di Dario Voltolini
Il cielo in una stanza. Io l’ho visto.
Erano i giorni della siccità invernale più acuta. Comprimendo con forza un metro cubo d’aria si otteneva un mattoncino nero e lucido di un kilo e mezzo. Riciclabile.
Dalle balconate della Mole si scorgeva con grande difficoltà il profilo del Monte dei Cappuccini. La collina retrostante era invisibile. Il cielo, non parliamone neanche.
Ma, nella Manica Lunga del Castello di Rivoli, passeggiando fra le metamorfosi articolate della bambola alata in resina sintetica di Takashi Murakami e le apparizioni dechirichiane delle splendide modelle nude di Vanessa Beecroft dalla testa nel bozzolo del baco della seta che con piccoli movimenti sembravano membra di un unico roseo corpo semicosciente, soffermandomi davanti alle lande di Mariko Mori dove non esiste nemmeno più la disperazione dei modelli originari campionati e dispersi in un sito privo di atmosfera ma spazzato da un vento vuoto, abbacinato all’incontro con la coppia di successori primitivi di Tim Noble e Sue Webster che incedono da uno sfondo candido e privo di angoli, indugiando di fronte alle finestre di Toba Khedoori grato di tanto leggero e demente conforto, transitando lungo la sequenza di deliqui premacellativi ridisegnati da Amy Adler e gli sguardi profondamente insalubri di Margherita Manzelli, dopo essere stato osservato dall’orso di Gregory Crewdson e avere osservato la sua donna incinta e il fumo del suo incendio nel sobborgo, però prima di incontrare Al Pacino e il suo archetipo nei montaggi di Pierre Huyghe, il cielo io l’ho visto. In una stanza.
Bisognava scostare una tendina nera. Si entrava quindi nella stanza, completamente nera. Qui Olafur Eliasson, toccato dalla grazia, aveva allestito il seguente semplice meccanismo. Un paio di tubazioni lungo il soffitto, in mezzo, nel senso della lunghezza. Una vasca stretta e lunga sul pavimento, a piombo sotto i tubi. Una pompa. Quattro fari. E acqua.
Dai tubi, crivellati, gocciolava l’acqua. Veniva a raccogliersi nella vasca e la pompa la rispediva nei tubi, da cui gocciolava e così via. I quattro fari sparavano luce in stroboscopiche raffiche. Il ritmo della luce impediva ai nostri occhi di vedere il movimento di caduta delle goccioline. Queste erano così immobilizzate di attimo in attimo, tutte quante insieme, brillanti come perle, no, più delle perle, perché l’acqua è trasparente. Cristalli, ma sferici. Limpidi pianetini in formazione. Una pioggia senza direzione, agile e scattante, una pioggia giovanissima, forse la prima pioggia?
Tutto il cielo, tutta la sua pioggia: ecco dov’erano.
Da La Stampa – Torino Sette, che si ringrazia.