuali e precisi. Noi di Carmilla, che certo non siamo sospettabili di simpatie per il presunto “partito Repubblica-L’espresso” (o per altri cosiddetti “giornali-partito”), lo abbiamo letto con molta attenzione (come avevamo letto con molta attenzione Gomorra), rimanendo talvolta stupiti per l’incredibile sciatteria editoriale del testo [2], che fa il paio con la mancata verifica delle affermazioni dell’autore: cosa che non ci saremmo mai aspettati da una casa editrice piccola ma combattiva come manifestolibri.
0. INTRODUZIONE: LA VERITÀ ESISTE, E ANCHE LA MENZOGNA (Load up on guns and bring your friends)
La tesi di fondo del professor Dal Lago è che il «dispositivo Gomorra» sia «una macchina-di-scrittura che produce un certo effetto di verità» basata su «un dispositivo narrativo a tre prime persone» – l’io narrante, l’autore e il «Saviano in carne e ossa») — «che vincola il lettore proprio in virtù dell’ambivalenza della narrazione» [EdC p. 36]: «Quasi ad ogni pagina, un lettore ingenuo potrà chiedersi: “Ma sarà proprio successo? Sarà proprio vero?”. Al che la trinità risponderà: “lo dico io!”» [EdC p. 32].
A produrre questo effetto di verità sarebbero le «capriole dell’io narrante» che con un abile gioco delle tre carte illude il lettore (che, non dimentichiamolo, è presupposto ingenuo: non ha ancora letto il professor Dal Lago) confonde la rappresentazione con la realtà rappresentata [EdC p. 41].
Non c’è bisogno di ammiccare, come il professor Dal Lago fa, a Montaigne e Foucault per sapere che ciò che chiamiamo “verità” — ogni verità — è un “effetto di verità”. Il che non impediva a Michel Foucault di prendere posizioni politiche, firmare appelli, partecipare a manifestazioni radicali (o a Montaigne di sapere che l’Italia esiste e ci si può fare un viaggio). Insomma, per dirla con Victor Serge [3]: «nonostante tutto, la verità esiste».
Se la verità non esistesse non esisterebbe neanche la menzogna, e ogni affermazione sarebbe avvolta in una nube di indistinzione: verrebbe legittimato quel «regime della stronzata» che avvolge in un disordine simbolico ogni affermazione, facendola dipendere dall’autorevolezza (presunta) di chi la afferma.
Ora, tra i differenti “effetti di verità” ce ne sono alcuni che sono allo stato dei fatti indiscutibili e non richiedono particolari strategie per essere creduti, altri che richiedono un certo sforzo argomentativo e persuasivo, altri che necessitano di una vera e propria battaglia non solo retorica, ma pratica per essere creduti, o anche solo per poter essere affermati. Tre esempi:
– che la terra giri attorno al sole è un “effetto di verità” che corrisponde di fatto a qualcosa che potremmo chiamare “lo stato di cose esistente” (non è una mera “rappresentazione del reale”): ma lo è per effetto della progressiva affermazione di una mentalità logico-scientifica che ha soppiantato quei “giochi di verità” che rendevano credibile (all’interno del complesso di corrispondenze e analogie astronomico-teologiche medievali) l’ipotesi geocentrica.
– che il vivente sia il prodotto di un’evoluzione darwiniana era, fino a poco tempo fa, un “effetto di verità” paragonabile all’affermazione di Copernico e Galilei: con tutta evidenza, oggi ci sono situazioni nelle quali questa affermazione richiede di essere argomentata, a fronte di nuovi tentativi di sovradeterminare la scienza con la fede.
– che a Milano il 12 dicembre 1969 sia esplosa una bomba all’interno di una banca è un “effetto di verità” che non richiede particolari sforzi per corrispondere al reale stato delle cose. Che questa bomba sia stata progettata e depositata dai militanti di un’organizzazione neo-fascista di nome Ordine Nuovo è in primo luogo una “verità storica”, che da alcuni anni corrisponde a una “verità giudiziaria”: un “effetto di verità” che ha richiesto un lungo tempo per prevalere. Che dietro questa organizzazione ci sia stata una rete di servizi segreti, deviati o meno, circoli politici nazionali e internazionali, complicità, connivenze, ecc., è un “effetto di verità” che ancora oggi richiede un impegno politico e argomentativo da parte di chi lo afferma: quantomeno perché questa verità storica non è diventata, se non per singoli aspetti, una verità giudiziaria. Banalizzando: sappiamo i nomi delle vittime, il nome degli ideatori della bomba, non sappiamo “ufficialmente” (anche se crediamo di saperlo) il nome di chi ha depositato la bomba, non sappiamo i nomi (non tutti), ma solo l’area di appartenenza politica, di chi ha mandato, o utilizzato, o lasciato fare a Ordine Nuovo.
Gomorra si situa all’interno di un campo di forze di questo tipo: dove, per capirci, l’esistenza della camorra, la sua rilevanza, la sua pericolosità richiede argomenti dimostrativi per essere accettata. Le prime inchieste di Roberto Saviano, pubblicate su Nazione Indiana, manifesto, Diario tra il 2003 e il 2005 (citate da uno storico autorevole come Francesco Barbagallo, di cui Saviano è stato allievo), denunciano delle verità storiche che non sono ancora rafforzate dal carattere di verità giudiziaria, tanto meno dal sentire della pubblica opinione. Nondimeno, ciò basta ai clan casalesi per mettere nel mirino il giovane cronista, la cui vita è minacciata ben prima della pubblicazione di Gomorra (con buona pace di chi, come il professor Dal Lago, finge di non saperlo). Tra le prime inchieste e la pubblicazione del libro un fatto nuovo produce un rafforzamento dell’effetto di verità delle parole di Roberto Saviano: la sentenza di primo grado del processo Spartacus. Dopo l’uscita di Gomorra, la sentenza di secondo grado, la conclusione di altri processi e l’attenzione della grande stampa sui clan di Casal di Principe rafforzano ulteriormente questo effetto di verità. Saviano descrive già la faida di Forcella e denuncia il ruolo di Salvatore Giuliano all’origine dell’assassinio di Annalisa Durante in un’inchiesta giornalistica nel 2004 («La brillante carriera del giovane di sistema», manifesto, 23 ottobre 2004), cosa che gli richiede una certa prudenza argomentativa; gli stessi fatti, all’interno di Gomorra, possono essere narrati in modo più esplicito [4]. In mezzo ci stanno il processo per la morte di Annalisa, la condanna per omicidio di Salvatore Giuliano (novembre 2005) e le minacce al giornalista Arnaldo Capezzuto [5].
La costruzione dell’effetto di verità di Gomorra non è dunque del tipo «È vero perché lo dico io»: non più di quanto sia vero che la terra ruota attorno al sole perché lo dice Galileo, o che il Lager di Auschwitz sia esistito perché lo dice Primo Levi, o che il Diario di Anne Frank sia autentico perché lo dice il padre di Anne. L’assenso alle affermazioni di Gomorra ha gli stessi tempi e le stesse modalità della pretesa di verità di ogni inchiesta, o contro-inchiesta [6]: ne sono garanti in prima battuta le stesse testate che le ospitano, e poi, a cerchi sempre più larghi, i diversi strati di verità (verità politica, storica, giudiziaria, di ragione e fattuale) che vengono via via conseguiti. In altri termini, non perché lo dice «l’autore di Gomorra», ma perché lo dicono (oggi) le sentenze del processo Spartacus, autorevoli libri di storia, i diversi magistrati che in queste inchieste si sono impegnati, un numero crescente di giornalisti che hanno indagato e scritto sull’argomento [7], fino alla conquista dell’opinione pubblica.
Ma ancora: la forza non solo persuasiva, ma veritativa delle parole di Gomorra sta nell’inserzione dei singoli particolari in reti sempre più ampie e complesse di fatti. Nella capacità di cogliere il particolare all’interno di una sempre più ampia e generale comprensione. Così la presunta “leggenda metropolitana” del container pieno di cadaveri cinesi trova la propria plausibilità e ragionevolezza nell’essere non una singola e isolata affermazione, ma parte di una ricostruzione a tutto tondo del porto di Napoli, dei traffici che esso contiene, e del ruolo della criminalità cinese, che ha trovato e trova numerose conferme nelle inchieste sul porto di Napoli e sugli import-export illegali tra Napoli e Cina, nonché nei trattati bilaterali di commercio Italia-Cina [8].
Il professor Dal Lago accusa l’autore di Gomorra di violare un patto implicito tra autore e lettore: «il lettore dovrebbe sapere se si sta muovendo in una realtà di carta o nell’ombreggiatura su carta della realtà» [EdC p. 35]. Nel primo caso si tratterebbe di «mera fiction», nella seconda di «docufiction (una storia vera e “scrupolosamente documentata” ecc. anche se romanzata)»: nel caso di Gomorra, invece, si tratterebbe di «docu/fiction, ovvero narrazione “a piega” in cui finzione letteraria e finzione documentaria si implicano, a ogni pagina, direi a ogni riga» [EdC p. 36]. E qui il lettore, che il professor Dal Lago suppone (o auspica) ingenuo, dovrebbe avere la buona creanza di non accorgersi che nel neologismo ottenuto con una crasi tra fiction e docufiction (un atto di poiesi linguistica che lo stesso professore nega all’autore di Gomorra) [9], la «finzione documentaria» prende il posto della «scrupolosa documentazione» prima ancora che questa documentazione sia svelata dall’acuto investigatore come fiction.
Però, con buona pace del professore e delle sue antiquate categorie classificatorie, è vero: in Gomorra i due livelli si confondono. Contro certa letteratura che «sembra fare tarantelle intorno alle questioni centrali del nostro vivere», l’autore di Gomorra dichiara: «tutto sommato non mi interessa far evadere il lettore. Mi interessa invaderlo. E mi interessa la letteratura più simile al morso di vipera che ad un acquarello di fantasie. Arrovellarsi sui territori delle definizioni di ciò che è letterario e di ciò che non lo è, tra combattimenti di accademici e filologi, ruzzolando nell’aia degli scrittori, può essere un’attività infinita senza soluzione alcuna». In fin dei conti, afferma Saviano citando Céline, «Ci sono solo due modi di fare letteratura [:] Fare letteratura o costruire spilli per inculare le mosche» («Se lo scrittore morde», Repubblica, 3 maggio 2007).
1. LA PESTE, I CINESI DI MERDA E ALTRI FALSI D’AUTORE (Hello, hello, hello, how low?)
Lo ripetiamo: la verità, nonostante il professor Dal Lago, esiste. E la menzogna pure. In questo secondo paragrafo ci occuperemo di smontare le pretese confutazioni di questo Lucarelli de noantri, parodia dell’auto-parodia del Lucarelli di Almost True [10].
Gomorra sarebbe pieno di falsi: l’«io-narrante», «mentre filma a suo piacimento in primo piano o in campo lungo, in soggettiva o semi-soggettiva, facendo capriole a ogni pagina, ci fa credere di essere un testimone oculare, mentre è lo sceneggiatore e il regista — e non potrebbe essere altrimenti — di una rappresentazione» (EdC p. 42). Gli errori scoperti dal professor Dal Lago dimostrerebbero l’inattendibilità del testimone oculare, una delle tre prime persone che compongono il complesso-Saviano. In seguito, queste decisive incongruenze sono state sminuite a «pagliuzze» (nel senso evangelico del termine: perché guardi la pagliuzza…) («Pagliuzze, travi ed eroi», manifesto, 17 giugno 2010) dallo stesso professor Dal Lago, la cui destra investigatrice non sa cosa pensa la sinistra evangelica.
Come abbiamo visto, non è la semplice presenza del testimone oculare a sorreggere l’effetto di verità di Gomorra: ma è istruttivo occuparcene, non per passione verso le «considerazioni notarili», ma per gettare un po’ di luce sul metodo di lavoro dell’autore di Eroi di carta, al quale si attribuiscono «intelligenza» e «ragionamento di un qualche spessore».
A p. 50, il professor Dal Lago fa notare che il vestito di Angelina Jolie alla notte degli Oscar del 2004 non è un tailleur, come si dice in Gomorra (p. 46). Infatti Dal Lago confonde gli Oscar del 2004 con quelli del 2001 [a destra, i tre abiti indossati da Angelina Jolie le tre volte che ha partecipato agli Oscar].
A p. 48 il professor Dal Lago cita un passo in cui l’autore di Gomorra parla delle flatulenze e del cattivo odore di due malavitosi cinesi (G p. 20): un passo di quattro righe sulle oltre 1.200 dei primi due capitoli. Il professor Dal Lago lascia però intendere che lo stile dell’intero Gomorra trasmette «un disgusto, in virtù del quale una certa umanità è vista alla stregua di materia fecale. Non le merci globalizzate, ovvero la merda cinese, sono al centro del primo capitolo, ma i cinesi di merda» (EdC pp. 48-49). «Cinesi di merda» è un’espressione non di Gomorra, ma del professor Dal Lago: che costruisce così l’immagine di comodo di una riduzione all’animalità, dunque implicitamente razzistica, dell’Altro [11].
A rafforzare questa pretesa sovrabbondanza di materiale di basso registro, a p. 70 (nota 79) il professor Dal Lago afferma che «Quella dei “succhi gastrici” è un’immagine che torna spesso nei testi o nelle dichiarazioni di Saviano», mentre a p. 18 afferma che «Saviano ama sintetizzare quello che succede in Campania» con la parola “peste”, «che per me sa tanto di Curzio Malaparte». Falso: “succhi gastrici” compare una sola volta in Gomorra (G p. 20), e due altre volte negli scritti successivi: solo tre volte in circa otto anni. E “peste”? In Gomorra una sola volta, e non come «metafora grossolana», ma come «peste bubbonica», proprio nel senso della malattia; nel resto della produzione scritta altre tre volte, una come metafora («questa peste dei rifiuti») e altre due come sinonimo del cancro: mai, dunque, nel senso preteso dal professor Dal Lago [12].
Nel complimentarci col professor Dal Lago per l’accuratezza delle sue schede di lettura e l’acribia dei lettori delle «diverse stesure» del suo trattatello, veniamo all’episodio dei “Visitors”. L’autore di Gomorra assiste alla scena in cui un camorrista prova su un gruppo di tossici la propria droga (G pp. 81-86). Il professor Dal Lago trova inverosimile che Saviano sia «visibile agli occhi dei Visitors, ma non a quelli di un delinquente in azione che si suppone all’erta, per di più armato: misteri della testimonianza oculare» (EdC p. 55). Il mistero in realtà è creato dal professor Dal Lago con l’accorta omissione, nel riassunto della scena, del passaggio in cui il camorrista, credendo morto il tossico che provava la droga, va via: «il tizio rientrò in auto dove l’autista non aveva neanche per un secondo smesso di zompettare sul sedile ballando una musica…» (G p. 84). Non contento di aver falsificato il resoconto, il professor Dal Lago (EdC p. 55) rinfaccia all’autore di Gomorra di aver fatto indossare nella stessa scena al camorrista dapprima «scarpe sportive nuovissime» e poi «stivali» (G p. 83). Senonché (lo ha osservato Severino Cesari) nel testo non ci sono «stivali», ma «stivaletti». E, con buona pace del professor Dal Lago, esistono scarpe sportive che hanno foggia di stivaletti: ad esempio le Converse; ad esempio le Hogan [a sinistra], brand di cui la camorra è non solo consumatore, ma anche produttore [13].
Infine, a p. 46 il professor Dal Lago cita un discorso che Saviano ha (avrebbe, come vedremo) tenuto davanti agli studenti dell’Onda. Di questo discorso viene riportato un estratto, dal quale sembra che Saviano esorti gli studenti a superare la divisione destra-sinistra, con riferimento agli scontri di piazza Navona (quando gli studenti dell’Onda furono aggrediti dai fascisti).
Prima perplessità: ci sono su YouTube spezzoni di quell’incontro, conclusione compresa: è possibile che questo appello “oltre la destra e la sinistra” possa suscitare un’ovazione da parte di un’assemblea politicizzata? Il professor Dal Lago era lì? No, non c’era. Si fida di un’agenzia Adnkronos, e neanche di prima mano, ma ripresa da Libero, peraltro riportata (misteri della lettura critica) con la data del 18 febbraio 2009 (EdC p. 113, nota 46). Ha fatto una qualche verifica, il professor Dal Lago, non foss’altro che per verificare se Libero riporta fedelmente l’agenzia? Macché: ha citato di terza mano! Se si fosse preso la briga di fare uno straccio di controllo (ma con la data sbagliata come si fa?), avrebbe scoperto che non si trattava del discorso all’Università, ma (come riportato dalle sue “fonti”) della discussione con Giannini al programma Il terzo Anello su Radio3 del 16 dicembre 2008. Del quale è possibile ascoltare la registrazione, per effetto della quale le cose appaiono leggermente diverse (il passo citato è verso il 13° minuto; la conversazione è di circa mezz’ora):
– Saviano non dice «la battaglia sulla criminalità è una questione che, moralmente, viene prima di tutto», ma esattamente il contrario: «è una questione che non viene prima di tutto» (nel senso che non è percepita come prioritaria).
– Saviano dice, subito dopo il passo riportato da Adnkronos e Libero, che alla ‘ndrangheta le divisioni tra destra e sinistra non interessano più: interessa che non si parli di ‘ndrangheta.
Con una citazione monca, un’omissione e il capovolgimento di una frase, il professor Dal Lago fa dire a Saviano tutto e il contrario di tutto!
Dopo di che, sia chiaro, a noi di Carmilla la formula «né di destra né di sinistra» non piace, chiunque la faccia propria: ma vorremmo anche ricordare che in quei giorni a farla propria era, sulle pagine del manifesto, Marco Bascetta [foto in basso a destra], tanto da suscitare le legittime proteste dell’Onda e del movimento studentesco [14].
2. LE STESSE COSE RITORNANO (I found it hard, it was hard to find / Oh well, whatever, nevermind)
«Aspetto fiducioso che qualcuno se la prenda con i miei argomenti e non con il fatto di aver scritto il libretto o magari con il suo titolo», scrive il professor Dal Lago in una lettera a Repubblica (2 giugno 2010).
In realtà quello che il professor Dal Lago aveva da dire, lo aveva già detto il 23 novembre 2008 in un’intervista su Liberazione. Alla quale aveva subito risposto Girolamo De Michele, con un articolo pubblicato sullo stesso giornale e, in forma più ampia, su Carmilla [15]. A quell’articolo Dal Lago si guardò bene dal rispondere, salvo inviare una stizzita lettera a Liberazione (3 dicembre 2008): eppure, al di là dei toni polemici, l’articolo (costruito utilizzando solo citazioni degli scritti di Saviano precedenti Gomorra, a dimostrazione che Gomorra non è uscito dal nulla) poneva delle questioni ben precise. Nel suo libretto il professor Dal Lago per due volte sfiora quelle obiezioni, liquidandole dapprima come «querelle insignificante» (EdC p. 106) e poi riportandole con lo stile consueto dei morceaux choisis (EdC p. 90), montando le parole iniziali con quelle finali per far credere al lettore che si tratti di una sequela di improperi, peraltro diretti unicamente sul solo professor Dal Lago, il cui ego ipertrofico spesso e volentieri esorbita [16].
Riprendiamo qui quegli argomenti, che a loro volta riassumevano tre anni di interventi critici su Gomorra apparsi su Carmilla.
Gomorra sarebbe incentrato sull’ipertrofia di un io narrante uno-e-trino: falso. «Gomorra condivide gli strumenti linguistici del noir (la paratassi, il linguaggio cronachistico) per dar voce all’inchiesta (all’esperienza vissuta); ma ibrida questo linguaggio col tu impersonale per coinvolgere il lettore nella comunicazione di un’esperienza potenziale, e infine usa l’io dell’esperienza diretta del narratore come una sorta di experimentum crucis che salda i tre livelli nella complessità narrativa richiesta dalla complessità dell’oggetto narrato».
Gomorra parlerebbe di cose “già note a tutti”: falso. «Gomorra è un testo innovativo nel contenuto e nel metodo, connette in un disegno d’insieme sparse membra di un disegno la cui interezza era sconosciuta alla pubblica opinione: guardare un outlet e vedervi una discarica abusiva; scoprire i segni evidenti della penetrazione camorristica non solo in Campania, ma nella grassa Emilia; trovare in una discarica abusiva le stigma della Lombardia, del Veneto, dell’ecologissima Toscana. Capire le relazioni tra il mercato cinese, il crollo del muro di Berlino, le carpe di mare che risalgono i fiumi campani, il boom edilizio: e raccordare tutto questo, con un unico tratto, ai clan di Casal di Principe e Secondigliano». In Gomorra sembra essere all’opera lo stesso schema con quale, in Verso un’ecologia della mente, Gregory Bateson metteva in relazione guerra, devastazione dell’ambiente e impoverimento della popolazione attraverso la perversa interazione tra hybris e soluzione tecnica (qui potremmo dire: militare) del governo della popolazione [17].
Le dinamiche del “sistema-camorra” sono l’esatto opposto della rappresentazione piramidale nella quale la camorra sarebbe il Male assoluto dal quale discenderebbe «tutto il male del mondo» (EdC p. 12), come il professor Dal Lago crede di leggere, e come racconta sia scritto, in Gomorra.
Il professor Dal Lago preferisce, dopo aver sorvolato sulle obiezioni e aver falsificato il testo esaminato, crearsi un avatar a immagine e somiglianza della critica che è in grado di fare. Attraverso una riduzione del testo all’autore distoglie l’attenzione dai contenuti di Gomorra e ne impoverisce la comprensione: com’è noto, è più facile criticare l’individuo che l’opera. Una lettura retrospettiva di Gomorra alla luce dell’attuale esposizione mediatica di Saviano è profondamente scorretta, non solo perché usa il trucco retorico del “senno di poi”, ma soprattutto perché, nei modi in cui viene attuata, non tiene conto della ragione di questa esposizione: come scrivono i Wu Ming, «Saviano deve apparire di continuo per tutelarsi, l’ombra e l’oblio sono per lui un pericolo. Tuttavia, l’inevitabilità non deve impedire di cogliere limiti, aporie, contraddizioni» [18].
Questo avatar-Saviano è, sostiene il professor Dal Lago, un assertore dell’esistenza del «regno del Male» (EdC p. 29) [19], della «categoria del male radicale» (EdC p. 86). La descrizione della vita del camorrista, o dell’aspirante tale, la banalità dei riti quotidiani di queste figure, la ricostruzione della genesi dei clan non da qualche oscuro e misterioso mondo, ma da processi economici e sociali di cui è ricostruibile la razionalità, la descrizione dei boss della camorra non come dei Super-uomini eccezionali, ma come individui comuni, persino banali, in realtà dimostra il contrario: Gomorra si inscrive proprio all’interno di quella costellazione di testi che utilizzano la categoria della «banalità del male». Per sostenere il contrario il professor Dal Lago prende queste frasi dalla chiusa di un articolo in cui Saviano ha mostrato la quotidianità del male nella continua osmosi tra vita ordinaria e vita criminale: «Non ci resta da capire che, tragicamente, la quotidianità del male non avviene affatto in un mondo diverso da quello di ognuno di noi» [20]. E commenta: «Apparentemente è il discorso sulla banalità del male. In realtà è l’opposto. Non sono loro a essere come noi, gente qualsiasi, ma noi come loro, ovvero siamo tutti mostri, almeno in potenza. […] Ed ecco allora che la lotta alla camorra non è tanto affare di volontà politica, funzionamento delle istituzioni, impegno civile e bonifica sociale, quanto di percezione della profondità e dell’ubiquità del Male […] e quindi faccenda di eroi, Leonida e Beowulf contro l’Orco che è in noi o tra noi» [EdC pp. 86-87].
Ora, va bene che ciascuno, nel post-moderno, legge quel che gli pare e capisce quel che vuol capire, e che tutti i giochi linguistici sono pari. Ma, tanto per fare qualche verifica, Zygmunt Bauman in Modernità e olocausto (Mulino, Bologna 1992) scrive che «qualunque cosa sia accaduta nel “corso della storia”, non sono scomparsi quei fattori storici che con ogni probabilità contenevano la potenzialità dell’Olocausto, o almeno non possiamo essere sicuri che lo siano. Per quanto ne sappiamo (o, piuttosto, per quanto non ne sappiamo) essi potrebbero essere ancora presenti tra noi». E poco oltre: «esistono ragioni di preoccupazione poiché oggi sappiamo di vivere in un tipo di società che rese possibile l’Olocausto e che non conteneva alcun elemento in grado di impedire il suo verificarsi» [pp. 128, 130, corsivi nostri]. Sostenere che «siamo tutti mostri, almeno in potenza» equivale a dire che nessuno è immune dal diventare “nazista”, proprio nel senso della potenzialità del male individuata da Bauman e Arendt. Significa focalizzare l’attenzione sui meccanismi di comando (come quelli analizzati da Elias Canetti in Massa e potere) che trasformano questa potenzialità in azioni criminali non correlate dal possesso di una coscienza morale. Significa chiedersi cosa può portare ad anestetizzare la capacità di discriminare il “bene” dal “male”, o a sostituire questa coppia concettuale con quella “utile/inutile” o (come nell’estetizzazione fascista della politica: “A cercar la bella morte”) “bello/brutto”. E’ quello che ci si chiede in Gomorra. Trasformare questo nell’invenzione del Saviano-eroe significa operare una scelta di campo in favore della mistificazione, del capovolgimento del senso delle parole, dell’indifferenza deresponsabilizzante. E, all’interno di questa confusione linguistica e sociale che gli schizzi di fango gettati sull’autore di Gomorra aiutano a perpetrare, significa non cogliere la vera dimensione del cosiddetto “eroismo” di Roberto Saviano: come ha scritto Bruno Accarino, «ci è cascato addosso, disseminato tra i molti guai che dobbiamo fronteggiare, un nodo tanto imprevisto quanto elementare: quello del coraggio individuale. Imprevisto perché l’Europa, dopo appena un sessantennio senza scannatoi di guerra (al suo interno, per altri territori il discorso è diverso), ci ha detto inorgoglita: potete rilassarvi e abbassare la guardia. Ecco perché la figura di Saviano si gonfia in modo abnorme, i latini direbbero che si è inflazionata. La spettacolarizzazione mediatica lamentata da Marco Bascetta è l’altra faccia di una comunicazione politica che ha inasprito quei meccanismi sottili, notissimi epperò inscalfibili, di scoraggiamento, di dissuasione, di excommunicatio. È un’impresa titanica parlare, non mettere a repentaglio la propria vita: rompere la crosta delle tante cose linguisticamente e dialogicamente tabuizzate» («L’imprevisto del coraggio individuale», manifesto, 5 giugno 2010).
È senz’altro più facile ricorrere a quegli atti linguistici usati per gettare un discredito generalizzato sul loro oggetto, e che in tedesco vengono detti “Rufmord“: omicidio a mezzo di parole.
3. IL SOGNO DI UNA COSA: QUELLO CHE IL PROFESSOR DAL LAGO HA CAPITO DEL NEW ITALIAN EPIC (I’m worse at what I do best)
A questo punto, tocca occuparci di un aspetto, per certi versi marginale ma per altri significativo, del Grande Complotto che il professor Dal Lago ha scorto dietro Gomorra: la sua critica del New Italian Epic come un’epopea (o una collezione di epopee) in qualche modo funzionali al disegno politico che si delinea dietro l’unanimismo suscitato da Gomorra e dal suo autore. Il NIE viene analizzato come generalizzazione del caso particolare, laddove Gomorra sarebbe l’esemplificazione della tesi generale
Diciamola tutta: Dal Lago del New Italian Epic ha capito davvero poco, e forse neanche gli interessava capirci qualcosa. Per sua stessa ammissione, a lui «interessa stabilire, in sostanza, quale sia il ruolo della nuova epica nella cultura contemporanea, e in particolare di un paese speciale come l’Italia. La mia prospettiva è politica, ma in un senso molto particolare, perché mi interessa il potere della scrittura come strumento di confezionamento del gusto, di influenza sociale e, in fondo, di conformismo» [EdC p. 130]. Sintomatico è questo passo: «la contrapposizione dell’epica, italiana o no, al postmodernismo suona puramente convenzionale, dato che un buon numero di scrittori etichettati come postmoderni hanno attraversato a modo loro l’epica, ovviamente decostruendola, ironizzandoci sopra o giocandoci, visto che sono postmoderni» [EdC p. 127]. Sfugge al frettoloso lettore che questa contrapposizione nasce dal rifiuto dello strumento dell’ironia nella letteratura post-modern da parte di David Foster Wallace (bastava arrivare a p. 120 di New Italian Epic).
Del New Italian Epic si può, volendo, dire tutto, salvo una cosa: non è un “genere”, né intende fondare un “genere”. Non intende sostituire vecchie categorie con nuove, ma cerca di cogliere l’esistente (meglio ancora: il passato prossimo) di una certa narrativa italiana al di là delle categorie interpretative. Per Dal Lago invece, il New Italian Epic consterebbe di due correnti principali: il «giallo democratico italiano» e il «romanzo storico», che possono essere partitamente esaminate. Per entrambe, secondo il professor Dal Lago, vale una pagina di Gramsci tratta dai Quaderni, nel quale Gramsci riflette sull’aspirazione all’avventura come categoria, e ne trae la conclusione che anche per Gramsci la letteratura d’evasione abbia un significato catartico.
Peccato che Gramsci, in quella pagina, stesse sì esaminando una simile tesi (attraverso articoli di Sorani e Burzio), ma per criticarla come una tesi che «spiega troppo e quindi nulla», ignorando gli aspetti positivi del fenomeno [21]. Ma tant’è: anche nel citare Brecht e Benjamin, il professor Dal Lago omette di ricordare che questi pensatori avevano una considerazione decisamente positiva del romanzo poliziesco (Brecht, com’è noto, lo preferiva a Thomas Mann, e Benjamin intendeva scriverne uno). Come abbiamo già visto, il professor Dal Lago usa la penna tanto quanto la forbice.
Veniamo al «giallo democratico italiano». Al professor Dal Lago non sembra nota la distinzione tra “giallo” e “noir”, che invece noi di Carmilla abbiamo sempre avuto presente nella riflessione sul NIE. Con le parole di Jean-Patrick Manchette: «Nel poliziesco classico (ossia il poliziesco a enigma), il delitto turba l’ordine del Diritto, che bisogna restaurare scoprendo il colpevole ed “eliminandolo” dalla scena sociale. Con minore evidenza [rispetto al giallo], ma in maniera assai chiara, il noir è caratterizzato dall’assenza o fiacchezza della lotta di classe, e dalla sua sostituzione con l’azione individuale (necessariamente disperata). Mentre i delinquenti e gli sfruttatori detengono il potere sociale e politico, gli altri, gli sfruttati, la massa, non sono più il soggetto della Storia, e ricoprono per lo più “ruoli secondari”, socialmente marginali […]. Qui però la lotta di classe non è assente come nel romanzo poliziesco a enigma; semplicemente, gli oppressi sono stati sconfitti e sono costretti a subire il regno del Male. Tale regno è la scena del noir, all’interno della quale e contro la quale prendono forma gli atti dell’eroe». Ignorando ciò, il professor Dal Lago ci propone un minestrone nel quale Carofiglio, De Michele, il Coliandro di Lucarelli (peraltro confondendo il personaggio televisivo con quello romanzesco) e il Montalbano di Camilleri, Carlotto e Dazieri convivono pacificamente in romanzi nei quali «fissati i buoni, non è difficile individuare i cattivi» (p. 138): come nelle ricostruzioni storiografiche demistificate dalla critica dei vari Pansa, Veneziani, Giordano, insomma.
A quanto pare, il professor Dal Lago ignora che:
– uno dei testi-base del NIE fu Termidoro, una dura riflessione di Tommaso De Lorenzis sull’esaurimento del “poliziesco italiano” (e dalla penna di De Lorenzis l’ispettore Coliandro esce piuttosto male);
– il NIE ha presente Camilleri, ma non (salvo per il solo La vampa di agosto) il ciclo di Montalbano;
– in nessun modo Carofiglio può essere apparentato al NIE, non foss’altro che per essere il campione di quel poliziesco classico e consolatorio che il noir italiano ha sempre avversato.
Ma al professor Dal Lago interessa creare un genere che corrisponda alle «alleanze vincenti alle elezioni politiche del 1996 e del 2006, che andava dall’Ulivo alla cosiddetta estrema sinistra (compresa la rappresentanza di alcuni centri sociali)» (EdC p. 138): ecco perché Carofiglio gli è indispensabile.
Tutto questo cosa c’entra con NIE? Nulla: però è funzionale alle sue tesi.
Anche nell’analisi dei singoli romanzi Dal Lago alterna deformazioni a inspiegabili black-out cognitivi [22], che si spiegherebbero solo ipotizzando che i libri siano stati analizzati senza essere letti: il professor Dal Lago, che forse intende darsi alla carriera del critico letterario, ha già capito come funziona in Italia la critica. Si potrebbe redigere una lista, ad esempio, degli errori in cui incorre nell’analizzare Scirocco (del quale, per inciso, non ha capito né i personaggi, né la trama, e nemmeno il finale) [23] o nel riassunto della trama di Altai che sembra passare dalla quarta di copertina direttamente a p. 300, incamerando nel tragitto almeno uno sfondone storico: la caduta di Famagosta (1571) è data per “imminente” all’indomani dell’incendio all’Arsenale veneziano (1569), data in cui la guerra per Cipro non era nemmeno stata dichiarata. Ma queste sono inezie: ciò che ci preme mettere in luce è il modo in cui, col solito metodo dei morceaux choisis, il professor Dal Lago altera, sino a capovolgerlo, il senso dell’ autocritica che i Wu Ming hanno fatto sul G8 di Genova. Dal Lago rimuove completamente dal suo “riassunto” la questione centrale, cioè il mito tecnicizzato, una narrazione che i Wu Ming contribuirono (insieme ad altri: anche questo lo rimuove) a creare e di cui finirono, per loro ammissione, in balìa. Senza questa rimozione, sarebbe stato ben difficile torcere le loro parole pro domo sua. E così, Dal Lago riporta la frase dei Wu Ming: «Da quel giorno, abbiamo dedicato tempo e sforzi a stringere le viti del nostro progetto letterario, abbiamo scritto nuovi romanzi e saggi, abbiamo esteso e consolidato la nostra presenza nella cultura e nell’industria culturale di questo paese» (EdC p. 147) come dimostrazione di un sopraggiunto “disimpegno” del collettivo bolognese. Peccato solo che la frase sia monca. Proseguiva così: «Ben lungi dall’aver abbandonato la lotta, abbiamo comunque chiaro un intento: non faremo mai più i dottorini Frankenstein coi miti tecnicizzati.». Così facendo anche il NIE, per metonimia attraverso i Wu Ming, è al tempo stesso eroico e disimpegnato, egocentrico e consolatorio. È probabile che, dopo questo trattatello, il professor Dal Lago, assillato da nuovi impegni [24], non leggerà più altri nostri romanzi. Un vero peccato, per la narrativa italiana, perdere un lettore come lui.
4. SMELLS LIKE SKUNKY SPIRIT (It’s fun to lose and to pretend)
In un articolo dell’ottobre 2008, Nichi Vendola scriveva: «Non è colpa dei clan, dei Casalesi, della camorra: loro devono minacciare e uccidere, così esercitano la loro peculiare egemonia culturale e militare. Sono quelli che pensano che sei un esibizionista, che hai sfruttato brutte storie per fare quattrini, che ti sei arrampicato su quell’albero lurido e avvelenato soltanto per svettare. Loro è una colpa grave, nostra è una responsabilità non occultabile. Sono quelli che, galleggiando nella melma del cattivo “buon senso” e dei più vieti luoghi comuni, ti regalano la peggiore delle condanne: appunto una estrema, indicibile solitudine, quella che mette in apnea un’età, un’esistenza nata per cantare la libertà, un corpo che voleva solo danzare la vita» [25]. Questo articolo ha fatto infuriare il professor Dal Lago, che dopo aver sprezzantemente affermato «si sa, Vendola scrive poesie», ha aggiunto: «trovo le affermazioni di Vendola degne di un pulpito o di un confessionale». Perché «dire che la colpa delle minacce non è dei casalesi è pura retorica. No, è loro, e tutti ci auguriamo che siano assicurati alla giustizia. Loro è la responsabilità “non occultabile”, non la nostra [sic]» (EdC p. 13).
Strano che questo professore, dopo anni passati a scrivere di Hannah Arendt, non riconosca la struttura del corso che uno dei maestri di Arendt, il filosofo Karl Jaspers [foto in alto a destra], tenne sulla questione della colpa all’indomani della fine della guerra. Un corso in cui spiegò ai giovani tedeschi che si è colpevoli in quattro diverse modalità: c’è la colpa penale, che è questione di tribunali; la colpa morale, che riguarda la coscienza individuale; la colpa politica, che è collettiva; e la colpa metafisica, che discende dal senso di solidarietà verso i propri simili (quello che muove Clarice Starling ne Il silenzio degli innocenti, per intenderci).
Che il professor Dal Lago non senta alcun rimorso nell’assalire, con piglio dipietrista («io questo lo sfascio!», si sente spesso sussurrare tra le pagine del suo libretto), uno scrittore in costante pericolo di vita, ricorrendo ai più bassi trucchi del mestiere — omissioni, falsificazioni, uso scorretto delle fonti, vere e proprie menzogne — si spiega solo con un’immagine che lo stesso professore ci tramanda. Ironizzando su un riferimento a Tony Montana, il protagonista di Scarface interpretato da Al Pacino («avevo la sensazione ridicola che da una stanza stesse per uscire Tony Montana, e accogliendomi con gesticolante, impettita arroganza, stesse per dirmi…» G p. 272), il professor Dal Lago scrive: «Come un’arroganza possa essere insieme impettita e gesticolante non mi è chiara (provate voi, magari davanti a uno specchio, ad assumere con arroganza un’aria impettita e a mettervi a gesticolare — io non ci sono riuscito)» (EdC pp. 63-64, corsivo nostro).
Provate a immaginarvi il professor Dal Lago davanti allo specchio che cerca di atteggiarsi a Tony Montana e, non riuscendovi, non sospetta una propria inferiorità d’attore rispetto ad Al Pacino: no, se lui non ci riesce è impossibile, e tanto peggio per Pacino.
Ecco chi è l’uomo che sparò all’autore di Gomorra: un ego ipertrofico, esorbitante. Ci si potrebbe chiedere, alla maniera del vecchio Kant, cosa c’è nell’animo di un tale esorbitante individuo. O almeno, qual è l’odore che esorbita da un simile animo quando ironizza sul «Siamo tutti Saviano».
No, professor Dal Lago: «Siamo tutti Saviano» non la riguarda, non parla di Lei.
«Sono ancora vivo, bastardi», invece, sì.
NOTE AL TESTO
*Il titolo è una parafrasi del celebre L’uomo che uccise Liberty Valance, citato in esergo in Eroi di carta. I versi in inglese sono tratti o parafrasati dal testo di Smells Like Teen Spirit dei Nirvana.
1. Lettera al manifesto del 9 giugno; Norma Rangeri gli risponde: «Chi crede nella sua battaglia civile, come capita a molti e fra questi tanti ragazzi, si è sentito colpito direttamente dalla tua critica. Non vedo in questo nessuno schieramento preconcetto, piuttosto la reazione a difesa di una battaglia contro le mafie».
2. Per fare qualche esempio: citazioni prive del numero di pagina («La peste e l’oro, in BEI, p.», p. 111 nota 8), periodi che si concludono con i due punti che non introducono alcuna citazione (p. 151), segni di punteggiatura incongrui (come un «[…]» in mezzo al testo a p. 50), “hobbitt” con 2 “t” (p. 143), un articolo di Nichi Vendola citato con la data sbagliata (e con un titolo diverso, seppur di poco), dispacci d’agenzia post-datati, un film del 2007 (Grindhouse) indicato come ispiratore di una pagina di Gomorra, che è del 2006, una inesistente versione di What a Wonderful World dei Ramones indicata come conclusione del romanzo Scirocco. Eppure in una nota a p. 24 il professor Dal Lago ringrazia coloro che hanno letto le «diverse stesure del saggio, segnalandomi errori e imprecisioni», e addirittura un revisore del testo, Walter Baroni.
3. Citato da Saviano in «Come sta la verità nel paese di Gomorra», Repubblica 27 ottobre 2007, poi, col titolo «La verità, nonostante tutto, esiste», in La bellezza e l’inferno, Mondadori, Milano 2009, pp. 49-55. Dal Lago si guarda bene dal considerare il ruolo di questa frase, e del suo autore Victor Serge — rivoluzionario prima anarchico poi bolscevico anti-stalinista.
4. È notevole che il professor Dal Lago si sia aggregato a una campagna di delegittimazione di questa inchiesta incentrata sull’aspetto infantile o adolescenziale della vittima (che può essere verificato con una ricerca per immagini su Google), sul suo vestito, sui particolari del funerale: aspetti che tendono a nascondere il contenuto di verità dell’inchiesta. Non a caso Dal Lago cita come fonte Casertasette: un giornale che si occupa di don Diana in modo peculiare («con un debole per le donne? custode delle armi del clan?») e promuove un film dal titolo Un camorrista per bene.
5. O ancora: quando Saviano fa per la prima volta il nome di Nicola Cosentino (sul manifesto del 16 luglio 2004), di questo personaggio dice ciò che all’epoca può essere detto. Solo nel 2008 la verità storica può convergere verso quella giudiziaria, e del sottosegretario all’Economia e alle Finanze può esser detto, in forma dubitativa, che «sarebbe stato organicamente coinvolto nel business dei rifiuti gestiti dalla camorra casalese»: «Siamo tutti casalesi», L’espresso, 7 ottobre 2008.
6. Con buona pace di una certa sinistra che dimentica le sue origini dalla controinformazione degli anni Sessanta e Settanta (una per tutti: l’inchiesta La Strage di Stato) e oggi si rifugia in uno pseudo-foucaultismo d’accatto e in un decostruzionismo che scimmiotta Derrida: due strategie retoriche molto post-modern nel metodo e nella finalità. Il libretto del professor Dal Lago è del tutto interno a questo tipo di retorica.
7. Si veda ad esempio l’ampia rassegna di testi «Codice Gomorra», L’espresso, 22 febbraio 2008.
8. La presenza dei cinesi a Napoli è trattata nelle 36 pagine dei primi due capitoli di Gomorra, all’interno delle quali l’episodio del container occupa una sola pagina.
9. Afferma il professor Dal Lago: «ammetto che nelle questioni di stile sono un po’ pedante. La padronanza del vocabolario mi sembra il primo requisito di uno scrittore» [EdC p. 57]. E rimprovera all’autore di Gomorra di usare espressioni come «l’alito del reale» (G pp. 82-83: è una metafora, professor Dal Lago! Come dare a qualcuno della “testa di legno” perché non comprende, e non perché abbia il cranio ligneo), e soprattutto di aver coniato il neologismo “zompettare”, nel quale vede una «crasi di “zompare” (saltare) e “zampettare” (muovere le zampette)» [EdC p. 70, nota 76]: è un frequentativo, professor Dal Lago! Indica un’azione che viene ripetuta. E infatti si tratta di un personaggio che continua a “zompare” ascoltando musica. E si potrebbe anche aggiungere che l’uso di un termine di origine dialettale (“zompettare” invece che “saltellare”) indica non l’identificazione del personaggio con «una specie di insetto saltellante», ma, secondo il corretto uso della lingua, la presa di distanza dall’oggetto designato.
10. In questa divertente trasmissione televisiva Carlo Lucarelli affronta, con l’apparente serietà del conduttore di Blu Notte, le ricorrenti stronzate che costellano la storia del rock: Jim Morrison che simula la propria morte, David Bowie unico sopravvissuto di una setta di vampiri fondata da Andy Warhol, la morte di Paul McCartney, il complotto CIA per uccidere tutti i cantanti con la J (Jim Morrison, Jimi Hendrix, Janis Joplin, Brian Jones), ecc.
11. “Merda”, per inciso, è una parola che Saviano, sia in Gomorra che nel resto dei suoi scritti, usa con molta parsimonia, e solo una volta («uomini di merda», G p. 143: peraltro per riportare un’intimidazione altrui) riferita a esseri umani.
12. È bene precisare che la produzione scritta dell’autore di Gomorra, prima e dopo il libro, se integralmente stampata costituirebbe un volume di oltre 600 pagine; il corpus degli scritti di Roberto Saviano ammonta dunque a poco meno di mille pagine a stampa. Marco Travaglio ha scritto che «occorrerebbe un’analisi informatica delle ricorrenze e concordanze nell’intero corpus letterario e giornalistico dello scrittore» (Il Fatto, 17 giugno 2010): noi, prima di iniziare a scrivere questo testo, l’abbiamo fatta.
13. Frequenti sono in Campania i sequestri di fabbriche clandestine di Hogan “false”: un opificio di 200 mq ad Aversa nel settembre 2008, un altro a Maddaloni nel settembre 2009, un terzo tra Aversa e Lusciano, contenente materiale del valore di 200.000 euro, il 1 giugno scorso. Di un killer con le Hogan ai piedi Saviano scrive in un articolo citato dallo stesso Dal Lago (EdC p. 85).
14. «”Né di destra, né di sinistra”. Di questa definizione, da tempo utilizzata a piene mani dalla destra e dalla sinistra appunto, abbiamo imparato a diffidare. […] Accade ora che questa stessa espressione venga impiegata dall’imponente movimento di studenti, insegnanti e cittadini, che da settimane attraversa tutto il paese, per descrivere se stesso. Ma rovesciandone interamente il senso. […] Il conflitto “né di destra né di sinistra” che ha invaso scuole, università e piazze di tutta Italia comincia a trasformarsi in un incubo tanto per la maggioranza di governo quanto per le ombre dell’opposizione parlamentare. Dietro quell’espressione, fin qui tanto apprezzata dai moderati, si manifestano questa volta contenuti di libertà», Marco Bascetta sul manifesto, 29 ottobre 2009. Due collettivi studenteschi risposero con il testo “Bascetta e i cùculi”.
15. «Quelli che Gomorra è sbucato dal nulla», Carmilla, 30 novembre 2008; «Sinistra rancorosa, perché te la prendi con Roberto Saviano?», Liberazione, 2 dicembre 2008; il titolo (redazionale) di Liberazione assume oggi l’aspetto di una profezia autoavveratasi.
16. È peraltro vero che il professor Dal Lago per un verso si appropria di qualunque obiezione rivolta ai diversi critici di Saviano, quasi possedesse l’esclusiva di questo atteggiamento; e dall’altro, usa più volte espressioni e argomenti, talvolta in modo quasi letterale, già letti altrove: che Gomorra sia un misto di invenzione e di cose già note lo si era già letto su Il Velino, l’agenzia di stampa di Lino Jannuzzi e Daniele Capezzone; la critica alla pagina sul container pieno di cadaveri cinesi era l’unico contenuto della stroncatura (scritta con la consueta misura e sobrietà) di Gian Paolo Serino sul Domenicale di Marcello Dell’Utri; gli «amici e conoscenti» che sono d’accordo con le critiche a Saviano, ma invitano a lasciar perdere il libro (di cui parla il professor Dal Lago, EdC p. 20) li avevamo già letti sul blog di Massimo Del Papa, un altro giornalista ossessionato da Saviano (ma, va riconosciuto, di ben altro spessore intellettuale); e sullo stesso blog si sono lette dichiarazioni molto simili a questa: «mi chiedo chi rispetti di più, in ultima analisi, lo scrittore perseguitato dalla camorra: chi lo prende sul serio, discutendolo anche polemicamente, o chi si genuflette davanti alla sua icona» («Il diritto di criticare l’icona Saviano», manifesto, 3 giugno 2010).
17. Il professor Dal Lago trovò “generico” questo riferimento: per sua informazione, lo schema (uno dei due soli presenti nel libro) è a p. 513 del volume (Adelphi, Milano 1976).
18. Intervenendo sul blog Militant, Wu Ming 1 ha scritto che «Saviano su certi temi (soprattutto in politica estera) ha posizioni che noi tutti qui giudichiamo sbagliate. E alcune sue prese di posizione vanno sicuramente criticate. Ma dobbiamo accettare il fatto che le persone sono complesse, non possiamo pretendere dal 100% delle persone il 100% di coerenza rivoluzionaria sul 100% degli argomenti. […] Ogni volta, a seconda del contesto, dobbiamo sforzarci di individuare qual è la contraddizione principale, e quali quelle secondarie. Se nel contesto sudamericano una persona è coerentemente contro l’imperialismo, mi importa poco, sul momento, se è reazionaria in tema di aborto. Certo, su questo lo criticherò, ma senza trascinare nella critica la sua militanza anti-imperialista».
19. Lo stesso titolo Gomorra avrebbe questa funzione: «con la semplice sostituzione di una sillaba, da un mondo criminale specifico, la camorra, siamo trasportati di colpo nel regno del Male». Adriano Sofri gli ha fatto presente che per l’origine del titolo bastava arrivare, nella lettura, fino a p. 264 di Gomorra, dov’è riportato il testamento spirituale di don Diana.
20. «Nella testa dei killer di Gomorra», Repubblica, 18 gennaio 2009. Il professor Dal Lago lo retrodata però al 2008 (EdC p. 113, nota 26).
21. «Il desiderio di “educarsi” conoscendo un modo di vita che si ritiene superiore al proprio, il desiderio di innalzare la propria personalità proponendosi modelli ideali, il desiderio di conoscere più mondo e più uomini di quanto sia possibile in certe condizioni di vita, lo snobismo, ecc. ecc.»: Antonio Gramsci, «Sul romanzo poliziesco», in Letteratura e vita nazionale, Q. 21.
22. Ad esempio: parlando di Manituana, si legge che gli indiani Mohawk «figurano come protagonisti di una storia possibile o parallela, che però perde ogni connessione con l’attualità» (EdC p. 146-147). Per letture e interpretazioni del romanzo leggermente meno frettolose, vedere qui.
23. Dopo aver sostenuto, sulla scorta di due righe in cui si ricorda un viaggio al Sud, che il romanzo toccherebbe «le corde di quel mondo giovanile […] che, negli ultimi decenni, ha immaginato l’evasione in un Eden inesistente», alla Salvatores, il professor Dal Lago deduce un finale consolatorio attribuendo ai Ramones la canzone finale (EdC p. 144) What a Wonderful World. Se mai c’è stato un narratore esplicitamente anti-salvatoresiano, questi è De Michele (basti pensare alla pagina su Milano, ricalcata sulla pagina “napoletana” di Fratelli d’Italia di Arbasino, in Tre uomini paradossali): nei romanzi di De Michele non ci sono né fuggitivi né elogi della fuga, non c’è alcun Eden, e non c’è la borghesia annoiata e nostalgica di Salvatores; quanto alla canzone, che al più sarebbe di Joey Ramone (ma non era possibile che i protagonisti la ascoltassero nel 1998, anno in cui è ambientato il romanzo), è scritto ben due volte (pp. 584, 587) che si tratta della versione, tutt’altro che consolatoria o ironica, di Nick Cave e Shane McGowan.
24. È notizia di questi giorni, annunciata sulla testata on line della destra teo-con L’Occidentale, che il professor Dal Lago si accinge a scrivere «un altro libro in cui parlerò del “caso” sollevato da Eroi di carta».
25. Nichi Vendola, «Vi dico chi sono i nemici di Saviano», Liberazione, 16 ottobre 2008 (citato dal professor Dal Lago con data errata).