di Alcune/i solidali con le/i migranti a Ventimiglia
Mercoledì 10 agosto le forze dell’ordine si sono presentate alla porta del Freespot di Camporosso, un comune poco distante da Ventimiglia, per la seconda volta nell’arco di pochi giorni. In quest’occasione presentavano un’ordinanza di sgombero sindacale per motivi di sicurezza e sanitari, mentre il sabato precedente la ragione era stata la ricerca di armi. Il Freespot è un locale in affitto che i solidali di Ventimiglia utilizzano per conservare scorte di cibo e acqua, vestiti e coperte di cui i migranti in viaggio possono aver bisogno, oltre a materiale informativo che illustri alle persone di passaggio la loro condizione legale. L’ordinanza di sgombero è l’ultimo dei provvedimenti che le autorità hanno impiegato nel corso di un anno, a partire dall’estate passata, per cancellare dal territorio della provincia di Imperia una forma di solidarietà che oggi appare, sulla maggior parte della stampa, dipinta con i tratti di una pericolosa organizzazione eversiva.
Le scelte delle istituzioni che si accaniscono sui solidali procedono in parallelo con una campagna mediatica che concentra tutta l’attenzione sul pericolo che la loro attività costituirebbe per la sicurezza pubblica. I solidali, al contrario, sono del tutto disinteressati a ingaggiare un corpo a corpo con le autorità, di cui non si troverebbe alcun fondamento. Forse i media necessitano dell’ennesimo spauracchio da agitare di fronte agli occhi di un’opinione pubblica alla ricerca di spiegazioni? E’ più comodo sollevare ipotesi complottiste, che vedono protagonisti i solidali, piuttosto che interpellare in prima persona i migranti e le migranti, i soggetti di cui tutti parlano senza mai lasciare loro la parola; piuttosto che indagare il fenomeno dei migranti in transito nelle sue ragioni profonde.
Che cos’è stata Ventimiglia dal giugno del 2015? La città di confine è il luogo dove centinaia e centinaia di persone sono state – e sono tuttora – sottoposte a ricatti e violenze. Questo non è il racconto degli ultimi giorni, ma di un anno intero, e se la presenza dei solidali ha un senso, forse questo è di vedere chi nessun altro vede, di parlare con chi nessun altro ascolta. Per un anno, lontano dalle telecamere che si sono spente sugli scogli del lungomare, ragazzi sudanesi, eritrei e di varie altre provenienze hanno raggiunto Ventimiglia come necessario punto di passaggio del viaggio verso la Francia. A Ventimiglia sono stati fermati dalla legge europea che impedisce loro di chiedere asilo in un paese diverso da quello di ingresso nel territorio dell’UE. Il problema fondamentale è questo: il confine. Ciò che rende il quadro non solo ingiustamente fisso, stupidamente rigido, ma anche grottesco e brutale, è che i migranti per il fatto stesso di essere bloccati sono ritenuti colpevoli. Tedofori intercontinentali del disordine e dell’infezione, i migranti fermi a Ventimiglia causano l’impiego di un impressionante apparato poliziesco che ha la funzione di respingerli un po’ più in là, lontano dalla frontiera: dal mese di maggio – grazie al cosiddetto piano Alfano – le persone vengono catturate con l’uso della forza e condotte nei punti più disparati del territorio nazionale (persino in Sardegna). Molti di loro, nell’arco di poco tempo, riprendono il viaggio e tornano a Ventimiglia dove possono incorrere un’altra volta nella stessa sorte: la sicurezza nazionale si pretende garantita da una deportazione circolare. Questo percorso, che a un occhio estraneo appare semplicemente ridicolo, è un percorso violento: le persone che a Ventimiglia sono state inseguite in strada e picchiate per il solo fatto di trovarsi sul territorio della città frontaliera sono numerose. Ora, i migranti che rimangono in città vengono obbligati a stazionare in un centro gestito militarmente da Croce Rossa e polizia, dove mancano posti per dormire, è ridotta la possibilità di curarsi, di reperire informazioni; un campo che più che di transito e di accoglienza si avvicina ogni giorno di più a un centro di detenzione.
Nel dibattito pubblico, si utilizza costantemente la retorica dell’emergenza, di fronte alla quale si legittimano misure straordinarie; la gestione della migrazione all’insegna dell’urgenza permette di nascondere scelte opportunistiche. Dietro ai flussi di migranti che dalla Sicilia arrivano fino alla Liguria c’è certamente una regia, ma non è quella di fantomatici agitatori: la responsabilità ricade sulle politiche migratorie europee e sulla loro attuazione da parte dei governi nazionali. Queste obbligano le persone in viaggio a un ingresso illegale – in molti casi per mare, a rischio della vita – sul territorio europeo; costringono il loro percorso tra le maglie del sistema di accoglienza; lasciano che queste maglie siano abbastanza larghe da permettere la pressione dei flussi ai confini, come accade a Ventimiglia. Il confine è uno strumento che viene azionato come un diaframma funzionale a esigenze politiche ed economiche: nessuno negherebbe che la “questione migranti” sia oggi misura del consenso elettorale. A Ventimiglia i cittadini si sono abituati a vedere le forze dell’ordine impedire, manganello alla mano, di dare acqua e cibo ai migranti; la solidarietà si considera criminale, e non solo non ci si stupisce più, ma addirittura si accetta questo stato di cose e si invoca una repressione ancora maggiore.
Ancor più dell’intervento imbarazzante ed esagerato delle forze dell’ordine che reprimono esistenze considerate illegali e si scagliano contro chi le supporta, appare grave l’indifferenza e l’accettazione di misure razziste e disumanizzanti da parte delle persone comuni che si trovano in questo contesto.
Ancora una volta sono dei bianchi europei a parlare di migranti, accettando il compromesso per portare alla luce quanto sta accadendo. Molti solidali sono stati obbligati a sparpagliarsi in tutta Italia – e in altri stati europei – in seguito a un’inaudita repressione che ha colpito persone arrivate a Ventimiglia per dare supporto a chi viaggia. Condividendo del tempo con i migranti, davanti al campo della Croce Rossa o nell’ultima protesta ai Balzi Rossi, così come in tante altre occasioni, i solidali sono stati prima di tutto spettatori di qualcosa che esisterebbe anche senza di loro: la volontà dei migranti di superare il confine e di affermare la libertà di movimento. Sorprende la fortuna mediatica dell’ipotesi – razzista e colonialista – che ha immaginato uno sparuto gruppo di bianchi alla guida di una moltitudine di migranti. Pare che considerare nella loro piena autonomia e autodeterminazione le centinaia di migranti sudanesi, eritrei, somali e di altre nazionalità bloccati a Ventimiglia sia un esercizio ancora troppo faticoso per un paese che non ha mai fatto i conti col proprio passato coloniale. Sorprende che si ritenga davvero possibile che siano i migranti a ripetere le parole suggerite loro dai No Borders e non, al contrario, che siano loro a urlare gli slogan che i solidali riprendono.
“No alle frontiere”, “Noi non torniamo indietro”, “Libertà non cibo”… queste e molte altre sono parole che abbiamo imparato da loro e che urliamo insieme.