di Danilo Arona
Com’è noto ai fan più sfegatati del basilare racconto Giro di vite, lo scrittore Henry James udì per la prima volta il nucleo narrativo che poi si sarebbe trasformato in una delle più celebri storie di fantasmi di tutti i tempi nella residenza arcivescovile di Addington Park, a 13 miglia da Londra, nella serata del 10 gennaio 1985.
Come riporta Leon Edel, il più illustre e apprezzato biografo jamesiano, ne Il soprannaturale di Henry James (Racconti di fantasmi, Einaudi, 2005), fu in un salotto, davanti a un camino acceso, dopo la classica ora del tè sul far dell’imbrunire, che James si ritrovò da solo con l’arcivescovo di Canterbury Edward White Benson, e con lui iniziò un fitto e produttivo dialogo sulle apparizioni fantasmatiche e le paure notturne.
Il romanziere e il prelato si trovarono d’accordo sul fatto che tutti i buoni racconti di fantasmi sembravano ormai essere stati narrati, però Benson si ricordò di una storia che aveva udito anni prima, e che riguardava certi servi morti e i bambini da loro perseguitati. Così rievoca l’abboccamento James nei suoi Taccuini in data 12 gennaio 1895: “…annoto qui la storia di fantasmi raccontatami in Addington (sera di giovedì 10) dall’arcivescovo di Canterbury: il semplice, vago, impreciso e incerto abbozzo di essa – tutto quanto insomma gli era stato riferito (molto male e incompiutamente) da una signora che non possedeva l’arte di narrare, né era dotata di chiarezza, ovvero la storia di certi bambini (numero ed età imprecisati) lasciati alle cure di servi in una vecchia casa di campagna, a causa – presumibilmente – della morte dei genitori. I servi, malvagi e depravati, corrompono e depravano i bambini; i bambini sono cattivi, empi a un livello sinistro. I servi muoiono (il racconto lascia nel vago sul come) e i loro fantasmi, le loro figure, ritornano a perseguitare la casa e i bambini, ai quali sembrano far cenni, invitandoli e sollecitandoli, da luoghi pericolosi (come il profondo fossato scavato dal crollo di un recinto, ecc.) così che i bambini, rispondendo ai loro richiami, possano distruggersi, perdersi, e cadere in loro potere. Fintanto che i bambini ne sono tenuti lontani, non si perdono; ma queste presenze malvagie cercano e ricercano in ogni modo di impossessarsene. Tutto sta a vedere se i bambini sono spinti ad «andare dove esse si trovano». L’ambiente, la storia, tutto è oscuro e imperfetto, ma contiene una suggestione stranamente raccapricciante. La storia dev’essere raccontata – ovviamente in modo accettabile – da uno spettatore esterno, un osservatore.”
Sin qui gli appunti. Poi, all’inizio dell’autunno 1897 James rilesse la vecchia annotazione e “colpito di nuovo, la trasformai in una novella fantastica, che, concepita dapprima come brevissima, finì per diventare un racconto di una certa lunghezza.”
Nell’anno precedente lo scrittore aveva cominciato a usare la tecnica della dettatura diretta a un dattilografo. Per questo aveva assunto al suo servizio un giovane scozzese, William McAlpine, a cui dettò il racconto durante le ultime settimane del 1897. Il 1 dicembre 1897 Henry James scrisse alla cognata, moglie di William: «Ho finalmente terminato il mio piccolo libro, che è solo un libretto…»
Il libretto era Giro di vite che venne pubblicato a puntate su Collier’s, dal 27 gennaio al 16 aprile 1898, e nel corso di quell’anno apparve anche in un volume dal titolo The Two Magics.
Dieci anni dopo il racconto apparve revisionato nella New York Edition. Ed è quanto mai singolare il constatare, più che l’ipotizzare, che l’origine di alcune delle revisioni siano dovute a un consulto medico avuto mesi prima da James con il famoso cardiologo scozzese James Mackenzie (1853- 1925), che aveva aperto da poco uno studio nel cuore di Londra, in Harley Street, frequentatissimo dai vip dell’epoca. Pioniere nello studio delle aritmie cardiache, Mackenzie ricevette quindi la visita di un Henry James, molto famoso in quel momento anche per Giro di vite e piuttosto preoccupato per la sua salute (sarebbe morto peraltro nel 1916 in seguito a un attacco di cuore). Ma la conversazione tra i due, nemmeno ci trovassimo in un film di David Cronenberg, saltò dai riscontri oggettivi sullo stato del paziente alle implicazioni dell’immaginazione umana sulle condizioni fisiche di chi si trova a padroneggiare tanta creatività. Ne testimoniò lo stesso Mackenzie, archiviando l’incontro nel suo libro Angina Pectoris (1923) come “Caso 97”, faccenda destinata probabilmente a cadere nell’anonimato se non fosse intervenuta la scoperta del dottor Harold Rypins (1892-1939) che nel suo libro postumo Henry James in Harley Street svelò l’identità dell’insigne romanziere che per deontologia avrebbe dovuto essere oscurata. La conversazione privata tra medico e paziente, come riferisce Edel, aiuta a documentare la teoria jamesiana del «terrore» applicata in Giro di vite. Mackenzie aveva appunto letto come tanti il racconto “in cui si parlava di uno straordinario avvenimento capitato a due bambini. Venivano descritte parecchie scene in cui, a quanto pareva, i bambini tenevano conversazione con persone invisibili, in seguito alle quali essi rimanevano profondamente sconvolti. Alla fine di uno di questi dialoghi, uno di loro si voltò, fuggi urlando di terrore, e morì nelle braccia di chi narrava la storia».
Partendo proprio dall’ipotesi formulabile a proposito dell’immaginata morte del piccolo Miles, Mackenzie sottopose a esame medico il romanziere del «Caso 97» e poi gli disse: «Lei non ha mai spiegato la natura dei misteriosi abboccamenti». E il resoconto continua così: «Egli (James) mi espose subito i principi su cui creare un mistero. Fino a che gli eventi sono nascosti, l’immaginazione correrà senza freni e dipingerà ogni sorta di orrori, ma, appena si solleva il velo, ogni mistero sparisce e con esso la sensazione di terrore». Ciò spiega la deliberata «ambiguità» di James nei suoi racconti del soprannaturale. Il seguito della cartella clinica del dottor Mackenzie descrive come il medico applicò la teoria allo stesso romanziere per dimostrargli che si creava arbitrariamente uno stato di paura, immaginando per sé una seria cardiopatia.
Purtroppo Mackenzie sbagliò tutto. In primis, non capì l’unicità di Giro di vite, altrimenti avrebbe con più cura tenuto nascosti i suoi elementi d’informazione. Quando il dottor Rypins gli chiese apertamente se quel paziente era stato Henry James – questo avvenne alcuni anni dopo la morte del romanziere – Mackenzie confermò che il «Caso 97» era effettivamente James. Ma sbagliò in qualche modo pure la diagnosi perché James era sul serio affetto di cardiopatia. Se mai una fortissima emozione, il terrore puro, poteva certo essere una pesante concausa in una compromissione fatidica delle funzioni vitali. E in questo ci azzeccò di sicuro a proposito dell’immaginata morte di Miles.
Alla fine il consulto tra Henry James e James Mackenzie ebbe di sicuro conseguenze sul testo finale, quello della New York Edition che è poi quello ufficiale, tradotto di volta in volta nelle varie edizioni: le revisioni dieci anni dopo la prima edizione a puntate di Collier’s, ci mostrano infatti un James costantemente impegnato a rendere la narrazione più soggettiva. La parola «percepii» si trasformò in «sentii»; «Io ora ricordo» divenne «Io ora sentivo»; «Mi apparve Mrs Grose» cambiò in «Mi colpì».
In tutti i casi di revisione la natura della testimonianza dell’istitutrice si trasformò da un resoconto di cose osservate in quello di cose provate soggettivamente, «sentite». Un critico, scrive Elder, proseguendo nell’approccio testuale, ha concluso che oltre la parola «sentire» ci sono «altre parole ripetute più e più volte, per mostrarci che l’istitutrice sta raccontando non ciò che è dimostrabile, ma ciò che lei prova o immagina o sente». Un salutare effetto a favore della mitica ambiguità letteraria di Giro di vite. Non così salutare, all’apparenza, per quel che riguarda la diagnosi del medico sul paziente. Oppure… non è che fu la paura a stroncare James negli stessi termini da lui immaginati nei confronti del povero Miles?