di Riccardo Falcetta
Ettore Maggi, Il gioco dell’inferno, BESA, 2009, pp. 220, € 15,00
Ettore, il protagonista del racconto di apertura, è uno studente ed è uno skinhead, di sinistra. Dalle pagine di Hemingway e Orwell conosce le vicende della Guerra di Spagna e di quell’epopea intona i canti di lotta, mentre vive la strada e le leggi che la skin culture impone: il branco, i concerti, le armi bianche, gli scontri con le fazioni nere. In uno di questi scontri rimane vittima, durante un epilogo in cui i versi del Quinto Regimiento tornano a beffarda metafora del sacrificio.
È La Flor Mas Roja, una gioventù segnata da un antico spirito di lotta. In modo analogo, il motto che accompagnava i repubblichini, quando con fatalismo ascetico andavano A cercar la bella morte, scandisce la tragica fine di due giovani partigiani che, asserragliati nella sede milanese della Legione Muti, scelgono il sacrificio come costo necessario per una vendetta ineludibile, sottraendosi a una salvezza vacua, senza riscatto.
Un’ ironia amarissima segna le tragedie che si consumano in questi racconti, lezioni di assoluto rigore storico e crudo realismo narrativo che sconvolgono e a ogni passo chiariscono il progetto sul quale Ettore Maggi, cagliaritano già distintosi con intense incursioni nell’ambito di operazioni antologiche (famosa Anime Nere Reloaded) e come traduttore di letteratura spagnola, fonda il suo libro d’esordio. Sono i partigiani di ieri e i giovani “dispersi” di oggi i protagonisti de Il Gioco dell’Inferno, una raccolta di otto narrazioni che si dipanano tra i giorni della Liberazione e l’estate del G8 di Genova, lungo le tracce di quello spirito di Resistenza che a distanza di oltre mezzo secolo è ancora qui ad affermare la propria ragion d’essere. Li incontriamo, soffriamo con loro, poi li perdiamo per riavvertirne la presenza tra cenni o allusioni, in momenti diversi.
Sono presenze smarrite, che vagano tra le rovine della Storia, coi fardelli di vissuto, le passioni amorose e politiche e il vuoto esistenziale; l’autore li tratteggia tra affabulazione narrativa e rimandi biografici, con linguaggio vivido e mutevole. Nell’annotare gesti ed eventi, Maggi impiega un registro confidenziale, diaristico che fiorisce di intense tonalità liriche nelle descrizioni di personaggi e stati d’animo (“… la barista bruna dai capelli lunghi e ricci e gli occhi marroni, occhi marroni e capelli neri e ricci che non dovrei guardare […], capelli troppo lunghi, troppo ricci, troppo neri, […] come quell’amore, come quel dolore.”), in una totale adesione al narrato che l’autore conferma con l’uso costante della prima persona. A emergere prepotente, a ogni racconto, è un io problematico, pervaso di malessere e disincanto, spesso ripiegato su se stesso, (“Non so perché le ho raccontato questa storia […]. Forse perché ogni tanto la devo raccontare […] perché mi fa male […]. Forse perchè ho bisogno di compassione, o anche di disprezzo. Mi nutrono entrambe.”), anche quando si svincola in un corsivo in seconda persona che costringe il protagonista a un confronto diretto col proprio passato, le sue scelte, quelle di compagni e avversari (“pensi ancora a tutto quello che è successo in Spagna, forse ci pensi troppo, pensi soprattutto al fatto che quelli che ti volevano fucilare non erano i fascisti, ma erano compagni”) o nella cronaca per voci e sguardi alterni di un’amicizia tra ex combattenti e giovani studenti — Dai Monti di Sarzana è un racconto morale, aspro e toccante, sul valore della senilità come deposito umano di memoria ed esperienze di formazione.
Quello di Maggi è dunque uno sguardo dalle ambizioni totalizzanti, che all’auto pedinamento e all’annotazione diaristica integra e contrappone l’esigenza di un faticoso recupero mnemonico. Un procedimento che conferisce respiro epico all’insieme, senza risolvere il problema di uno sguardo che, nel suo essere attuale, rimane pur sempre uno sguardo instabile, cosciente dell’inadeguatezza della letteratura a cogliere l’irriducibile complessità del reale.
È questo attrito che genera quella crisi rappresentativa che spinge l’autore a cercare opportune possibilità espressive sul piano della narrazione. Procedendo con un massivo impiego di flashback, che generano racconti nel racconto; o narrando per frammenti (Luglio 1944; Pane), concentrando spesso l’esposizione sui presupposti e sulle conseguenze di ciò che accade, elidendo i fatti in sé (Il G8 di Genova nell’ultimo romanzo breve, che estende il titolo all’intera raccolta) o le facili risoluzioni. La sensazione è, a conti fatti, quella di trovarsi di fronte a un modo di narrare maturo e consapevole, che può apparire persino definitivo e fa di una raccolta di storie singole e temporalmente distanti un ambizioso romanzo puzzle, polifonico e intergenerazionale.
Opera politica, più che in virtù di una precisa scelta di campo, che pure c’è ed è chiara, questo libro lo è in un senso più profondo: lo è nell’interrogarsi sul rapporto tra gli uomini e il potere. Ogni episodio, ogni elemento, ogni scelta all’interno di questi racconti sembra volto a un’organizzazione dei materiali che consente al dato storico di non appiattirsi su se stesso, per riempirsi di vissuto, cogliendo le vibrazioni emotive e aprendo al dibattito.
A dominare qui è la rabbia. Ma è rabbia carica di tensione civile, che non urla, consumandosi nel persistere di uno sguardo sofferto e silenzioso che attraverso personaggi ed eventi dà senso al mondo nella misura in cui questo assurge a territorio di incontro/scontro tra gli individui e le loro passioni. Amicizia, Amore, Ardore politico, Potere. Potere: strumento di giogo per l’annullamento dell’altro e l’affermazione di sé, o per l’annullamento dell’altro e di sé nell’affermazione di un ideale, ieri (“Il senso tragico della repubblica di Salò, il pessimismo tragico della morte che incombe, (…) di chi sta per morire e vuole trascinare tutto ciò che gli sta attorno.”) o di un indicibile reale, oggi (“Ho visto cose che voi risorse umane non potete immaginare. Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dai reality show, dalle agenzie interinali e dai corsi di marketing.”); che per molti versi così lontani non sono (“Che il fascismo fosse violento gli italiani potevano anche accettarlo. Che prendesse tangenti dai petrolieri americani forse no”).
A fronte di un paesaggio (storico, sociale, umano) cosi livido e obliante, l’autore ripone un messaggio tutt’altro che consolatorio, ma, a mio avviso, totalmente positivo: continuare a lottare — i riferimenti sparsi alle discipline marziali sublimano l’attitudine a un costante confronto —, a ricordare, a dubitare, senza smettere di amare, senza aver paura di odiare. Ciò che ci rimane è continuare a essere uomini. Memoria e Resistenza (Il Gioco dell’inferno si chiude sulle Langhe, con una citazione di Fenoglio) sono, a ben guardare, l’ultima spinta possibile a un sentimento di lotta che, alle derive di un Potere animalizzante, rimane forse l’unica via possibile di riscatto.