di Danilo Arona
«Non ha tempo per sciocchezze del genere. Ha le sue cose da fare, e solo una notte per farle… A ogni modo, non è una persona. Non capisci? È la città. Tutta intera. La città immersa nel sonno, che sogna e s’incarna in un corpo, fratello. Chiaro?»
John Shirley, Il rock della città vivente
Uno. Un grande scrittore, Fritz Leiber, battezzava nei lontanissimi anni quaranta del secolo scorso come “paramentali” i fantasmi prodotti dalle megastrutture metropolitane. «Sorgenti proprio dallo smog, dalle esalazioni mefitiche e dai liquami della città, con le sue strade e le sue fabbriche», scrisse Sandro Pergameno nella prefazione a Nostra signora delle tenebre (Editrice Nord, Milano, 1980), «i fantasmi di Leiber sono creature della metropoli di cui conoscono segreti e debolezze, i ritmi poderosi e le oscure canzoni. Sono prodotti della città e dell’inquinamento urbano, o anche, da un punto di vista psicologico, gli effetti spirituali dell’accumulo delle tensioni umane delle nevrosi cittadine. Per bocca di uno dei protagonisti di Nostra signora delle tenebre, Leiber attesta che le entità paramentali sono pericoli effettivi presenti e molto reali, a metà strada come natura tra la bomba atomica e gli archetipi dell’inconscio collettivo, che includono molti caratteri altamente pericolosi, o a metà strada tra i virus dell’epatite e gli incubi.»
Ed ecco come Leiber stesso descrive nel racconto Fantasma di fumo (pubblicato in Neri araldi della notte, La Tribuna, Piacenza, 1979) questa nuova tipologia di mostro, generato dall’inquinamento e dalla corrotta alienazione di una città moderna, anticipazione straordinaria se pensiamo che Fantasma di fumo è apparso per la prima volta nel 1941: « …un fantasma del mondo d’oggi, con la fuliggine delle fabbriche sulla faccia e il tonfo dei macchinari nell’anima. Il tipo di fantasma che abita dietro i mucchi di cartone e di notte scivola negli uffici deserti. Un fantasma vero, non una cosa uscita dai libri. Una faccia di fumo, composita, con la fame e l’angoscia dei disoccupati, l’inquietudine nevrotica delle persone prive di scopo, la tensione tutta scatti del lavoratore cittadino costantemente sotto pressione, il risentimento e il timore dello scioperante, l’opportunismo calcolatore del crumiro, il lamento aggressivo del mendicante, il terrore muto del civile sotto i bombardamenti, e altri mille stati emotivi. Ecco come sarebbe l’aspetto di un simile fantasma, o di una simile proiezione che abbia acquisito vita. Nascerebbe dal mondo reale. Rifletterebbe le cose contorte, sordide, malvagie. Potrebbe persino prendere sotto controllo le menti deboli e disponibili, dopodiché sarebbe in grado di fare del male a chiunque. È un mondo di putrefazione, il nostro. Prepariamoci alla nascita di una nuova morbosa superstizione.» Parole di straordinaria attualità scritte da Leiber oltre settant’anni fa.
Due. Ritrovare (anche) Leiber in un racconto da poco letto di Luigi Musolino e che s’intitola Nelle crepe (Vincent Books, Collana Miskatonic). Lavoro che non esito a definire “enorme” per la stupenda idea vincente che lo anima (verbo che suona quanto mai ironico per quel che ci capita, ma non devo spoilerare…) e per come Gigi ingloba, non so con quanta consapevolezza, decenni di immaginario metropolitano patrimonio alla pari di fantascienza e horror. Mi riferisco a quel serpentiforme e sotterraneo segmento del fantastico che per semplificazione chiamerò “città vivente”, richiamando da subito all’attenzione poli non opposti e direi immortali quali, appunto, il già citato Nostra signora delle tenebre e il Clive Baker di Candyman e In collina le città.
L’idea della città “viva”, entità pulsante e autonoma, ha attraversato il mondo poetico di famosissimi autori della fantascienza più deviante di trascorsi decenni tra loro assai lontani. Per limitarci agli esempi più rappresentativi, sono da menzionare La città sostituita di Philip K. Dick, pubblicato per la prima volta nel ’57, in cui una piccola città della Virginia, Millgate, cambia sotto gli occhi di uno stupefatto protagonista che si chiama Ted Barton e che inizia a catalogare i troppi particolari che non tornano (se vi ricorda un film di Alex Proyas che s’intitolava Dark City, credo proprio che il regista de Il corvo da qui abbia attinto…); quindi Le città vive di Greg Bear dei primi anni Ottanta, in cui combattono per non morire, immensi agglomerati di plasma vivente che palpitano nel deserto e che nascondono nella loro linfa un programma registrato da secoli, impiantato dagli antichi costruttori per uno scopo che nessuno è in grado di comprendere. E impossibile non menzionare il quasi contemporaneo Il rock della città vivente di John Shirley, stupendo apologo su una San Francisco “viva”, soprattutto di notte, la cui anima tecnologica e neuronale, controllata dalla mafia, provoca un processo di “materializzazione” della città medesima in un avatar di forma umana che inizia una surreale lotta senza quartiere contro la malavita.
Città che inglobano quartieri pericolosi e fatiscenti come il Cabrini Green in cui nasce il mito del leggendario Candyman (Barker) e nei quali Mater Tenebrarum, la dea ancestrale di Leiber, proietta la sua inquietante silhouette, proponendosi come super-spettro metropolitano materializzato dalla “melanconia” dell’autore/ protagonista.
Tre. A proposito di “melanconia”, il racconto di Musolino si apre con una citazione altamente significativa tratta da La città della terribile notte del poeta inglese James Thomson.
«L’oscurità è padrona di infiniti vicoli e angusti rifugi
Ma allorché la notte indossa il suo manto sconfinato
Gli spazi aperti si spalancano con profonde tenebre
Le tetre dimore incombono immense e lugubri
I vicoli neri son neri come sotterranee tane»
Morto non ancora cinquantenne nel 1882 a Londra, Thomson visualizzò nella capitale londinese una mostruosità tenebrosa in cui aggirano figure insonni e pericolose (che anticipano con clamorosa preveggenza le gesta di Jack the Ripper), dove scorre il “Fiume dei Suicidi” e dove regna con il suo manto spettrale la «regina e patrona» Melanconia.
Un luogo della mente, infernale e straordinariamente pre-moderno, di cui Musolino s’impadronisce come arguto viatico per “lanciare”nelle prime quattro righe quella che a prima sembrerebbe la descrizione dell’inevitabile metafora di situazioni urbane al collasso genetico:
Il quartiere invecchiava e moriva.
Le crepe erano le rughe e la mappa del suo declino.
Il quartiere invecchiava e moriva, e proprio come il suo più vecchio e stanco abitante, il quartiere non voleva morire.
Poche parole di grande abilità e il lettore è catapultato dentro il plot per non volerne più uscire. La piacevole trappola però è la stessa apparente metafora che non è tale. Perché tra le crepe qualcosa, qualcuno occhieggia, parla (a suo modo) ed esige nutrimento. Per non invecchiare e morire. Per sopravvivere.
Va da sé che essendo questo un horror – uno stupendo racconto di paura “in crescendo” – non posso addentrarmi più di tanto nella sua evoluzione narrativa se non per confermare che il quartiere Rosella, così si chiama il rione in cui vive il protagonista Giaco Bogetti, si propone come il compendio tematico niente affatto pedante di tutti i loca infesta urbani che lo hanno preceduto.
Perché un intelligente scrittore di genere è consapevole che, per far avanzare il genere stesso, occorre sintetizzare la tradizione nel novum che guarda alla realtà contemporanea, senza dimenticare che l’horror nei suoi migliori esempi riesce anche a “denunciare”.
Questo forse per Musolino ha una ragione anagrafica. Non mi riferisco all’età. Ma alla provenienza. Gigi è nato in Piemonte, come me. Lo conosce bene. Sa che qui abbiamo paesi e città che vivono e respirano. Idrasca, Bassavilla, Reneuzzi. Loca infesta. Forse come la stessa Torino in certe ore della notte.
Quattro. È che una sera di febbraio di troppi anni fa Gigi è venuto a trovarmi a Bassavilla. Aveva in tasca uno strano volantino nel quale una misteriosa organizzazione che si firmava con la sigla UDT annunciava “il risveglio di forze fino a quel momento sopite, potenze che si sarebbero date appuntamento la notte del 12 febbraio di quell’anno alle 3, 33 spaccate”. L’Ora del Lupo elevata simbolicamente al cubo.
Dicevo, Gigi venne a casa mia e ci piazzammo attorno a un tavolo con un bottiglione di barbera. Alle 3, 33 non capitò nulla ma, prima che il campanile battesse le sei, un brontolio scosse le fondamenta di casa e dalle finestre della mansarda vedemmo chiaramente un enorme fascio di luce proiettarsi verso il terreno saettando dal firmamento e flussi violacei dipartire a cerchi concentrici dal punto dell’impatto.
Qualcosa era accaduto. Anzi, qualcosa di sinistro sarebbe accaduto.
Lo scoprimmo, purtroppo, il giorno dopo. Le città segnate dalle Linee della Schiena del Drago sarebbero resuscitate scaricando al loro interno energia mortale. Il 13 febbraio prese fuoco il Cinema Statuto a Torino e vi perirono 65 persone. A Champoluc una cabina precipitò sul Crest e morirono 11 sciatori. A Idrasca una donna portò i tre figli nella stalla e appiccò il fuoco a un mucchio di fieno, provocando un mortale rogo. A Bassavilla quattro macchine persero contemporaneamente il controllo sulla tangenziale: quattro schianti, nove vite spezzate.
Le città vivono, le città uccidono. I quartieri le riflettono in scala e sono anche più letali. Le crepe sono la loro firma.
Cinque. Noi scrittori (horror?) fantastichiamo, facendoci prendere a volte dal nostro pensiero magico. Forse non siamo i soli. Scrivono Vittorio Messori e Aldo Cazzullo nel libro Il Mistero di Torino: «È solo un caso se il funesto rogo al cinema Statuto avvenne appena dopo un “carnevale diabolico” organizzato dal municipio?». A loro dire, nell’inverno del 1983 a Torino, si organizzò in effetti una sorta di carnevale esoterico, sponsorizzato dal Comune e iniziato l’8 febbraio, cinque giorni prima la tragedia dello Statuto. Inoltre la notte precedente il rogo, nel parco della Villa della Regina si svolse un meeting con rappresentanti di tutte le sette sataniche europee.
L’organizzatore del carnevale esoterico, intervistato da Messori qualche giorno prima della tragedia, dichiarò: «Si tenterà di evocare gli spiriti più oscuri e malefici della città, ovunque, tranne in un solo luogo: piazza dello Statuto, luogo centrale della magia nera, ombelico maledetto di Torino. Anzi per tutto il carnevale girate alla larga da quel posto».
Il cinema, al civico 16-18 di Via Cibrario, era a 200 metri da piazza Statuto.
Le città vivono, muoiono, uccidono.