di Martino Sacchi e Alessandro Peregalli
Oggi, 15 ottobre 2016, ricorrono i 50 anni dalla nascita, a Oakland, California, del Partito delle Pantere Nere.
Nel Dicembre 2013 abbiamo incontrato a San Cristobal de las Casas, Chiapas, Emory Douglas, Ministro della Cultura del Black Panther Party fino allo scioglimento del movimento. Come noi, Douglas era uno dei cinquemila studenti che avrebbero frequentato l’escuelita zapatista: momento in cui le comunità zapatiste del sud est messicano hanno aperto le loro case per ospitare attivisti e attiviste di tutto il mondo e mostrare i percorsi di autonomia portati avanti in oltre vent’anni di lotta. Alcuni mesi in seguito abbiamo avuto la possibilità di incontrarlo di nuovo nella sua casa nella periferia di San Francisco, e gli abbiamo fatto quest’intervista, che più che altro é stata una chiacchierata sulla sua biografia di militante, di artista, di internazionalista. Da buon compagno, afroamericano, erede di una tradizione di lotta che più che mai si è sviluppata attraverso linee di fuga, spostamenti, deportazioni ed esodi (dal middle passage atlantico alle esperienze antischiaviste del marronaggio), non ci ha stupito la sua naturale capacità di mettere in relazione resistenze e lotte in contesti diversi come qulla di una periferia come Oakland negli anni ’60 e ’70 e la montagna e la selva indigene del sudest messicano oggi. Dalle descrizioni dirette di un artista di strada come Emory Douglas, è possibile rintracciare quei circuiti politici rivoluzionari che hanno collegato le Pantere Nere alla Cina di Mao, alle pagine di Fanon e ai movimenti di liberazione in Angola. Nell’arte di Douglas si intersecano queste traiettorie transnazionali, dall’arte della Rivoluzione Culturale, ai manifesti per la Conferenza Tricontinentale di Cuba nel 1966, fino al progetto “Zapantera Negra” avviato nel 2012 a sostegno delle lotte in Chiapas.
Maggio 2014, San Francisco: Sei innanzitutto sia un artista sia un attivista politico. Nessuna di queste due componenti può essere considerata come separata. A partire dalla tua traiettoria personale attraverso i movimenti sociali degli anni 60 e 70, in che modo questi due aspetti dell’arte e dell’attivismo politico si sono intersecati?
Queste due componenti si incontrarono nella mia partecipazione al Black Arts Movement, prima delle Pantere Nere. Fu un movimento molto vasto nella West Coast, nella East Coast e un po’ nel Sud, dove incontrai Amiri Baraka (LeRoi Jones) e cominciai a fare il suggeritore per le sue opere teatrali mentre frequentavo il San Francisco Community College. Nello stesso periodo – era il gennaio del 1967 – alcuni giovani attivisti stavano organizzando un incontro in occasione dell’arrivo di Malcom X nella Bay Area: loro sapevano che ero parte del Black Arts Movement e mi chiesero di fare la grafica per l’iniziativa. Quando poi fui all’incontro mi dissero che alcuni fratelli stavano arrivando per organizzare un’assemblea sull’autodifesa e la sicurezza. Ci andai e lì incontrai per la prima volta Bobby Seale; questo avvenne dunque molto prima che lui mi chiedesse di unirmi al Black Panther Party. Mi mise in mano un biglietto dell’autobus – io non avevo una macchina – e mi invitò a casa sua dove molta gente viveva in comunità. Insomma il lavoro grafico su Malcom X fu la mia prima partecipazione politica come artista. Nel Maggio sempre del ’67 feci la prima copertina di un tabloid, lavorando molto sulla grafica per le riviste. Era un periodo in cui l’arte cominciava ad essere percepita come un riflesso della politica, ma era ancora qualcosa di separato dal Black Panther Party. In quel lavoro misi in pratica una serie di tecniche acquisite quando stavo al City College basate sullo stile commerciale che si usa di solito per i portfolio, quelli che fai per cercare lavoro. Quando poi entrai nelle Pantere Nere sviluppai uno stile più libero, ispirato ai Dieci Punti del programma e alla nostra linea, e Bobby Seale e Huey Newton mi lasciarono completa autonomia. Fu lí che l’arte divenne per me un riflesso di ciò che succedeva nel mondo su un piano locale, nazionale e internazionale.
Quali esperienze artistiche e politiche hanno contribuito all’elaborazione di questo stile nuovo di cui parli?
Buona parte delle influenze politiche venivano da Cuba. Le OSPAAAL [Organization of Solidarity for People of Asia, Africa and Latin America], produssero moltissimi poster in solidarietà con le lotta globali. Li potete trovare online oggi, sono migliaia di poster, e furono alla radice di parte del lavoro artistico che ho fatto. Fui poi molto influenzato dall’arte che veniva dal Vietnam, quella cinese e ogni tanto russa, così come dai lavori che vennero fuori dal movimento contro la guerra in Vietnam qui, negli Stati Uniti.
Qual era il tuo ruolo all’interno del Black Panther Party? Come si collegavano le strategie artistiche con l’impegno militante nel partito?
Inizialmente mi era stato dato il titolo di “revolutionary artist” e lavoravo principalmente al giornale. Man mano che il partito cominciò a crescere si dotò di una struttura per accogliere le persone che si univano e volevano contribuire. Così si formarono i ministeri e io diventai Ministro della cultura, con il compito di coordinare tutte le iniziative che gravitavano intorno a quell’ambito, da striscioni e locandine, ai contatti per le raccolte fondi. Santana ad esempio fu il primo a partecipare, ben prima che diventasse famoso, poi Jerry Garcia, The Greatful Dead, John Lee Hooker, gente di tutti i tipi nel corso degli anni. Ecco, quello era parte delle nostre responsabilità. Si trattava essenzialmente di insegnarsi le cose a vicenda, condividere capacità, accogliere nuovi membri. In questo contesto c’erano anche corsi di studio politico man mano che ci evolvevamo in diversi collettivi.
Oltre a questo c’era il lavoro politico quotidiano: vendere giornali, partecipare alla sorveglianza della polizia (copwatching) con i gruppi di autodifesa nei quartieri, e così via.
Alla luce di un’esperienza come quella dell’autonomia Zapatista, a cui ti sei avvicinato di recente, puoi descriverci i tratti principali della pratica politica del Black Panther Party?
Ci sono ovviamente differenze forti a livello di contesto. Oakland è una città nella quale cercavamo di difenderci e di portare avanti una lotta di autodeterminazione. Nella selva è tutta un’altra cosa, è un terreno diverso.
A livello ideologio il Black Panther Party si ispirava al marxismo e al leninismo, anche se elaborammo una nostra ideologia, cercando modi originali di connetterci con le lotte globali. Certo leggevamo di tutto, ci era richiesto, e alcuni nel partito erano marxisti, ma altri, come me per esempio, non avevano assolutamente idea di nulla quando entrarono. Quindi non era tanto necessario affrontare temi intellettuali quanto scomporli in un linguaggio comune. Questo è stato il genio delle Pantere Nere, in particolare di Bobby Seale che era il più intellettuale, un grande comunicatore, mentre Eldridge Cleaver era più concentrato sulla militanza quotidiana, anche se entrambi erano molto rispettati, erano capaci di comunicare anche all’interno del partito stesso. Molte Pantere erano giovanissime, io sono entrato a 21 anni ma il primo quadro era tra i 16 e i 19. Bobby Seale aveva 30 anni ed era considerato un vecchio. Fred Hampton aveva 21 anni, ma era già stato attivo negli youngster prima di entrare nelle Pantere Nere. Fu ucciso nel 1969 quando la repressione si fece più pesante e quando altre due pantere, Bunchy Carter e John Huggins, furono assassinate nel campus dell’università di Los Angeles. Poco dopo l’assassinio di Fred Hampton ci fu una sparatoria di diverse ore tra la polizia e la sezione di Los Angeles del Black Panther Party. Iniziarono a infiltrare agenti provocatori nelle Pantere Nere, veri e propri attacchi paramilitari, un po’ come fanno con gli zapatisti adesso. Il COINTELPRO [programma di controspionaggio dell’FBI] faceva circolare dichiarazioni false per metterci gli uni contro gli altri.
Quanto alla pratica politica, promuovevamo l’autorganizzazione a partire dai bisogni primari, come l’assistenza medica o il breakfast program: mostravamo le contraddizioni rispetto a ciò che il governo non faceva. Il primo breakfast program fu alla chiesa di West Oakland e presto il progetto si diffuse in molte città degli Stati Uniti: Pantere che si alzavano alle 4 del mattino per preparare la colazione ai ragazzini dei quartieri prima di andare a scuola. Intorno a noi c’era solidarietà, ad esempio da parte di molti negozianti, ma anche molta intimidazione e diverse facilitazioni promesse a chi non collaborasse con noi. Una volta, ad esempio, la polizia inviò una falsa lettera minatoria, apparentemente firmata da Huey Newton, a un imprenditore che finanziava il progetto.
Sei tra i protagonisti di questo lungo percorso politico afroamericano e più recentemente hai partecipato alle reti di solidarietà con il movimento zapatista messicano. Che connessione politica e biografica c’è tra queste due esperienze?
Noi siamo sempre stati internazionalisti. Avevamo compagni nel Vietnam del nord. Avevamo compagni in Nord Corea, compagni esiliati in Algeria nel 1969. Eravamo invitati a parlare in tutto il mondo in appoggio ai movimenti di solidarietà e resistenza contro le guerre. Bobby Seale e le altre Pantere viaggiavano parecchio. Anche qui negli USA eravamo in contatto con diverse lotte sulla razza: c’erano gli Young Lords portoricani, le Red Guards asiatiche, i movimenti chicani. Eravamo in contatto con le continue lotte in America Latina, ricordatevi le Olimpiadi di Città del Messico del 1968 quando ci fu il massacro degli studenti al Tlatelolco. Perciò quando Caleb Duarte, un giovane artista che avevo incontrato cinque o sei anni fa e che aveva aperto un centro artistico a San Cristobal, in Chiapas, mi chiese di andare nel sud del Messico come artist in residency, l’idea era di mostrare come le strategie estetiche avessero ispirato i percorsi di autodeterminazione di entrambi i movimenti, zapatista e afroamericano. Così nacque il progetto Zapantera Negra, attivo ancora oggi. Caleb conosceva diversi zapatisti e aveva contatti nei Caracoles e riuscì a organizzare il nostro contributo alle comunità sotto forma di murales e dipinti. Fu bellissimo, molti giovani del posto parteciparono attivamente, io purtroppo non parlo spagnolo ma potevo sentire le vibrazioni e l’entusiasmo. All’inizio si trattava di andare laggiù a incontrare persone, e in un certo senso era fare qualcosa di cui avevo sempre fatto parte, cioè portare solidarietà. Nel 2012 mi chiesero di fare una presentazione del mio volume con le Pantere Nere, ed erano presenti gruppi solidali da tutto il mondo. Rimasi un mese, fu un onore poter andare lì e conoscere quella realtà con i miei occhi. Dalla Bay Area molta gente era scesa in Chiapas nel corso degli anni, ma in quel periodo al di fuori di alcuni comitati di solidarietà poche persone seguivano ciò che succedeva in Messico. E infine sono tornato quest’anno [Dicembre 2013] per l’Escuelita zapatista, quando ci siamo incontrati.
Raccontaci della tua esperienza all’escuelita…
Io ero al Caracol di Morelia. Il mio votàn [guardiano, guida personale di ogni alunno e alunna dell’escuelita durante la permaneza nelle comunità] era un giovane zapatista di tredici anni. Io non parlavo spagnolo e lui non parlava inglese, ma ci dissero che ce la saremmo cavata. Siamo arrivati al Caracol dopo 7 ore di pullman e tutti gli zapatisti erano lì ad accoglierci. La collettività dove stavamo noi era a mezz’ora di distanza dal Caracol ed era mista, alcuni erano zapatisti e altri non lo erano. Noi lavoravamo ogni giorno nei terreni comuni. Era una casa semplice, con il pavimento di terra e la doccia fuori, sul lato della montagna vicino a dove cresceva parte del grano. La doccia era formata da un tubo che pompava acqua e ti lavavi nel fango, fuori [ride], con un telo di plastica teso tra alberi. E quando dovevi andare in bagno dovevi aggirare la collina e stare attento a non scivolare sul fango. Mangiavamo più che altro fagioli e riso e quella bevanda di mais scaldato [quello che in Messico chiamano pozole]. Pioggia di notte e sole di giorno, loro camminavano tranquillamente, io sarò caduto sei volte [ride] oppure per saltare un fiumiciattolo dovevo concentrarmi moltissimo [ride]. Oh… è un mondo diverso, amico.