di Valerio Evangelisti
[Le edizioni Derive Approdi hanno pubblicato un libro di eccezionale valore: La rivista Primo Maggio (1973-1989), a cura di Cesare Bermani, pp. 176, € 20, 00. Al volume è allegato un dvd che raccoglie la collezione completa della rivista, tra le più importanti – se non la più importante – dell’estrema sinistra “operaista”, dagli anni ’70 fino alla fine degli anni ’80. Pubblichiamo uno degli interventi compresi nel volume. E’ già apparso su Alias, supplemento del sabato de il manifesto, il 1° maggio 2010.]
«Cosa diavolo fai qua?» mi chiede Sergio Bologna, fermo sulla soglia del mio ufficio di capo del reparto imposte dirette dell’Intendenza di Finanza.
E’ un uomo magro, alto ed elegante. Per me è quasi un simbolo. Esponente di un operaismo per metà in galera e per metà in esilio, lo hanno fatto fuori all’università di Padova, in cui aveva una cattedra, con un pretesto miserabile (se ricordo bene, una domanda presentata in ritardo). Vive parte in Italia e parte in Germania. Scrive per Primo Maggio, rivista che sta nel movimento senza schierarsi, saggi corposi sulla centralità del trasporto merci. Un’anticipazione delle sue future tesi sui lavoratori autonomi — all’epoca poco comprensibili, ma diventate meglio decifrabili ai giorni nostri, quando tanti precari sono stati classificati come “autonomi”, imprenditori di se stessi volenti o nolenti.
All’epoca — si era alla soglia della Pantera — io dirigevo una pubblicazione intitolata Progetto Memoria — Rivista di storia dell’antagonismo sociale. Non un’imitazione di Primo Maggio, bensì una testata altrettanto militante che condivideva con PM uno scopo centrale: attingere alla storia per dimostrare che il movimento aveva precedenti illustri e sue radici. Assunto indispensabile, a nostro avviso, in una fase in cui il ’77 sembrava definitivamente tramontato, ciò che restava dei gruppi armati faceva cose incomprensibili e le lotte di massa, quando risorgevano, parevano del tutto prive di radici.
Progetto Memoria (poi ribattezzato per un certo tempo La Comune, per non intralciare una casa editrice omonima di Renato Curcio) ebbe il suo momento più felice proprio durante la Pantera, con oltre mille copie vendute essenzialmente nell’università di Bologna. In seguito andò incontro a un progressivo declino. Ciò che rimase dell’esperienza, cambiati i linguaggi, fu travasato nella rivista cartacea Carmilla, che univa analisi politiche a narrativa di genere; infine diventò Carmilla On Line, con quasi mezzo milione di lettori al mese.
Quando Sergio Bologna apparve nel mio ufficio, che avrei lasciato definitivamente sette anni più tardi, tutto ciò era ancora al di là da venire. Poche sere dopo lui partecipava a una cena della gente di Progetto Memoria e delle aree circostanti. Si trattava dei “sottufficiali” del ’77. Personaggi secondari (me compreso) portati in primo piano dal fatto che, dei vecchi leader, non ne restava nessuno. Intenti a traghettare altrove ciò che restava di un movimento a suo tempo glorioso, ma falcidiato dalla repressione, dalle defezioni, dalle scelte suicide individuali, dai rigurgiti dei gruppi armati. Insomma, una tavolata di sfigati, che però avevano tenuto duro.
Di Primo Maggio avevo conosciuto, un paio d’anni prima, Cesare Bermani. Tipo singolare, che non si muoveva senza avere a tracolla un enorme registratore a bobine, per raccogliere testimonianze di quella “storia orale” di cui era fra i teorici, sulla scia di Gianni Bosio. Dalla sua metodologia nacquero, su Primo Maggio, saggi memorabili: uno sulla Volante Rossa, uno sul processo al partigiano Pometi sospettato di tradimento, e altri ancora. Di Bermani, che aveva già barba e capelli bianchi, ricordo però soprattutto, nel Kamo (una specie di centro sociale bolognese), la domanda che pose a bruciapelo a una compagna spagnola che ci visitava: «Tu come fai a essere così bella?» Vista la reazione dell’interessata, usai l’approccio per mio conto parecchie volte.
Ma torniamo a Primo Maggio. Si occupava di storia, ma era storia mirata alle esigenze del presente. Molti articoli sugli IWW, gli Industrial Workers of the World, il primo sindacato (americano) ad avere assunto come tema centrale il lavoro precario. Altri su pagine del movimento operaio cadute nell’oblio a causa del mainstream storiografico dominante. Interventi numerosi sull’economia, lontani dalla vulgata marxista e dall’ottica liberale. Parecchie ricerche di storia orale, tra cui una, fulminante e anche un poco commovente, sulla storia del Collettivo autonomo milanese della Barona. L’autobiografia giovanile di Primo Moroni, un grande. Un interesse peculiare per il contesto statunitense, la cui logica capii solo in seguito.
Invece, per dire i pochi limiti, nessuna attenzione al contesto latinoamericano (su cui invece si concentrava Progetto Memoria, per particolari esperienze del sottoscritto e di molti dei suoi redattori). Rare menzioni della questione palestinese. Ma erano peccati veniali, rispetto alla ricchezza dell’offerta.
Grazie alla conoscenza con Bermani e con Bologna, arrivò da Milano una proposta che mi emozionò: partecipare a una riunione redazionale di Primo Maggio! La sede non era lontana da Corso Buenos Aires, e dunque dalla stazione centrale, in un ambiente che definirei bello. Le strade milanesi, per chi le sappia leggere, hanno un loro fascino. Specie quelle vecchie, con case alte abbrunite dallo smog. Primo Maggio si riuniva in uno stabile quasi di fronte a una chiesa. In un tizio che zoppicava riconobbi Primo Moroni, una leggenda. Salii con lui.
Alla riunione partecipavano Bermani, Franco Coggiola (poi deceduto, un vero esperto in culture popolari), Cosimo Schirinzi (un anarchico baffuto esponente dei Cobas, fondatore della rivista Gatto Selvaggio), l’americanista Bruno Cartosio (che non sopportava che gli altri, cioè tutti meno lui, fumassero), naturalmente Primo Moroni (che fumava più di ogni altro), Bermani, Bologna e personaggi non identificati.
Io avevo un po’ di familiarità solo con Dario, l’altro “giovane” oltre a me, conosciuto quando era un leader dell’Autonomia padovana. Lo avevo ascoltato durante un’assemblea di studenti medi a Padova in cui aveva parlato in puro dialetto. Poi aveva lasciato l’Autonomia e veniva considerato dagli ex compagni, se non un “traditore”, qualcosa che gli somigliava. Non gli chiesi le ragioni, mi bastò avere incontrato a Milano qualcuno un poco “affine”.
Il grado generale di affinità tra i presenti si svelò ben presto. L’assemblea milanese aveva, per tema unico, il calo di vendite di Primo Maggio. I “giovani” — io e Dario — eravamo stati convocati solo per portare fasci di PM nelle librerie delle nostre città. Di Progetto Memoria e della sua travagliata storia non importava niente a nessuno. Non ci furono domande, in merito. Le uniche riguardarono quante copie di Primo Maggio avremmo potuto fare avere alle librerie Feltrinelli più prossime a noi. I rapporti ulteriori, lasciata Milano, non furono molto diversi. I compagni della redazione di PM non parevano rendersi conto che io e Dario, per quanto miserevoli, rappresentavamo schegge di ciò che restava del movimento. Si preoccuparono solo di caricarci di copie, come coolies cinesi.
Feci diligentemente il mio lavoro, ma di lì a poco Primo Maggio morì. Fu un piccolo grande dramma. Si era in anni di restaurazione pesante. Le Brigate Rosse, dopo avere chiamato l’antagonismo sociale a un livello di scontro superiore alle sue forze, avevano pronunciato vuoi una loro “ritirata strategica”, vuoi una dichiarazione di fine della loro storia, per bocca del “nucleo storico”. Gli altri gruppi armati avevano partorito una quantità abnorme di pentiti e dissociati. Il movimento, benché liberato da quei pesi, era ridotto ai minimi termini, e produceva scarsa prassi e rare idee. Che cosa ci restava, se non Primo Maggio?
Compresi solo allora, in qualche misura, il perché della sostanziale chiusura della rivista, che inizialmente — lo ammetto — mi aveva indignato.
Un nucleo di compagni di provata fede, dal passato spesso lunghissimo, dal largo affiatamento, aveva deciso di partecipare al movimento prendendone, nel contempo, le distanze. Non voleva a giusto titolo trovarsi rinserrato in una congerie di polemiche quotidiane, di brevi avanzate e di lunghi arretramenti, di sussulti e di rilanci fallimentari. Poteva somigliare a un Olimpo inaccessibile, ma dell’Olimpo coltivava una caratteristica: la stabilità. Immobile come un faro, cercava di ignorare le onde che lo attorniavano. Emanava luce senza preoccuparsi dei marosi circostanti. Operazione saggia, per chi voglia far transitare una struttura, un laboratorio di analisi e di lucidità, tra epoche diverse.
Il guaio è che le costruzioni troppo rigide, quando crollano, lo fanno di colpo, e lasciano macerie che l’oceano degli eventi si incarica di logorare e di disperdere. Così successe per Primo Maggio. Chiuse le pubblicazioni, lasciò poche scie: testimonianze culturali, impegni quasi eroici di lavoro, riproposizioni della storia — orale, musicale, sociale ecc. — di un proletariato tramontato per sempre, in quelle forme.
Se i compagni di Primo Maggio avessero saputo interrogare meglio i loro più giovani interlocutori — invece di impiegarli come fattorini — forse avrebbero capito meglio quanto i tempi stavano cambiando, e in che modo. E magari aiutare la poca resistenza che rimaneva.
Preferirono restare torre d’avorio, e lasciare a chi fosse venuto dopo — se mai fosse venuto qualcuno – un tesoro di materiali preziosi. Però sepolto sotto gli strati delle mutazioni, innumerevoli, della composizione di classe e della cultura conseguente.
Sta di fatto che una ripresa dell’antagonismo (prima o poi ci sarà, è nella logica degli eventi) avrà bisogno di qualcosa di equivalente a Primo Maggio, nella metodologia. Un raccordo con le ribellioni pregresse, la congiunzione con il filo perduto di un “sovversivismo” che va dal tardo Risorgimento ai giorni nostri. Il movimento no-global è entrato in agonia, da Genova 2001, non solo per la repressione selvaggia che lo ha colpito, ma anche per il mancato raccordo con filoni tellurici emersi in superficie, in forma a volte sporadica, altre volte continuativa, da almeno due secoli a questa parte. Non c’è interrogativo che non abbia avuto, a suo tempo, adeguata risposta. Ignorarlo significa porsi in eterno gli stessi quesiti.
Mancano al momento nuove leve di intellettuali capaci di raccogliere l’eredità di Primo Maggio. La Restaurazione li ha espulsi, ne ha disperso la voce. Altre ne sorgeranno, e avranno la fortuna, se si attarderanno a scrutare il passato recente, di scoprire una rivista che, praticamente, aveva già detto tutto.
Le chiederanno: “Come fai a essere così bella?”