di Sandro Moiso
Qui le parti precedenti.
FELICITA’, FEBBRE E FURORE
Prologo
I nostri eroi non sono mai andati in chiesa.
Oppure hanno posto domande alle quali dio non ha saputo rispondere.
Sono vissuti in un lampo e sono morti con la pistola in pugno.
Oppure sputando sangue o soffocati dal vomito.
Non hanno chiesto onori o pietà.
Tanto nessuno glieli avrebbe concessi.
“Dio creò gli uomini diversi, la Colt li rese uguali”
“Dio creò gli uomini diversi, la Colt li rese uguali”.
Questa frase, scritta a caratteri cubitali nelle pagine di un libro, mi segnò fin dall’infanzia.
Il libro era dedicato all’epopea del Far West ed era pieno di fotografie e di illustrazioni.
Lo arricchiva un Lp che conteneva le più famose canzoni del West, accompagnate da una voce narrante che inseriva l’ascoltatore nel clima delle long tall stories tipiche di quell’epoca.
Me lo aveva regalato mio padre a Natale.
Lui e mio zio, nelle settimane precedenti, mi avevano affascinato con strane storie e battute che, capii poi in seguito, erano state rubate da un rapido ascolto del disco allegato.
Oltre che con il Far West mio padre mi fece divertire anche con le storie di Tarzan e di Sandokan.
Immaginava e mi faceva immaginare giungle impenetrabili, piene di pericoli e agguati.
Queste giungle, in realtà, erano costituite dagli orti abusivi e dai rovi che scendevano lungo le scarpate della ferrovia in corso Sempione.
Là mi portava a giocare la domenica mattina, quelle poche volte in cui poteva permettersi una mezza giornata di libertà.
Non cambierei quelle ore e quei racconti con nessuna delle attuali tendenze educative.
Questa è la storia delle conseguenze di quel libro e di quei giochi.
America, Oh America!
(Prima parte)
Verso le otto di sera di un giorno di maggio ho contratto un debito che non ho ancora saldato
Verso le otto di sera di un giorno di maggio ho contratto un debito che non ho ancora saldato.
Era il 1977 e nel parco di una villa comunale, poi adibito a luogo di civiche nozze con rinfresco, si stava svolgendo una delle tante feste del proletariato giovanile.
Sembravano finite le manifestazioni dure e talvolta un po’ lugubri, per slogan e atmosfera, degli anni precedenti.
Sembravano, appunto.
Ci illudevamo che la lotta, forse, potesse cedere il passo alla festa.
Gli Area avevano cantato Gioia e rivoluzione, ma poi dissero meglio con Festa, farina e forca.
Un giornale del movimento aveva già titolato La rivoluzione è finita, abbiamo vinto!
Ma il nostro treno sembrava ancora non potersi fermare.
Verso le otto di sera del 12 maggio giunse dunque immediata e repentina la notizia dell’uccisione di Giorgiana Masi a Roma.
Anche in piazza Navona avrebbe dovuto esserci una festa, per promuovere nuovi referendum radicali, in una stagione in cui l’istituto referendario sembrava ancora avere un senso.
Forse per questo la polizia quel giorno aveva caricato, picchiato, arrestato, sparato e, infine, ucciso.
Sull’erba del parco corse un brivido.
Nulla era finito.
Ancora il sogno e il desiderio andavano in frantumi nel contatto con il reale.
In un’infernale sarabanda si ricominciava ogni volta da capo.
Fuori dal parco, sul corso, risuonarono i primi spari.
Uno, due, tre, poi una tempesta di fuoco.
Là dove avrebbe dovuto esserci solo la polizia.
Corsi, con gli altri, ai cancelli.
I più giovani di noi erano là, in mezzo alla strada, con le armi in pugno.
Ancora calde e fumanti, mentre le forze dell’ordine stavano ripiegando.
Ne riconobbi alcuni.
Vieni con noi mi dissero.
Allora, nel puzzo della polvere da sparo, non li seguii.
Né l’avrei fatto dopo.
Per quel giorno la nostra festa era finita.
Negli anni seguenti quei desperados accumularono secoli di carcere o finirono ammazzati.
Ancora una volta qualcuno tradì.
Io li sognai per anni con un senso di colpa.
Erano stati i miei compagni, miei amici.
E i più giovani anche quasi dei figli.
Nel non seguirli aveva contato la ragione.
Ma spesso la ragione ci rende meno grandi e più paurosi.
Iniziavo forse allora a controllare l’istinto.
Ma con loro ho contratto un debito.
E non l’ho ancora saldato.
Meno di due mesi dopo partii per l’America
Meno di due mesi dopo partii per l’America.
Per pagarmi quel viaggio avevo lavorato per diversi mesi in un magazzino di stoffe.
Un lavoro in nero, di taglio e imballaggio di stoffe che venivano poi inviate a sartorie sparse per l’Italia. Le stoffe erano sempre quelle, ma si potevano comodamente assecondare tutti gli ordini cambiando le etichette di garanzia che sarebbero poi state cucite sugli abiti finiti.
Lo stipendio era sulle centoventimila lire al mese, per mezza giornata lavorativa.
Il signor Coppino aveva finito col credere che io volessi diventare il suo magazziniere, visto che il precedente si era licenziato per dedicarsi alla più proficua raccolta delle cassette vuote sulle piazze dei mercati, e non smetteva mai di elencarmi gli enormi vantaggi che avrei tratto dal lavorare a tempo pieno per la sua ditta.
Riuscii a farmi dare due mesi di stipendio anticipato in vista delle ferie e poi lo ringraziai scrivendogli, da New York, che era mia intenzione interrompere il rapporto di lavoro e trattenere l’anticipo come liquidazione.
Il biglietto aereo di andata e ritorno era pagato e mi rimanevano in tasca ottocento dollari.
Vantaggi del lavoro in nero.
Partì con me Ettore, allora l’amico più caro.
Ci eravamo conosciuti al liceo, poi una bocciatura ci aveva separati.
Lotta Continua ci aveva fatti ritrovare e poi ancora separati, mentre la primavera del ’77 ci aveva legati indissolubilmente.
Almeno fino all’arrivo dell’amica più egoista, l’eroina.
Piccolo e minuto, agile nei movimenti, sembrava l’esatto opposto di me.
Pronto alla risata fino alle lacrime, era altrettanto capace di precipitare in abissi di depressione, determinata spesso dalla malattia che gli minava la vista.
Passammo notti a discutere di tutto, ma più che altro di letteratura e di musica.
A quel tempo hashish e marijuana non annebbiavano la mente, ma acuivano il pensiero.
Proveniva da una famiglia agiata, era colto, suonava il pianoforte e amava Pasolini.
Ci univano la furia, il rock e la letteratura americana.
Lo scherzo, il vino, le donne (talvolta comuni), ci accompagnarono sempre.
Aveva una paura fottuta delle iniezioni e degli aghi, ma furono poi proprio le siringhe a separarci, per sempre. Ed ora non so nemmeno più se sia vivo o morto.
Ma quello fu il nostro viaggio on the road.
Quello che avevamo sognato da molto tempo.
Quello che avrebbe dovuto farci ripercorrere le strade e le esperienze dei nostri maestri.
Non sapevamo e non volevamo ancora conoscere ciò che ci avrebbe atteso alla fine della strada.
Go West, young boys!
Era di luglio e partimmo in pullman alla volta di Parigi
Era di luglio e partimmo in pullman alla volta di Parigi.
Agli amici che vennero in gruppo a salutarci sembrava che iniziasse per noi una grande avventura.
Ma quell’estate avrebbe riservato loro un gran numero di sorprese.
Il convegno di Bologna, la scelta di strade dure come quelle dell’eroina o della lotta armata.
Al nostro ritorno nulla sarebbe più stato come prima.
Quel gruppo era formato da profughi.
Alcuni provenivano da LC, qualcuno da Lotta Comunista, altri da Roma, altri ancora dalle valli piemontesi e qualcun altro da qualche limbo ancora inesplorato.
Tra la fine della politica organizzata e l’autonomia del ’77 ci unirono la disillusione, le droghe, il cinismo, la montagna e la speleologia.
Nando, Tromba, Luca, Valerio, Gianni, Casablanca, Petit, Massimo, Claudio, Filippo, Peter e altri ancora di cui rimane oggi soltanto negli occhi l’immagine del volto.
Riuscimmo per un breve periodo a fare surf sul magma ribollente di quei mesi.
Prima o poi la nostra tavola sarebbe andata in pezzi, ma in quel breve volger di tempo la nostra unione sembrò destinata a durare in eterno
Il commiato dagli amici e poi il lungo viaggio notturno verso Parigi.
Il volo charter a bassissimo costo sarebbe partito, il giorno dopo, da lì per New York.
Alla stazione degli autobus mancava solo Andrea, che era già partito per il Nepal con una spedizione alpinistica che perse gran parte delle attrezzature in un incidente d’auto sulla strada di Katmandu. Da quella città ci avrebbe inviato lettere misteriose, in buste riempite di ganjia.
La sua casa in collina era stata il rifugio delle nostre notti insonni.
Tra quelle vecchie pareti, che conservavano il ricordo di predecessori importanti e di mitiche imprese partigiane, diventammo fratelli di sangue, bevemmo vino e consumammo oppio, marjiuana e hashish narrando di avventure politiche e speleologiche.
Nelle notti stellate ci spostavamo nel giardino, in attesa di qualche rivelazione che non venne mai.
Sulle panche disposte intorno alla vecchia vasca di pesci rossi disposta al centro di quel giardino sfiorito mi innamorai, senza accorgermene, di sua sorella.
Ci amammo per breve tempo, prima della mia partenza, e fu poi l’unica a raggiungermi con lettere delicate anche in California.
Pensavo a lei durante quel viaggio notturno, ma al ritorno non ci fu l’occasione per rivederci.
Era coraggiosa e aveva a lungo viaggiato in Africa, con un uomo che non amava già più.
Molti anni dopo seppi che, stanca forse di portare un nome importante o di fingere piacere per l’avventura là dove rimaneva soltanto la noia, si era sposata con un operaio.
E che si era infine uccisa. Con il gas.
Porterò sempre con me il ricordo dei lievi disegni africani con cui decorava le sue lettere.
Partimmo con gli occhi e la mente pieni di sogni.
Cercavamo l’imprevisto e l’avventura.
Senza una meta precisa.
Ignari.
Soprattutto del fatto che è la morte a costituire la meta finale di tutti i viaggi.
L’America fu, nella mia gioventù, un luogo dell’immaginario
L’America fu, nella mia gioventù, un luogo dell’immaginario.
Lo fu prima ancora della scoperta di Pavese, di Kerouac, di Hemingway o di Faulkner.
Era la terra degli spazi infiniti e della wilderness che allora intuivo e che solo più tardi avrei imparato a chiamare così.
Continuò a esserlo anche dopo il sessantotto e le proteste anti-imperialiste.
La cultura americana, la grande cultura americana, è sostanzialmente una cultura orale.
E’ figlia delle storie della frontiera, degli incroci linguistici e razziali.
E’ il prodotto di società orali: dei proletari provenienti da tutto il mondo, dell’Africa e dei nativi.
Henry James e le scuole di scrittura l’hanno uccisa, avvicinandola ad una cultura vecchia e scritta, la nostra.
Era una letteratura fatta di storie.
Le storie prima si narrano e solo più tardi si scrivono.
Forse gli scrittori le narrano prima a se stessi e solo più tardi agli altri.
Storie di sangue, amicizia, amore, morte, tradimento e redenzione.
Ĕ nelle storie e nelle narrazioni che gli uomini si incontrano e si capiscono.
Ormai da quasi trent’anni insegno letteratura italiana.
Ma il mio incontro e il mio apprezzamento per gli italiani maggiori è avvenuto molto tardi.
Negli anni del furore non potevano servirci Manzoni, Svevo, Pirandello o Gadda.
Anche Pasolini fu inadeguato e non solo perché a Valle Giulia avesse parteggiato per la polizia.
Erano i suoi sottoproletari, i suoi ragazzi di vita a non appartenere al mondo reale.
Ultima fermata a Brooklyn, Sulla strada, Urlo e le canzoni che affondavano le loro radici nel delta del Mississippi o nelle miniere di carbone della Virginia furono i testi adatti per la nostra rabbia.
Costituirono la letteratura sulla quale mi formai.
L’elenco potrebbe essere molto più lungo, ma comunque tutto d’oltre Atlantico.
E nessun’altra mi è entrata altrettanto nella carne e nel sangue.
Leggevo in quelle pagine di ciò che era qui, adesso e subito.
Senza orpelli, senza buonismo e senza speranze di redenzione.
Jesus died for somebody’s sins but not mine cantava in quei giorni Patti Smith, nella sua magnifica e trascinante ripresa di Gloria.
Forse ce lo insegnò lei o forse lo sapevamo già, ma quello era il succo di tanta letteratura americana e della nostra sfida al mondo.
Anche la poesia americana sembrava raccontare storie.
L’Antologia di Spoon River, ad esempio.
Già al tempo del fascismo qualche critico aveva definito come barbara quella letteratura.
Alcuni giovani scrittori invece la vollero leggere, tradurre e imitare.
Alcuni di loro, come me, erano piemontesi. Io del Monferrato, loro della Langa.
La letteratura che amavamo parlava della natura, delle sue luci e dei suoi colori.
Forse fu anche ciò ad avvicinarcela.
Non so se ammirai prima i colori del tramonto sulle colline del mio paese o le descrizioni dei tramonti e delle albe sul suolo americano descritte in tanti libri.
Il verde delle nostre colline richiamava quello delle praterie e delle terre ondulate dell’Ovest.
I nostri paesi erano piccoli.
La nostra provincia contadina, gretta e incredibilmente umana allo stesso tempo, ci rimandava a Faulkner e a Caldwell. O forse furono loro a farcela vedere con altri occhi e amare.
Fenoglio fu il primo a scrivere dei nostri piccoli campi e dei drammi di sangue e solitudine che li bagnavano.
Mancavano i neri.
Ma durante la mia infanzia arrivarono a ondate successive i profughi del Polesine, prima, e gli immigrati dal Sud, poi.
La diffidenza dei locali fu inizialmente forte, ma il mio primo vero amico fu un ragazzo veneto di un anno più grande di me: Renato.
Lo conobbi nel ’64, quando mio padre fece ristrutturare la casa dei nonni.
Quell’autunno io avrei cominciato le scuole medie, mentre lui già lavorava.
Io sognavo già sui libri, lui aveva lo sguardo e le mani da uomo.
Più ancora che attraverso i nonni o mio padre, fu guardando lui che compresi il valore della fatica e del lavoro. Diventammo inseparabili.
Con l’America c’era anche un legame di sangue.
I miei nonni erano emigrati, come tanti altri contadini piemontesi, laggiù.
Mia madre era nata in Pennsylvania.
Anche mia zia era nata là e nel ’46 ci tornò. Per sempre.
Fin dalla mia prima gioventù sentii forte il richiamo della terra, del sangue e del mito.
E poi ci fu il cinema, il western sopratutto, di cui mio padre era un grande appassionato.
Arrivavano nei paesi dei cinema itineranti con tutto quanto serviva per organizzare uno spettacolo serale.
C’erano all’epoca ancora dei piccoli gruppi di saltimbanchi che giravano per le campagne.
Ma il cinema, oh il cinema…
Negli anni cinquanta quei piccoli camion che trasportavano proiettore, schermo avvolgibile, pellicole e sedie per il pubblico proiettavano principalmente film con Amedeo Nazzari oppure western. Tutti rigorosamente in bianco e nero.
Cavalieri dell’aria e delle praterie infiammavano i nostri sogni e i nostri giochi.
Dagli schermi cittadini rubammo i colori per le nostre fantasie.
Dovevo avere sei o sette anni quando vidi Furia selvaggia di Arthur Penn.
Fu il mio primo incontro con la leggenda di Billy the Kid.
La storia di un giovane ribelle e giustiziere.
Bandito da una società dove il denaro contava più del coraggio e dell’onore.
Molti anni dopo Billy sarebbe stato il mio soprannome.
Rotolammo sulle ruote degli autobus per migliaia di chilometri
Rotolammo sulle ruote degli autobus per migliaia di chilometri.
Quella notte e nei mesi seguenti.
Quanto ci piaceva viaggiare!
Con ogni mezzo: in treno, con l’auto o con gli scooter, in autostop e in bicicletta.
Ogni partenza era un nuovo inizio, forse una nuova vita.
In ogni viaggio giovanile rivive l’epopea di Ulisse.
Il romanzo di Kerouac era stato la trasposizione moderna del vagabondaggio mediterraneo dell’eroe greco.
Per noi Greyhound e autostop avrebbero sostituito navi e zattere, ma sirene e pericoli sarebbero rimasti ad attenderci lungo il tragitto. Così come la gioia del vino e degli incantesimi.
Meritavamo come Ulisse l’inferno.
Per non saperci accontentare di ciò che è concesso dalla quotidianità.
Per la nostra incapacità di mettere radici.
Per la nostra attitudine a non esser fedeli e a mentire, per ridere e per vivere.
Ce lo diedero l’inferno o, forse, fummo soltanto noi a procurarcelo.
Come Prometeo avevamo cercato di rubare il fuoco divino.
Avevamo scalato mura ciclopiche per rubare ciò che era proibito sognare.
I nostri sogni divennero, per un breve periodo, realtà.
Poi le nostre ali, fatte di cera, si sciolsero e precipitammo.
Ora viviamo in un mondo derubato anche dei sogni.
E’ rimasta soltanto l’arte di mentire.
Ma sono menzogne misere, adatte alla sopravvivenza.
La sfida al cielo sembra ora impossibile, ammesso che interessi ancora a qualcuno.
Viviamo circondati da dei ignoranti, privi del fuoco sacro.
Chi l’ha anche soltanto sfiorato vive oggi in un mondo di tenebre e di gelo.
Come ruote di fuoco rotolavamo per le strade.
Consumando rabbiosamente ore, anni, chilometri e vite.
Come ruote di fuoco saremo poi esplosi.
Subendo più vittime tra le nostre fila di quante ne arrecammo tra quelle nemiche.
Scrivendo storie di kamikaze orfani di una guerra civile mai combattuta.
La mia prima e unica pistola me la prestò un operaio
La mia prima ed unica pistola me la prestò un operaio.
Non era una Colt. Era un’automatica spagnola 7,65.
Con quella e un altro revolver ci esercitavamo al tiro, poco lontani dal luogo in cui si era schiantato il grande Torino.
Le autopattuglie passavano a poca distanza, ma non si accorsero mai di nulla.
Oggi, quando chiedo ai miei allievi quanto durarono, secondo loro, gli anni di piombo mi sento rispondere venti o trent’anni.
Inizialmente mi stupivo, poi ho iniziato a pensare che in quell’errore madornale esistesse un nocciolo di verità.
La pratica dell’illegalità fu a lungo diffusa nei movimenti del dopoguerra.
Anni di piombo: sembrano designare un’epoca storica, un’era.
Una di quelle definizioni di comodo e vuote di significato effettivo come medio evo o età moderna.
Invece segnano un confine tra ciò che le lotte sociali furono e ciò che non avrebbero più dovuto essere. Segnarono il limite.
Quello che non si sarebbe mai più potuto attraversare.
Eppure a lungo la pratica spontanea della violenza, anche armata, ha accompagnato i movimenti.
Ricordo ancora come fosse normale per gli occupanti delle case delle periferie torinesi arrivare alle manifestazioni con qualche arma da fuoco nascosta sotto giacche e cappotti.
Ricordo il malumore che coglieva allora certi dirigenti rivoluzionari che immaginavano rivoluzioni a comando, in cui lupare e fucili dal manico segato non avrebbero svolto alcun ruolo.
Certo, gli occupanti della Falchera Nuova, delle Vallette o di strada delle Cacce non avevano sempre un’identità proletaria definita secondo i canoni sociologici marxiani o moderni.
Sconfinavano spesso nel sottoproletariato, nella piccola malavita di quartiere e nelle pratiche illegali, ma anche questo è stato il proletariato delle grandi metropoli.
Quello in cui la classe operaia immigrata affondava in parte le sue radici.
Pistole, fucili a canne mozze e soprattutto coltelli si portavano appresso i nuovi immigrati delle periferie del nord.
“Per essere uomini” dichiaravano a giornalisti assetati di analisi socio-antropologiche e di cronache nere spesso venate di razzismo.
Ma la rabbia che si portavano dentro chi la colse?
Quella rabbia, così fertile per le lotte degli anni successivi, veniva ignorata o annacquata nel fatto di costume, quando non fu semplicemente liquidata come residuo di una società arcaica.
Già, tutto quello che si oppone al presente e a una modernità presunta, è arcaico.
In Europa, in America e in Medio Oriente.
Così nella lotta contro gli arcaismi si possono intendere il capitale e la sinistra progressista.
Ma la rabbia non era solo quella immigrata, basti pensare al percorso di Pietro Cavallero, torinese d’origine, e alla sua banda di proletari della Barriera di Milano.
Avrebbe potuto diventare un dirigente del PCI, ma scelse la strada della rapina in banca.
Con grande scorno dei responsabili organizzativi e successiva rimozione dalle storie del partito.
Esempio di coraggio e individualismo per i prule dla barriera dl’emme.
La barriera della emme, dove M stava per merda, sia chiaro.
Ci ho abitato per tutta l’infanzia e l’adolescenza e i miei genitori fino alla morte.
A quella parte di Torino, chiusa tra la Dora e la Stura, quella M gliela avevano affibbiata gli abitanti del quartiere, rivelando, con amara ironia, il disagio e la frustrazione nascosti tra le mura domestiche e le vie della periferia operaia.
(9-CONTINUA)