A Serious Man di Joel Coen & Ethan Coen
di Emanuele Manco
Il nuovo film dei fratelli Coen comincia con un racconto tutto in lingua Yiddish, dai toni quasi horror, che non sembra aver nulla a che fare col resto del film, ambientato circa un secolo prima della vicenda principale, che si svolge invece nel 1967.
Larry Gopnik è un professore di Fisica ebreo di una cittadina del Mid-West degli Stati Uniti.
La sua vita all’inizio del film sembra tranquilla. Ma non dura molto. Uno studente insoddisfatto cercherà di corromperlo, la moglie gli comunicherà che desidera il divorzio, i suoi sensi sono turbati da una bella vicina che prende il sole nuda proprio nel giardino accanto al suo. Ed è solo l’inizio di altri guai, altri conflitti che sembrano innescarsi uno dietro l’altro come in un domino.
Non va bene anche al figlio Danny, prossimo al Bar Mitzvah, ma decisamente più contento di fumare marijuana, anche se si indebiterà con gli spacciatori pur di procurarsi il fumo.
Larry ha anche un fratello, Arthur, con una cisti adiposa cronica, e se pur dotatissimo per la matematica, con grossi problemi di relazione.
Ma descrivere la catena di guai e di situazioni al limite del paradosso non rende giustizia a questo film, che va visto anche solo per come tali eventi paradossali vengono messi in scena.
Larry cerca il conforto dei rabbini per capire cosa Dio abbia in serbo per lui. Ma il protagonista si sente raccontare solo aneddoti, senza mai ottenere le risposte chiare che cerca.
Parallelo è il percorso del figlio, che affronterà il rituale senza troppa convinzione ma riuscirà ad avvicinare lo stesso rabbino che invece al padre non aveva concesso udienza.
Se poi questo porterà a delle risposte chiare è compito dello spettatore scoprirlo. Quello che è certo è che, come nella vita non esistono i titoli di testa e i titoli di coda, la fine del film non coincide in realtà con la vera fine del percorso esistenziale di questi personaggi, ma solo con quanto era nell’interesse dei Coen raccontarci.
Per farlo i due fratelli hanno sapientemente ricostruito un’epoca ormai distante, forse non temporalmente ma culturalmente, mettendo alla ribalta un concetto di giudaismo molto diverso da quanto visto finora nel cinema di Hollywood, dominato dalla visione intellettuale e upperclass newyorkese di Woody Allen.
Una visione che ricorda tantissimo, mutatis mutandis, i romanzi a fumetti di Will Eisner – anch’essi di ambientazione ebraica, pur se urbana e forse più umile rispetto a questo film – con i quali la pellicola condivide però la ricerca (vana) delle “risposte” da Dio.
Durante la visione del film si pensa spesso a Will Eisner: alle sue autentiche ambientazioni ebree di Brooklyn e ai suo personaggi tragici e tormentati, perennemente alla ricerca di risposte, come in Contratto Con Dio o Dropsie Avenue, volumi nei quali le tragedie travolgono i personaggi in modo ineluttabile, con conseguente rabbia nei confronti dell’Altissimo.
Non è ovviamente il registro dei Coen. Ognuno narra per come sa e di ciò che sa, ma credo che per chi voglia conoscere la società americana, questo film colmi un vuoto, aprendo spiragli verso una realtà, quelle ebrea, molto spesso schematicamente rappresentata come altre per stereotipi.
Larry è un protagonista che non può essere confuso con le maschere di Allen o Eisner. I personaggi alleniani sono zeppi di conflitti che iniziano dall’interno per poi espandersi all’ambiente. Larry, invece, comincia il suo percorso pieno di certezze che verranno poi sgretolate dai conflitti che subisce. Michael Stuhlbarg, che gli dà vita sullo schermo, è semplicemente perfetto nel ruolo. Come è ottimo il lavoro di casting, che ha attinto per la maggior parte ad attori teatrali reclutati nel luogo delle riprese, proprio per sganciarsi completamente da un immaginario che da anni ha saturato i media: Aaron Wolff nel ruolo del figlio, Sari Lennick e Jessica McManus, rispettivamente nei ruoli della madre desiderosa di cambiamenti e della sorella che sfila i soldi dal portafoglio del padre per finanziarsi la plastica al naso.
Le guest star sono tre e di ottimo livello: Adam Arkin nel ruolo dell’avvocato divorzista, Fred Melamed in quello di Sy Ableman, l’amante della moglie – un “sex-simbol” molto sui generis in effetti – e Richard Kind, nel ruolo dello “Zio Arthur”.
In realtà è anche la buona sceneggiatura ad aiutarli: tutti i personaggi del film sanno bene cosa vogliono: Larry una vita tranquilla, la moglie il divorzio, il suo amante passare per “buono”, Arthur una vita normale e Danny solo “fumare”. Le situazioni che si oppongono al loro volere non vengono viste con tragica ineluttabilità, come nei già citati volumi eisneriani, o con il cinismo alleniano, ma affrontati con un’ostinazione che fa tenerezza. La prospettiva semi tragica rende infatti consapevole lo spettatore che gli sforzi dei personaggi verranno frustrati comunque. Però lo stesso spettatore non può fare a meno di ridere delle gag paradossali, quasi con senso di colpa. Anche qui si avverte il distacco dai modelli di confronto. La risata con Allen è a denti stretti. Con Eisner si ride solo negli intermezzi comici tra una tragedia e l’altra.
Ma non ci sono solo personaggi e situazioni, anche la grammatica del film ha i suoi momenti: l’efficace montaggio di Roderick Jaynes ha il picco massimo in una bella scena al termine della quale due personaggi avranno un incidente d’auto, ma per tutto il film anche l’alternanza di situazioni (come i momenti dove si accostano le vicissitudini di padre e figlio) rende divertente la narrazione. La fotografia di Roger Deakins è professionale, mentre sono ottime la colonna sonora originale di Carter Burwell e la scelta strepitosa dei brani musicali, a cominciare dai Jefferson Airplane che collocano senza sforzo lo spettatore nell’atmosfera dell’epoca.
Da vedere.