Era già accaduto anni fa – per la precisione nel 1997, con il suo straordinario Lezioni di tenebra (Mondadori). Introducendo una prima persona giudicante e verisimile, testimoniale e muta a seconda dei momenti, una figlia che accompagna nel buco nero di Auschwitz la propria madre, deportata lì e da lì sopravvissuta – così Helena Janeczek si era non semplicemente imposta all’attenzione della critica (questo treno di parole che non va più ad alta velocità né a lenta). Aveva penetrato la narrativa contemporanea e, con altri autori in generi diversi, aveva permesso di riacquistare il diritto a un racconto verisimile che, in quanto tale, fosse pienamente tragico. Aveva, Janeczek, aperto strade percorribili a molti suoi colleghi. Quasi tutta la querelle su reportage e fiction, di fatto, nasce dall’affondo profondissimo di questa narratrice che ospita la nostra lingua o da soggetto o da oggetto. 13 anni dopo, Janeczek compie nuovamente l’affondo. In tempi di discussione su romanzo corale ed epico, l’autrice crea, con Le rondini di Montecassino (Guanda, 18 euro), un tessuto intricato di spostamenti nello spazio e nel tempo, una superfetazione dell’eroismo e della coralità.
Janeczek ottiene il suo risultato apicale, credo, perché riesce a operare congiungendo la tragedia all’epica. E’ nuovamente l’entrata in un territorio che i suoi colleghi non potranno non esplorare grazie a lei.
Forte di una lingua che si permette di stridere o di addolcirsi a seconda dei ritmi immaginali e dei movimenti sincronici di spazio e tempo narrati, Janeczek non allestisce il teatro della battaglia, ma usa la battaglia come universo, estendendo all’intero pianeta e alla verticalità dei tempi che si vivono (prima della guerra, durante la battaglia di Montecassino, dopo la battaglia, oggi) motivi che fanno risuonare corde antiche della letteratura: la normalità che coincide con l’eroismo, in un incremento inaudito del dramma, che costa uno sterminio e un confronto quotidiano con sofferenze indicibili in ogni angolo del pianeta; l’amore che salva e quello che condanna; la genesi e la fine; la stratificazione dei tempi attraverso le memorie e il cozzo tra generazioni; l’empatia e la negazione di quella; la domanda sulla natura dell’umano, sul venire al mondo e sulla morte; ciò che è complesso in coincidenza con ciò che è semplice.
Potrei continuare l’elenco, ma non è fondamentale. Chi scrive sta qui formulando un appello: che questo libro venga letto, venga meditato, venga superato il godimento della lettura e venga combattuta nell’interiorità una guerra che è emblematizzata solo superficialmente dal melting pot alleato che prese Montecassino, strappando l’abazia ai nazisti. Chi scrive formula un tale appello perché ritiene che il libro di Helena Janeczek sia uno di quei testi che rimangono, in quella dinamica dei tempi umani che chiamiamo tradizione letteraria: qualcosa che è polarmente opposto a ciò che si è cristallizzato. Questa nuova epica allestita con genio profuso nella costruzione di simmetrie strutturali, tra situazioni che si intrecciano a distanza o di capitolo in capitolo, tra personaggi che si specchiano ritrovandosi complementari od opposti, tra battaglioni maori che entrano in arco voltaico con la minoranza ebraica che è minoranza ovunque – questa capacità di non resistere al trascinamento che l’ideazione e la pratica letteraria inducono sciamanicamente nella scrittrice, permette di vedere sorgere, in Italia, nel 2010, uno dei romanzi più politici e con le maggiori capacità contenitive di poetica degli ultimi anni.
Riproduco qui di seguito un’intervista che Helena Janeczek mi ha concesso e che in forma rimaneggiata è stata pubblicata su Vanity Fair. Più sotto, l’intervista video di Repubblica tv.
HELENA JANECZEK: SIAMO ANCORA CAPACI DI RACCONTARE
“La letteratura non fa risorgere i morti. Però li racconta”. Le parole sono modulate con una delicatezza pacata, quasi una dettatura esercitata con pudore. Helena Janeczek potrebbe sembrare una scrittrice saggia in quanto calma e consapevole. Non è propriamente così. A dispetto di nome e cognome, non è un’autrice mitteleuropea o slava, ma una delle migliori scrittrici italiane. Il fatto è che non non sarebbe italiana se non avesse sposato un italiano: è tedesca di nascita. E non soltanto tedesca — Janeczek è un melting pot vivente che sembra uscito dal terrore e dalla volontà di sopravvivere esplosi nel secolo scorso con la seconda guerra mondiale e lo sterminio ebraico.
Nata a Monaco nel 1964, vive in Italia dal quasi trent’anni. Ha stupefatto la critica con Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997). Romanzo che andava ben oltre gli steccati del romanzo, rompendo le strutture classiche, raccontava parte dei flussi di sangue che scorrono nel corpo e nella storia di Janeczek. Era il resoconto di un viaggio di ritorno abissale, compiuto dall’autrice con sua madre — ad Auschwitz, l’orrore in terra dal quale uscirono salvi i genitori (entrambi ebrei polacchi) di questa scrittrice furibonda e imperturbabile. La furia e l’imperturbabilità, oltre alle molte arterie che veicolano sangue diverso, fanno la cifra del nuovo romanzo di Helena Janeczek, Le rondini di Montecassino (Guanda, 18 euro). Un affresco a partire dalla storica battaglia tra nazisti e alleati, che distrusse la grande abazia benedettina. Oggi è molto difficile realizzare un affresco. Janeczek ci è riuscita decomponendo e filtrando elementi, personaggi, storie, tempi, luoghi distantissimi ma connessi da pellegrinaggi di presuli e sopravvissuti. Nel libro, molti sguardi convergono su Montecassino. Per esempio, quelli dei soldati polacchi, reduci da un’epopea incredibile, dai gulag sovietici all’Iran, alla guerra in Africa e poi in Italia, fino a unirsi con quella miscellanea di battaglioni che prese Montecassino. In realtà, questo straordinario romanzo è un atlante anatomico dell’anima dell’autrice: si osservano in trasparenza gli snodi e le vertebre che compongono l’insieme di storie condensate nella videnda personale di Helena Janeczek. A partire dai suoi genitori, deportati, che venivano da famiglie ebree polacche molto diverse.
“Osservante quella di mio padre. Più laica quella di mia madre. Non che questo abbia inciso nel riuscire a sopravvivere al lager. Emersi da Auschwitz, ripararono nel sud della Germania, con i fratelli di mio padre. Attesero il visto per l’America. Mio padre si ammalò. I suoi fratelli partirono per gli Stati Uniti. I miei restarono a Monaco. Mio padre, come racconto alla fine di Le rondini di Montecassino, cambiò il cognome in Janeczek — che quindi è falso”.
Non furono gli ebrei, tuttavia a prendere l’abazia a Montecassino. Qui tu narri di battaglioni che attraversano mezzo mondo per arrivare a poche centinaia dai monaci benedettini.
“Una compagine di dimenticati, provenienti da mezzo mondo. Marocchini. Indiani. Pochi sanno del battaglione maori della Nuova Zelanda. Morirono qui. Le lapidi al cimitero di guerra hanno iscritti i loro nomi che per coincidenza paiono ebrei: Samuel Mendes o Leonard Koha”.
Una scoperta che non pare casuale.
“Ma lo è. Ho iniziato a lavorare a Le rondini di Montecassino quando stavo scrivendo da anni un altro libro. Mi è letteralmente entrato nella vita. Ho cominciato con un racconto, poi ho compreso che quel racconto era parte di un romanzo, un preambolo a episodi. Il libro è fiorito. A volte fare qualcosa che non sai è proprio fare quello che devi. E’ diventato un percorso rabdomantico, che ha richiesto certo molto studio. Sono convocati nel racconto piccoli popoli sottoposti a partizioni, a violenze, a esili e compromessi”.
E’ il racconto di autentici esodi. La guerra di un soldato texano. Lo splendido capitolo sul viaggio odierno del nipote di un combattente maori. Il rimbalzo tra due narrazioni, quella di due ragazzini meticci oggi a Montecassino e l’incredibile percorso di guerra dell’ebrea Irka, che perde la famiglia e ne acquisisce un’altra nel gulag. E ci sei tu, un amico polacco della tua famiglia, che hai conosciuto, con la sua misteriosa parabola che conduce dall’est fino alla battaglia…
“L’episodio maori è abbastanza significativo. Ho scelto di concentrarmi proprio sulla storia di Rapata, il nipote del veterano di Montecassino, Charlie. E’ un popolo agli antipodi di quello italiano. In senso fisico: stanno proprio dall’altra parte del globo. E sono sotto il regime inglese. Tutta la loro partecipazione alla guerra nasce nella contraddizione a cui è sottoposto chi cerca una legittimazione per integrarsi e chi invece avverte il tacco del padrone colonialista. Questo piccolo popolo diviene una piccola parte di un esercito più grande. E’ ciò che accade anche agli ebrei polacchi: un piccolo popolo all’interno di un esercito sottoposto a un tour de force che sembra una violenza del destino. Il racconto sui maori cerca di restituire lo spaesamento a cui furono sottoposti tutti questi protagonisti. Ho riprodotto alcune parole chiave della lingua maori, ho passato ore su YouTube a vedere filmini di feste di compleanno in case maori. Ho studiato la loro storia. Nasce in questo modo l’idea di un risucchio che non porta soltanto alla battaglia di Montecassino — conduce ai lager tedeschi, ma lascia intatta la storia particolare di questi popoli e delle vite individuali”.
Fai viaggiare il lettore per distanze geografiche enormi, ma attraversi anche il tempo e arrivi a oggi.
“Soprattutto coi i due ragazzini di buona famiglia, cresciuti a Roma in una scuola internazionale. Sono emblematici della generazione di oggi. Stanno cercandosi, espressione di un altro esodo, in senso temporale. Si muovono a tentoni. Sono sul luogo della battaglia, impegnati nel sociale come si direbbe oggi — eppure sono vittima del racconto del passato, che spesso non si percepisce attinente a noi stessi. Sono apolidi, vittime dell’ambivalenza di ogni generazione precedente, che avverte di avere fatto la storia e la racconta, ma anche considera fuori dalla storia chi viene dopo”.
A proposito di ragazzini, stando in tema ma strappandosi dal libro: tu hai un figlio. Come lo introduci alla storia di sofferenze, deportazioni e salvezze che lo ha preceduto?
“La storia è a sua disposizione, può prendere ciò che desidera, quando vuole. Ti racconto un episodio. Tempo fa stava giocando coi suoi compagni a un videogame di guerra: lo scenario era lo sbarco in Normandia. Si divertiva un sacco. Suo padre gli ha spiegato quanto fosse orribile la guerra, quanto fosse tremendo ciò che è accaduto anche alla famiglia di sua madre. Mio figlio ha risposto che a essere bello era il gioco, non la guerra. Una risposta che rende giustizia naturale e postuma a qualunque destino di dolore”.
L’Italia è vista soltanto da occhi stranieri e, per questo, straniati.
“Quegli occhi sono anche i miei, in parte. Lo sguardo un po’ da fuori e un po’ da dentro mi appartiene. Desideravo raccontare l’Italia con gli sguardi estranei che ci sono stati prima della globalizzazione. Di fatto, l’Italia è stata un’avanguardia della globalizzazione, un Paese di per sé meticcio. E poi ragiono da tempo sul fatto che dove sono nata e cresciuta, cioè quella città sotto bolla che è Monaco, non suscita alcun senso di appartenenza in me. Io vengo da un’infanzia di rifiutata o di ebrea richiesta del parere, in un tempo in cui la Germania ancora stava elaborando l’orrore. Quando scoppiò la guerra in Libano, ero una bambina, ma mi venne chiesta un’opinione da ebrea su quanto stava accadendo. Era soffocante. E dire che non avvertivo il peso di vivere e parlare nella patria dello sterminio”.
E’ anche per questo che sei venuta a vivere in Italia?
“I miei genitori mi ci portavano in vacanza, da sempre. Appena passavo il confine, ciò che avvertivo come plumbeo o impossibile diventava di colpo leggero, normale. E’ una sensazione che è andata perdendosi in questi decenni, qui in Italia: il fatto di essere accolti calorosamente. C’è una cifra comune a tutte le patrie confluite in me, quella slava e tedesca: la freddezza nell’accogliere l’altro. Venire in Italia, lasciando una città che non mi apparteneva e a cui non appartenevo, è stata una scelta quasi naturale”.
Il tuo romanzo è una narrazione potente. Si avverte fiducia nella letteratura, nella sua persistenza.
“Io tengo a questo: mostrare come oggi noi siamo ancora capaci di raccontare gli uomini. Narrare queste storie, in parte desunte dalla realtà e in parte inventate, e fare coincidere questo racconto con le tracce delle nostre proprie storie è un assunto poetico e anche politico. I racconti degli umani sono di fatto un gesto comunitario. Per raccontare bisogna mettersi nel punto di vista di colui in cui ci si cala. E proprio questo è il legame che tiene unito umano a umano”.
Con Le rondini di Montecassino ci troviamo di fronte a uno dei più importanti romanzi epici di questi anni in Italia. Se c’è epica, c’è un eroe.
“Qui l’eroismo è la trama quotidiana. Qualunque gesto è eroico. Quando si è immersi in realtà così devastanti, l’eroismo è ciò che l’umano oppone all’orrore. Ogni azione straordinaria è semplicemente umana”.
In Lezioni di tenebra, in quel viaggio dell’amore nell’aberrazione fatto insieme a tua madre, il racconto si svolgeva proprio nel segno della madre.
“Le rondini di Montecassino è un racconto scritto nel segno del padre. Spesso, del silenzio del padre. Scrivere questo libro ha significato misurarmi col maschile, col paterno. E avvertire anche la sua sottrazione, il suo silenzio. Con ciò che ne deriva: il desiderio di proteggere quel silenzio e al tempo stesso di sfondarlo, avvertendo in quel silenzio un messaggio, una comunicazione intima. Che esige di non essere raccontata”.