di Osvaldo Bayer
[Segnaliamo l’uscita italiana di Rebeldía y Esperanza. Storia di un esilio dello scrittore argentino Osvaldo Bayer. Si tratta di parole scritte al di qua dell’oceano, in Germania, la terra che lo ha accolto e salvato da morte certa. Quella stessa morte che i sanguinari regimi militari argentini degli anni ’70 hanno scagliato contro altri celebri scrittori dissidenti, Rodolfo Walsh, Haroldo Conti, Paco Urondo, Hector Oesterheld, solo per citarne alcuni. Osvaldo Bayer dalla Germania racconta l’esilio e fa esplodere le contraddizioni delle democrazie europee, complici storiche e finanziatrici indefesse dei peggiori regimi militari latinoamericani, ieri, come negli anni ’70, come oggigiorno. Perché le democrazie occidentali stanno dalla parte dei regimi militari latinoamericani? Bayer prova a rispondere a questa domanda, e lo fa con quella commistione di Storia e storie che emoziona e accompagna il lettore. Vi proponiamo di seguito due estratti dal libro, curato e tradotto da Alberto Prunetti. s.s.]
O. Bayer, Rebeldía y Esperanza. Storia di un esilio, trad. A. Prunetti, Ouverture, 2016, pp. 128, € 12.50
«“Sicurezza per gli anni Ottanta”: il cartello della socialdemocrazia tedesca mi accompagna in ogni stazione della regione del Reno settentrionale e della Westfalia. La parola “sicurezza” caratterizza le elezioni nella Repubblica Federale Tedesca. Chi offre più sicurezza, vince. Anche se i candidati sono favorevoli all’energia atomica. Si tratta della sicurezza per la propria Mercedes, per le vacanze a Tenerife, perché nessuna utopia venga a mettere in discussione il soddisfatto presente della Germania occidentale. I cartelli di Videla a Buenos Aires e quelli dei socialdemocratici in Westfalia hanno lo stesso denominatore comune: la sicurezza. Da esule, ho il privilegio di leggere la stessa parola in due paesi, in due diverse lingue: Seguridad, Sicherheit. E mi sento profondamente insicuro. Ma non ho il diritto di comparare le due realtà, il crimine con il timore, l’aperta caccia all’uomo con la paura di perdere la libertà. Anche se sulla spalla percepisco il fremito di un presagio. Se i popoli cominciano a votare “sicurezza”, cosa accadrà? In dieci anni, voteranno con entusiasmo per la parola “repressione” e, in due decenni, saranno ancora più galvanizzati dalla parola “tortura”. Tutto in forma democratica. Quando si comincia a insufflare la parola “sicurezza” nel cittadino, l’inquisizione può vincere le elezioni.
Che sarà della democrazia tedesca se i disoccupati arrivano a sei milioni? La democratica Associazione Federale dell’Industria Tedesca non sceglierà allora per la Germania quello che oggi applaude per l’Argentina dei militari? “L’indispensabile sicurezza per un ordinato sviluppo economico”?» [p.48]
«3. Quale immagine mi si chiede della Germania? Forse la mia immagine della Germania è quella dei suoi esuli, perché in tutta umiltà mi identifico con loro e così mi sento più forte. O l’immagine della Germania va cercata nel volto dell’addetto culturale dell’ambasciata tedesca a Buenos Aires e di sua moglie, che rischiarono la vita per farmi passare attraverso i posti di blocco dell’esercito e della polizia, riuscendo a imbarcarmi in un aereo? O quest’immagine devo sovrapporla in un processo di consustanziazione con quella di un militare tedesco che in un “party”, senza sospettare la mia qualità di invitato inconveniente, si felicitò con grandi effusioni dei buoni affari che i militari argentini avevano fatto acquistando la tecnologia bellica tedesca. Un’immagine da non dimenticare, un volto rosso, soddisfatto, che con gusto mormorava infiniti dati tecnici sulla trazione dei cingoli, sui piani metallici di Thyssen-Henschel, sui motori Mercedes Benz e Man, sui tubi dei cannoni automatici da 20 mm di Rheinmetall… Una voce sana, forte. Un soldato diverso da quello della Germania nazista? La mia immagine della Germania non può essere altro che quella della mia esperienza, con la confusione di vivere qui e di pensare come se fossi là, di mescolare tutto, di applicare all’esperienza tedesca quello che accade nel mio paese. Non posso avere un’immagine asettica e impersonale della Germania, perché percepisco la realtà come se fosse rovesciata, come se gli scenari fossero trasformati, cambiando di latitudine e retrocedendo nel tempo.
Sul quotidiano argentino La Opinión leggo un articolo sulla conferenza dell’ammiraglio Massera, membro della giunta militare, all’Universidad del Salvador di Buenos Aires. Con un vocabolario filosofico arcaico che non ti aspetteresti in un moderno specialista di aerei Torpedo (capace però di far scomparire i nemici politici), l’ammiraglio argentino denuncia come responsabili per la crisi dell’umanità tre uomini: Marx, Freud e Einstein. Cito alla lettera: “Verso la fine del XIX secolo Marx pubblicò tre tomi de Il Capitale e mise in dubbio l’intangibilità della proprietà privata. A principio del XX secolo, viene attaccata da Freud la sacra sfera intima dell’essere umano, col suo libro L’Interpretazione dei sogni. Come se tutto questo non bastasse a rendere problematico il sistema dei valori positivi della società, Einstein nel 1905 elabora la teoria della Relatività, mettendo in crisi la struttura statica e morta della materia”.
Che strano, penso. Secondo i militari argentini, i tre grandi sovversivi della storia dell’umanità sono usciti dalle università tedesche. E tutti e tre hanno dovuto esiliarsi dalla Germania, due per fuggire da Hitler mentre l’altro, Karl Marx, era scappato un secolo prima, ma i suoi libri furono i primi a finire sui roghi alla Opernplatz di Berlino nel 1933. E in Germania la maledizione continua, sebbene un poco attenuata: tutti gli sforzi degli studenti di intitolare a Marx l’università di Treviri sono andati a rotoli dal 1945. Le autorità non vogliono complicarsi la vita con un cognome tanto compromettente qual è quello del figlio di questa città e applicano la “Berufsverbot”. Sono i piccoli boia, i tiranni di sempre che, come diceva Thomas Mann, si nascondono dietro le romantiche finestre e le pareti medievali delle idilliache città tedesche.
4. Durante una passeggiata tengo sotto il braccio il quotidiano La Opinión di Buenos Aires. A pagina 9 c’è un riquadro col titolo: “Bruciano testi sovversivi a Cordoba”. “Il comando del Terzo corpo dell’esercito informa di aver proceduto a bruciare la documentazione perniciosa che danneggia l’intelletto e la nostra tradizione cristiana. La decisione è stata presa affinché nulla rimanga di certi libri, pieghevoli e riviste. Materiali che finiranno di ingannare la nostra gioventù sul vero bene che rappresentano i nostri simboli nazionali, la nostra famiglia, la nostra chiesa e, infine, il nostro più tradizionale patrimonio spirituale sintetizzato da Dio, Patria e Famiglia”. Firma il comunicato il tenente colonnello Corleri, che ha lasciato detto ai giornalisti che tra i libri bruciati non figuravano “opere di eminenti pensatori nazionali”.
Tutto questo a Cordoba, città definita “la dotta”.
Leggo un dispaccio di Deutsche Presse Agentur. L’ambasciatore della Repubblica Federale Tedesca in Argentina, dott. Joachim Jaenicke, sostiene che il governo del generale Videla non sarebbe una dittatura militare.
Berlino, OpernPlatz, 1933. Cordoba la dotta, 1976. L’olocausto della cultura, il rituale del fuoco. I libri sono le prime vittime, subito dopo tocca agli uomini di pensiero sovversivo, antitedesco, antiargentino. Latitudine sud, quarantatre anni dopo Freud, Marx, Einstein. Quella notte il generale di fanteria Jorge Rafael Videla nel suo discorso pronunciò dieci volte la parola “libertà”, otto volte la parola “dio”, cinque volte la parola “democrazia” e tre volte l’espressione “modo di vita argentino”.
Cammino per un bosco nero in Westfalia e penso: mi trovo in Germania. Quali parallelismi nei cammini dei popoli. Quant’è simile il destino dei suoi intellettuali. Le stesse reazioni, nonostante le differenze di cultura e di latitudine. I martiri. Karl Von Ossietzky e Rodolfo Walsh, Erich Mühsam e Haroldo Conti. La diaspora e il crepuscolo nonostante l’esilio. La morte civile e il carcere. E gli altri, sempre presenti e ben disposti, quelli che vincono i premi negli anni della dittatura, quelli che procurano un alibi ai dittatori, che hanno sempre a disposizione i giornali e le radio, che si permettono di fare delle critiche al regime (ma non troppe). Sono quelli che si presentano al pranzo col dittatore di turno. E quando il dittatore cade, raspano disperatamente nei propri scritti alla ricerca di qualche passo che dimostri che “erano nella resistenza”.
Cammino per questo bosco della Westfalia, più solo che mai, perché ormai non ci sono né uccelli né bambini. Tra le querce centenarie sbuca il Mercedes Benz giallo del guardaboschi. Passano anziani silenziosi con cani grassi. Ancora una volta mi colpisce la necessità di recuperare il tempo perduto, di chiedere loro che cosa hanno fatto nel 1933, nel 1939, nel 1945. Invitarli a bere un bicchiere di vino per farmi spiegare l’espressione tedesca Mitläufer9. Qualcuno, dotato di spirito amaro e ironico, potrebbe rispondermi che un Mitläufer è uno che nella Germania Federale può diventare presidente10. Un altro potrebbe rispondermi che la parola tedesca è intraducibile. Nel caso, replicherei: “Non si confonda, questa è anche una parola molto argentina, molto attuale. Un vocabolo che cambia di nazionalità, secondo le epoche”» [pp. 22-23-24-25].