di Valerio Cuccaroni
Geraldina Colotti, La guardia è stanca, Ed. Cattedrale, Ancona, 2010, pp. 109, € 13,50
A cinque anni di distanza dal suo ultimo libro, Certificato di esistenza in vita, raccolta di racconti pubblicata da Bompiani, con La guardia è stanca Geraldina Colotti torna a interrogare, in versi stavolta («versi ciechi / di rabbia che consuma»), le coscienze dei lettori, sempre più incupite da «questo grigio tempo bastardo / che teme la vita».
Giornalista de «il manifesto», responsabile dell’edizione italiana del mensile «Le Monde diplomatique», reduce da 27 anni di carcere per la sua militanza nelle Brigate Rosse, Colotti è una di quelle scrittrici italiane di cui è impossibile trascurare la biografia, sebbene questa non oscuri mai l’opera, grazie a quel raro dono della leggerezza che permette all’autrice di evitare accuratamente le paludi dell’autobiografismo.
Così come in Certificato di esistenza in vita distanziava la materia della narrazione attraverso la finzione, nelle sue poesie, a partire da Versi cancellati (1996) e Sparge rosas (2000), Colotti dosa sapientemente la componente engagée con una vivissima e destabilizzante carica ironica.
Assolutamente non domestica, eventualmente si potrebbe definire carceristica (per decenni essendo stato il carcere la sua dimora), verrebbe da dire che Colotti è un poeta incivile, perché richiama continuamente, sottotraccia, la necessità di rovesciare il sistema. A partire dal sistema linguistico.
Le armi usate sono quelle dell’ironia, dunque, e della polisemia. L’ironia è la cifra dell’intera raccolta, ma esplode in tutta la sua perturbante carica soprattutto in una poesia che sembra parlare dell’igiene orale e, allo stesso tempo, alludere alla lotta armata: «Kit / Odontovax / Ricarica doppia / Azione totale / Ma attenzione / a non ledere / papille interdentali / […] / Semtex / Ricarica doppia / Pasta gengivale / Saltano corone / tremano poltrone / sotto il trapano» (Ricarica doppia). Gli oggetti di consumo si rovesciano in strumenti di contestazione, il linguaggio del supermercato diventa la lingua della poesia, secondo un procedimento teorizzato nel poemetto dada Le teste di Modì: «Luogo mio da cui / Non si vede luogo, / batti le mani e canta, / mia lingua rovesciata / afferra l’anima per la vita / portala con te al supermercato».
La polisemia, caratteristica intrinseca della lingua che si oppone all’univocità, diventa strumento per opporsi al pensiero unico: dal calembour, che toglie la parola all’avversario disarmandolo – «Contro il liberismo, / versoliberismo» (Poeticanti) – all’antanaclasi, che ha portata argomentativa – «Guerra santa in Terra santa» -, e alla paronomasia – «fai buon viso / al cattivo giogo» (Recinti).
In Sparge rosas il discorso era frammentario, formato da testi isolati, reperti di anarchia linguistica, gli unici possibili, del resto, quando ancora l’orizzonte era quello chiuso della Vita galera («Vita non vita / esercizi di stile / esercizi di bile»). Ne La guardia è stanca i giochi di parole, gli agguati al linguaggio sono inseriti in un piano di sviluppo: le sezioni Ai soli distanti, Le teste di Modì, Genova 2001, Palestina, Neve funzionano come altrettanti capitoli di un romanzo breve in versi, un romanzo di controinformazione, che, in forma ellittica, com’è proprio della poesia, dà conto non solo della sorte degli sconfitti (i soli distanti, i guerriglieri, i terroristi sconfitti, rifugiati a Parigi: «il sole inutilmente chiede asilo», in Rive gauche) ma anche, e soprattutto, delle nuove forme di ribellione e resistenza (le «rondini inquiete» di Genova 2001, i Palestinesi, i migranti dei Cimiteri marini, per i quali «La morte arriva puntuale / il mare a forza nove / entra nella stiva / porta alla deriva»).
La figura dominante non appartiene più a quelle di parola o di suono, come accadeva nelle raccolte precedenti, ma è una figura di pensiero: l’allegoria. I ragni, le rondini, la luna, le rose, i soli, il fiume, il deserto, i topi, che affollano La guardia è stanca sono altrettante figure allegoriche che simboleggiano strategie (i ragni), stagioni calde (le rondini), utopie (la luna), conquiste (le rose), rivoluzionari (i soli) e rivoluzione (il fiume), sconfitte (il deserto), tradimenti (i topi).
La guardia è stanca, sin dal titolo che richiama la celebre esclamazione con cui il marinaio anarchico bolscevico Zeleznjakov sciolse l’Assemblea costituente nella Russia liberata dell’ottobre 1917, si presenta come un appello ai nuovi figli di una delle tante ribelli del secolo scorso, «dee delle due di notte / dotte / o bollite a metà disperate / però simpatiche mi hai detto» (Amiche).
La situazione storica sfavorevole, del resto, non è ignorata («Dov’è il sacro / Se il dio degli assassini / Dentro il tubo catodico / Ha l’alito di vino? // Sotto i guanti il sangue / della democrazia imperante», Le teste di Modì), anzi è assunta come dato di fatto da cui ripartire: come recitano i versi conclusivi, è «Ancora inverno / nessun palazzo preso / ma abbiamo ancora inverno / per impastare neve» (Neve).