di Sandro Moiso
Andrea Iris D’Atri, IL PANE E LE ROSE. Femminismo e lotta di classe, a cura di Serena Ganzarolli, Red Star Press 2016, pp. 236, € 18,00
[ Mentre le banalità di base sulla fertilità estratte dal cilindro magico della ministra Lorenzin si accompagnano all’orgia retorica liberal-femminista di Killary Clinton e alla inutile e demagogica discussione sull’uso del burkini sulle spiagge europee, potrebbe far bene ripercorrere il cammino dell’emancipazione femminile attraverso le pagine del bel libro pubblicato questa primavera dalla Red Star Press. L’autrice, nata a Buenos Aires nel 1967, si è specializzata in studi sulle donne. Militante femminista e dirigente del Partido de los Trabajadores Socialistas (Pts), ha fondato nel 2003 in Argentina il gruppo «Pan y rosas», oggi presente anche in Cile, Brasile, Messico, Uruguay, Bolivia e Spagna. Il testo ripercorre in maniera sintetica e precisa il cammino parallelo dell’emancipazione femminile affiancata a quello della liberazione dal lavoro salariato e dalla società patriarcale che lo fonda. Dalle Rivoluzione Francese alla Comune di Parigi e dalla Rivoluzione Russa alle più recenti istanze di liberazione della specie dalla schiavitù capitalistica si dimostra come le donne siano sempre state in prima fila nelle lotte di classe pur dovendo lottare spesso su tre lati della barricata. Problema già affrontato con la domanda enunciata, qui in apertura, dalla marxista americana Evelyn Reed fin dai primi anni ’70 del secolo appena trascorso. Qui di seguito un breve estratto dall’”Introduzione” dell’autrice stessa.]
Per il 70% della popolazione formata da donne e bambini e condannata dal capitalismo a vivere una vita di miseria il concetto di pari opportunità non esiste. La discriminazione che subisce – come quella diretta anche contro gli immigrati, gli omosessuali e tutti gli «altri» in generale – contrasta notevolmente con i diritti conquistati negli ultimi decenni […] Brutali lezioni con cui il capitalismo ci insegna che se anche possiamo progredire e conquistare alcuni diritti come l’emancipazione femminile o quella di altri gruppi sociali subordinati, questi costituiranno sempre una chimera all’interno di questo regime sociale, politico e economico perché ristretti nella loro portata, limitati se rapportati alla popolazione che può esercitarli, oppure circoscritti a un determinato periodo di tempo prima che vengano di nuovo aboliti. Non è possibile negare che nell’ultimo secolo le condizioni di vita della popolazione femminile sono cambiati in maniera non paragonabile a quanto, nello stesso periodo di tempo, è accaduto sul versante delle condizioni di vita degli uomini. Ci sono però dati che contrastano brutalmente con questa immagine di progresso senza contraddizioni verso una maggiore eguaglianza tra i generi nei paesi imperialisti e semicoloniali più ricchi. Come interpretare, se non in seno a questo panorama di ampliamento dei diritti, il fatto che ogni anno tra un milione e mezzo e tre milioni di donne e bambine sono vittime della violenza maschile e che la prostituzione lungi dall’essere un lavoro libero e autonomo (come ancora in maniera ostinata si afferma in certi ambienti femministi) si è trasformata in un commercio di immense proporzioni e in una incredibile rendita che ha a sua volta incentivato lo sviluppo espansivo delle reti della tratta? Inoltre su scala mondiale, nonostante gli enormi progressi scientifici e tecnologici, cinquecentomila donne all’anno muoiono a causa delle complicazioni di gravidanza e parto, mentre almeno cinquecento donne al giorno muoiono di aborto clandestino. Nello stesso periodo è aumentata in maniera esponenziale la presenza delle donne all’interno della forza lavoro a prezzo di una sempre maggiore precarizzazione; perciò a differenza delle altre crisi economiche questa che stiamo attraversando si ritrova con una classe operaia con una forza lavoro femminile che rappresenta più del 40% dell’occupazione totale. Il 50,5% di queste lavoratrici sono precarie e per la prima volta nella storia il tasso di occupazione urbano tra le donne è lievemente superiore rispetto a quello rurale. Come si vede il contrasto tra i diritti acquisiti – inclusa la legittimità conquistata negli ultimi anni dal concetto di pari opportunità – e il desolante panorama di queste statistiche è stridente. Nel tentativo di fornire una spiegazione a questa contraddizione la femminista statunitense Nancy Fraser ha espresso la propria insoddisfazione nei confronti della tesi condivisa secondo cui «la capacità del movimento (femminista) di trasformare la cultura contrasta in modo netto con la sua capacità relativa di trasformare le istituzioni». E’ a questo bilancio improprio – aggiudicando al femminismo una vittoria culturale e un parziale fallimento istituzionale – che la Fraser lancia una sfida con una nuova ipotesi: si chiede se per caso quello che è successo non sia forse che «i cambiamenti culturali nati dalla seconda ondata (del femminismo), salutari di per sé, non abbiano finito per legittimare una trasformazione strutturale della società capitalistica contraria agli ideali femministi di una società giusta?». Detto altrimenti, l’autrice sospetta che femminismo e neoliberismo siano risultati affini, discutendo dell’appoggio del primo al secondo e la sua subordinazione alle decisioni della Banca Mondiale e a altri organismi internazionali. Il sospetto sembra fondato. E se il femminismo fosse in grado di proporci solamente un’emancipazione limitata a alcuni settori minoritari che godono dei diritti democratici in certi paesi a spese della maggioranza delle donne nel mondo?