di Leandro Piantini
Nicola Lagioia, RIPORTANDO TUTTO A CASA, Einaudi, pp. 288, euro 20
Questo romanzo racconta l’Italia come da tempo nessuno raccontava.
E’ un libro meditato e costruito con intelligenza, un prodotto della migliore narrativa che si scrive nel nostro Paese. Verrà riconosciuta adeguatamente la sua importanza? Forse sì perché esso ha molte frecce al proprio arco, tra cui la forza di seduzione di una scrittura dai molti registri, robusta ed elegante, di gusto raffinato ma in linea con i parametri di leggibilità che oggi contano.
Il romanzo non racconta tuttavia nulla di sensazionale. Racconta l’Italia, raccontando la Puglia degli anni Ottanta.
Protagonisti sono tre adolescenti di buona famiglia smaniosi di vita ma non troviamo eventi eclatanti, come nei gialli e nei noir. Non vengono rivelati segreti, eventi occulti o esoterici. Abbiamo soltanto il magnifico racconto di vite giovanili, storie di famiglie, di arricchimenti rapidi più o meno illeciti. Il tutto raccontato da un io narrante che a distanza di molti anni da quel tempo sente il bisogno di fare i conti con il passato, e si mette alla ricerca dei due grandi amici della sua giovinezza, Giuseppe e Vincenzo, compagni di liceo con i quali nel bene e nel male ha condiviso tutto. La narrazione ci dice tutto quello che è necessario per farci comprendere quale persona sia il narratore – di cui non viene mai rivelatoil nome -, chi erano i suoi genitori, i suoi amici e le loro famiglie, il loro mondo. Che è la Bari dei ruggenti anni Ottanta, città morsa dalla tarantola del denaro e del successo, dei viaggi, del godimento della vita. Una città e una regione che toccarono allora uno dei picchi nel consumo d’eroina in Italia.
Il narratore è spinto da un’esigenza che alla fine gli si rivela chimerica, impossibile da realizzare: quale è stato il senso della sua vita e di quella dei suoi amici e che cosa è veramente accaduto allora? A questa domanda cerca di rispondere Lagioia e lo fa con pazienza ed accuratezza infinite, mettendo in campo mille episodi, mille dettagli, che si collocano a intarsio nella splendida tessitura della narrazione. Nella quale il racconto della vita, eseguito con il tocco lieve della pioggia che cade, si alterna al resoconto storico secco e asciutto, ad acuti proustiani che scavano nelle emozioni, nei pensieri senza peso, nelle intermittenze del cuore.
Tutto ciò che quei ragazzi conobbero — ci dice Lagioia — ebbe un suo peso, un suo veleno. La loro convivenza quotidiana di rado fu innocente spensieratezza perché i loro genitori, i loro traffici e imprese, essi stessi vissero immersi in un’atmosfera torbida e inquinata: affari illeciti, doppigiochi, ricatti. E non mancò il delitto – la morte di un autista addetto alla riscossione del pizzo. Nulla di eccezionale, dopotutto, se confrontato con il normale standard del Sud, ma ci si danno sufficienti incidenti, vissuti da adolescenti, per far vivere quei ragazzi in un clima di allarme e paura. Ciò che nel romanzo ha il suo culmine nel capitolo su Japigia: il quartiere barese dove era concentrata la massa dei tossicodipendenti e che divenne un inferno metropolitano, che anche i tre amici devono attraversare.
Lagioia non ha scritto un romanzo storico o politico e tuttavia il senso degli eventi pubblici e della storia che avanza viene puntualmente registrato:
“Rachele si voltò verso di me e disse calma e ricomposta ‘Ma non capisci?’, e invece credevo di capire molto bene, perché la diga sulle nostre teste alle nostre spalle davanti ai nostri occhi dappertutto era crollata, e pur mancando più di un anno all’ora X l’ora X era invece scoccata, e centinaia di migliaia di persone marciavano festanti da levante a ponente attraverso la porta di Brandeburgo e distruggevano muri e dilagavano da questa parte come se questa parte fosse l’estuario di ogni umano desiderio…”(p.268).
.La limpida strategia letteraria perseguita da Lagioia consiste nel far interagire costantemente storie personali e storia generale, quella storia degli ottanta con i cambiamenti epocali che conobbe. E se l’incontro avvenuto un giorno sui banchi di scuola con Giuseppe e Vincenzo venne avvertito subito da Nicola come fatale, come una cosa che sarebbe rimasta indelebile nella sua vita, in effetti nel corso della narrazione esso anticipa quello spartiacque, quella cesura profonda che quegli anni rappresentarono nella coscienza di Nicola stesso, e che culminò nella caduta del muro di Berlino.
“Solo allora iniziai a realizzare che da qualche parte nel passato, doveva essersi verificata una catastrofe di dimensioni gigantesche. Una collisione invisibile, un crollo silenzioso, un trauma senza evento. E il cratere che l’impatto aveva scavato in molti di noi rappresentava il vero cuore del problema. Non esisteva un D-day, un’Hiroshima-day, un 8 settembre, un 25 aprile. Mancava un fatto da cui far discendere tutti gli altri…” (p.278).
Il malessere che Nicola a distanza di anni registra sulla propria pelle lo porta a ricercare di persona gli amici perduti. Li deve rivedere e toccare fisicamente, e potrebbe farlo con l’aiuto di Donatella, che era stata la ragazza di Giuseppe ma in realtà l’amante di Vincenzo. ed è essa a raccontargli ciò che è accaduto. La vita ha travolto tutti, nulla è più come prima, anche se solo Giuseppe- che Nicola va a visitare di persona- ha perduto tutto nel disastro degli affari del padre messosi nei guai con la mafia. Quella malavita pugliese che invece ha fatto la fortuna dell’avvocato Lombardi, padre di Vincenzo, che con essa ha colluso, e che il figlio ha tanto odiato perché lo riteneva responsabile della morte di sua madre bruciata nel rogo di un’auto.
Nicola al termine delle sue ansiose riflessioni non è venuto a capo di nulla. Quanto hanno contato eventi come Cernobyl, la fine delle ideologie, il crollo del comunismo, un evento simbolico e pazzesco come la finale della Coppa Campioni dell’85 tra Juventus e Liverpool, giocata mentre sugli spalti dello Heysel c’erano i cadaveri di 35 persone? Quei fatti macroscopici avevano contrassegnato un’epoca ma c’entravano qualcosa con la realtà che ora, nel 2008, gli sta di fronte? Quel degrado, quella sensazione di perdita, quel ritmo che ora è così diverso da quello frenetico della sua giovinezza, sono frutto del caso o sono derivati da quello che una volta è stato il suo mondo?
Egli ha capito che in Italia c’è stato un cambiamento. “Il bello diventato insulto, l’eccesso di vitalità che trascolora nel delirio di impotenza, l’arroganza spumeggiante del benessere che imbocca la strada della frustrazione”.
Il nome di Berlusconi non compare mai nel romanzo. Eppure gli anni raccontati in queste pagine furono quelli del grande successo delle reti Fininvest e delle altre imprese del cavaliere tra cui ci fu l’acquisto della Mondadori. Del resto il romanzo dedica pagine deliziose a trasmissioni mitiche di allora come Drive in e a comici di nuovo conio come Ezio Greggio e Giorgio Faletti. Dopo
qualche anno avverrà l’ingresso in politica di Berlusconi con le conseguenze a tutti note. .Non c’è dubbio, sul piano storico, che le trasformazioni della vita italiana raccontate con tanta precisione lenticolare da Lagioia prefigurano quello che avvenne dopo. E nel comportamento politico degli italiani avverrà proprio qualcosa di simile a ciò che il narratore aveva già visto in Puglia da ragazzo: “Non l’avevo mai sentito parlare di politica. Non ne avevo mai sentito parlare da nessuno. L’unica ideologia a cui il Meridione d’Italia si fosse mai davvero interessato era la necessità di trovare un rimedio adatto ai tempi per perpetuare se stesso” (p.184).