di Clelia Bettini

mnemosyne.jpgDoveva essere un giorno di sole. La polvere che solitamente le incrostava le narici si era come dissolta, forse per influsso di qualche polline che se ne andava in giro impunemente. Si alzò senza fatica, quella mattina. Si fece il caffè, con poco zucchero e senza pensare girò la manopola della radio: stranamente aveva voglia di sentire cosa succedeva nel mondo. Non ci capì molto, parlavano di morti, sempre di morti, gracchiavano nomi di corvi-ministro e ripetevano messaggi di allerta generale. Girò nuovamente la manopola e zittì quello oggetto che un tempo aveva amato. Indossò lo spolverino grigio e la sciarpa anti-tarlo e si richiuse la porta alle spalle. Il corridoio 57A era uno dei più lunghi e tortuosi, ma proprio per questo uno dei più sicuri, lo aveva stabilito già all’epoca del primo grande scossone.

La stanza che aveva ricavato in un vecchio deposito di detersivi e carta igienica non era certo il Grand Hotel (chissà come sarà stato poi questo Grand Hotel, si chiedeva a volte) ma la si poteva dire accogliente. Un piccolo letto — due poltrone in pelle unite assieme e private delle rispettive spalliere — un grande tavolo da lavoro e una stufa a carbone, di quelle in ceramica, che le serviva per scaldarsi e per cucinare. Aveva ritrovato, tempo addietro, diverse tonnellate di carbone nascoste in una sala trasversale al corridoio 56F, non molto lontana da lì, una fortuna rara per i tempi che correvano. Quanto ai servizi igienici, non aveva che da scegliere il piano che maggiormente le convenisse, a seconda del momento della giornata, tuttavia utilizzava quasi sempre quelli del Deposito, più vicino ai box. Per la notte, aveva adibito a pitale una plafoniera in vetro verde acido che serviva perfettamente allo scopo. Così viveva.
Si affrettò lungo il corridoio, temendo di arrivare tardi. In verità non l’aspettava proprio nessuno, tuttavia aveva mantenuto l’abitudine ad andare di fretta, per non perdere il senso del tempo. Il tempo, ripeteva, esiste solo se ne hai poco, altrimenti si trasforma in una nube senza senso. I suoi occhi si erano abituati all’oscurità di quei luoghi, ormai riusciva a vedere perfettamente anche al buio, le bastava strizzare un poco di più le pupille, aveva imparato a controllare la contrazione dell’iride. La pesantezza del silenzio invece aveva acutizzato il suo udito e in certi momenti riusciva anche ad avvertire le formiche gridare. Si aggiustò la sciarpa attorno al collo perché la Primavera in quei luoghi non sarebbe mai entrata, in saecula saeculorum. Quando arrivò, notò con piacere di essere in orario perfetto e che nulla era cambiato dalla sera prima. I residuali la attendevano ansiosi sui tavoli squadrati del grande salone. Si accorse però che un altro frammento della base del gigantesco arazzo appeso alla parete era venuto giù durante la notte e quei cavalieri dell’Antico Impero, già stanchi, si erano trasformati in fanti zoppi. Ma a lei gli arazzi importavano poco, erano i residuali che la preoccupavano. Ultimamente non facevano che lamentarsi, si sfaldavano all’improvviso, e il suo compito diveniva ogni giorno più arduo. Le chiedevano acqua, oppure calore, altri invece reclamavano a gran voce colla e tela nuova: temevano per la propria integrità fisica, ma soprattutto morale. Stretta nel suo spolverino, si prendeva cura di loro, uno dopo l’altro, man mano che li sentiva urlare nei box, accorreva in loro aiuto. Un giorno, non ricordava più esattamente quando, aveva trovato una bicicletta abbandonata dietro a cumuli di macerie e l’aveva rimessa in funzione, in modo da poter arrivare ancor più celere, laddove ci fosse stato bisogno di lei. A volte le veniva in mente suo nonno come non lo aveva mai visto, quando in una città di mare distrutta dalle bombe correva come un matto per andare a curare i suoi malati, dispersi ai quattro angoli di quell’agglomerato di pidocchi e dolore. Mentre filava per i corridoi pensava spesso ai racconti del tempo di guerra, un’apocalissi studiata a memoria, ricordo indelebile della sofferenza che in tanti, in troppi, avevano cancellato o non avevano mai avuto. Le ginocchia le dolevano, l’età cominciava a farsi sentire e rideva della sua fragilità passata che non le avrebbe certo permesso di immaginarsi in quella situazione. Ma i residuali le dolevano nel costato, anche quella mattina, era quello il dolore più grande. In particolare un grande esemplare che tremava dalla voglia di essere esperito, aveva un disperato bisogno di sguardo umano e lei si era alzata disposta a dargli quello che voleva. Lo aprì con cautela, temeva di starnutire e di ferirlo, ma non accadde. Si meravigliò al contatto con quella creatura fragile e sola, era di una bellezza accecante persino per le sue iridi gonfie di storie. Respirò fondo e si inoltrò nel labirinto di linee nere e miniature. Si parlava di un marinaio, ma non era sicura di comprendere a fondo, sapeva però che il tenue animale marino disegnato a margine da una mano lontana era una Cicala. A un tratto gli parve di udire una voce cantare uno strano ritornello:

e questa a l’è a ma stöia
e t’ä veuggiu cuntâ
‘n po’ primma ch’à vegiàià
a me peste ‘ntu murtä
e questa a l’è a memöia
a memöia du Cigä
ma ‘nsci libbri de stöia
Sinán Capudán Pasciá [1]

Si fermò un attimo a pensare, le sembrava di aver udito quelle musica altre volte aleggiare per quell’enorme spazio vuoto, specialmente mentre curava i residuali. Tornò a immergersi nell’oggetto vivo. Le parlava di teste fasciate e di baffi, di spade ricurve e terre lontane. Sembrava spaventato, ma anche affascinato ed emanava un lieve odore tostato, misto a profumi di fiori e frutti. Poco a poco tutto si faceva più chiaro, sotto i lucernari infranti della grande sala vuota e d’improvviso tutto attorno si riempì dell’odore del mare. Le venne addosso come una furia, non lo sentiva da così tanto, fu presa da un turbinio insensato di alghe e colori, ebbe sete e le piante dei piedi le si incendiarono di sabbia calda. E ancora quello strano ritornello in una lingua nota e ignota a un tempo, ne era sicura, lo udiva veramente, non era l’ennesimo scherzo della solitudine. Guardò il residuale con aria interrogativa e ne ricevette un cenno d’assenso: la musica era là. Continuò a raccontare la storia del marinaio fatto prigioniero dalle teste fasciate, di una Grande Porta oltre la quale si apriva un mondo nuovo, di un palazzo da dove si potevano scorgere due grandi bracci di mare dorati dal sole. Erano parole di fatica, della difficoltà di comprendere quello che non si riconosce, masticare e sputare frutta secca e bucce a terra. Vide le torri alte che risuonavano litaniche e le sembrò che quella visione di una memoria altrui si intrecciasse al suo ricordare, sebbene non fosse capace di distinguere fra felicità e rovina. I ricordi delle migliaia di umani che avevano vissuto la grande sala a volte provocavano delle vere e proprie tempeste che la squassavano, restava spossata, pervasa da un’indicibile malinconia. Era nostalgia del pensiero, ma anche del calore dei corpi che non poteva più sentire con la pelle, ma solamente nella propria mente. Solamente sola, solitudine, desiderio senza stelle in un tempo cupo di nubi. Tornò a posare lo sguardo sul residuale che si mostrava grato, rinfrancato, anche se triste, per quel breve viaggio atemporale.
Il crepitare sordo del legno umido la obbligò a levare gli occhi sull’ampia sala di lettura. Che cosa era diventato quel luogo, in altri tempi tempio della memoria? In un mondo sconvolto dal caos, il fiume Lete aveva schiantato la diga ormai fragile che lo teneva a freno e aveva inondato ogni cosa, trascinando via con sé Mnemosyne e le sue figlie. Credeva di averle viste annegare, diventare cianotiche, ma non ne era sicura, perché dopo il primo grande diluvio verità e menzogna si erano confuse, in un sortilegio che lei sapeva pilotato da altri. Ricordava solo che si trovava in una delle salette laterali, come ogni giorno, intenta in una delle sue personali battaglie di parole. E lì era rimasta, non aveva avuto cuore di abbandonare quel luogo dove si era sempre sentita a casa, anche se aveva visto ognuno scappare oltre la scritta Sala de Leitura Geral. Poco a poco aveva ricostruito un mondo sotterraneo, un universo di difesa che varcava solamente grazie alla piccola radio azzurra rinvenuta nella stanza delle riproduzioni. Aveva saputo dell’annullamento cronotopico messo in atto all’esterno dalle poche voci di resistenza collettiva che la radio le mandava, voci che aveva sentito spegnersi in un lamento sempre più flebile. Dopo un lungo silenzio senza tempo, persa nella ricerca continua di qualcosa da mangiare, aveva cominciato a udire i sospiri dei residuali e aveva compreso di essere ancora parte di un tutto, di avere ancora una ragione per respirare che trascendeva le sue funzioni vitali. Li sentiva sussurrare insieme a quella musica, a quel ritornello che veniva da lontano e che non capiva, ma suonava come un ammonimento. E la sua vita aveva preso forma di nuovo.
Che strano, pensò, proprio in quel momento, grazie a quell’ultimo residuale e alle sue teste fasciate, sembrava aver recuperato la capacità di ricordare. Si mise a ballare, felice, a occupare tutto quello spazio con gesti esagerati che venivano direttamente dal profondo. Inforcò la bicicletta, incurante dei bagliori sinistri che attraversavano i lucernari, e filò via, decisa a percorrere palmo a palmo le viscere del gigantesco edificio. Forse non tutto era perduto, pensava.

1. Musica originale di F. de Andrè, Sinan Capudan Pascià.
Trad.
e questa è la mia storia
e te la voglio raccontare
un po’ prima che la vecchiaia
mi pesti nel mortaio
e questa è la memoria
la memoria del Cicala
ma sui libri di storia
Sinán Capudán Pasciá

[Questo racconto è stato pubblicato, in traduzione portoghese, sulla rivista racconto è uscito sulla rivista ViaLatina di Coimbra]