di Dziga Cacace
44 – L’uomo dei sogni di un Babbeo, USA 1989
Recuperiamo dalla tragica stagione paninara due vocaboli che ben si addicono a questo autentica porcata su celluloide: tavanata galattica. Non so per quale motivo L’uomo dei sogni goda della sua immeritata fama: forse per la rampante mania new age, forse per l’incondizionata stima che gli riserva un vicepresidente del consiglio, Veltroni, che sta evidentemente scontando una pesante regressione infantile. Ma gli altri? Qui non si contesta il piacere della fiaba, l’abbandonarsi al ricordo dei propri miti giovanili, quand’anche essi siano giocatori di uno sport — il baseball — che continua a risultarmi totalmente incomprensibile, come fascino e soprattutto come regole. Qui si rimane attoniti di fronte alla faciloneria narrativa, prescolare se non prenatale nella sua rozzezza, e sconcertati dalla morale dolciastra con cui si spaccia la superiorità del sogno rispetto alla supposta razionalità della vita reale, che pone l’interesse avanti a tutto. Dico “si spaccia” per la maniera immorale con cui, questa morale, viene costruita. E perché degli yankee mi fido poco: la fantasia, per loro, non è elevazione, è abbindolamento. Delle masse.
Kevin Costner, belloccio con sguardo da triglia bollita, è un buon padre di famiglia che getta alle ortiche il suo lavoro perché (dopo neanche quattro minuti di pellicola) una voce tipo Zio Tibia con una forte raucedine gli dice: “Se lo costruirai, lui ritornerà”. Allora il maldestro farmer non ci pensa due volte e obbedisce al sibillino richiamo: rade al suolo le sue piantagioni per far posto a un campo da baseball (!) dove, per magia, arriveranno vecchi campioni e, alla fine del film, il padre rifiutato. Evviva la sospensione di credulità. Bisogna essere proprio coglioni per dar retta a tutta ‘sta melassa a gò-gò, allo sviluppo da neurodeliri e pure all’indebita appropriazione del Flower Power (i più vieti luoghi comuni, che di quella stagione farebbero pensare molto male). In più aggiungiamoci una citazione assolutamente a cazzo di Magritte e una scansione narrativa imbarazzante che accumula vaccate su vaccate. All’improvviso dalla colonna sonora arrivano le note di Jessica, degli Allman Brothers, ennesimo rimando pretestuoso di un filmaccio (firmato Phil Alden Robinson) che fa sincera pena. Altro che sogni: incubi e brutti. (Diretta su RaiUno; 31/7/98)
47 – Gira che ti rigira amore bello e Scappo per cantare di un inspiegabile Pompeo De Angelis, Italia 1972 e 1971
Una sera su RaiDue, la dubbia emozione di un Baglioni d’annata. Si tratta di un mezzo documentario/mezzo video/completa fetecchia sul cantautore romano (o dei dintorni di Roma: non lo so e non mi interessa), girato non si sa se per scopi promozionali o per inconoscibile interesse culturale. Si racconta di un viaggio ma il fascino del road movie è presto stroncato: immagini involontariamente psichedeliche, fotografia come viene viene, canzoni trash, atteggiamento burino. La musica è tremenda (gli arrangiamenti soprattutto), ma ciò che sconvolge sono le parole che inneggiano alla Camilla, la Citroen 2cv dell’idolo delle massaie. L’idea potrebbe essere carina se l’ironia non fosse travolta da un lessico da asilo. Una dopo l’altra ecco W l’Inghilterra, Io me ne andrei, Amore bello, La ragazza di campagna. In realtà è un film comico e io non l’ho capito: del resto Baglioni recita in maniera canina, canta come un muezzin in stato preagonico, è orbo forte e stringe sempre gli occhi assumendo un’aria assente. I comprimari non sono da meno e le donne, supposte oggetto del desiderio, risultano atroci. Il piccolo cult si conclude col rituale sacrificio pirotecnico di Camilla: geniale. Non bastassero le crasse risate, ecco poi un corto, Scappo per cantare, con Gianni Morandi e tali Donatello e Mario Lusini. I tre sono personaggi letterari che scappano dai libri di cui sono protagonisti e capitano alla Biennale di Venezia del 1968. Imperdibile Morandi che, vestito da hippy e con parrucca rosso fuoco, irrompe tra un Bacon e un Moholy Nagy. I tre si chiedono cosa sia l’amore e Tino Scotti prova anche a dare risposte. A suo modo divertente, tra inseguimenti e programmatico casino, ma stiamo parlando di un’autentica follia, oltre tutto dalla sincronia col sonoro nulla. I due reperti del volenteroso De Angelis (un interno Rai) vengono definiti rarissimi e scomparsi dagli archivi della tivù nazionale per essere recuperati solo oggi. Se li erano fregati da soli perché non si capisce chi potrebbe aver trafugato queste due cose strambe. I due filmetti sono preceduti da un deprimente servizio sui plagi musicali in cui si accusano gruppi che hanno fatto cover manifeste e non parlando invece di certi cialtroni che sul plagio sistematico hanno costruito una carriera. Considerazioni futili, ignoranza diffusa delle cose di cui si sta discutendo e il dirigente generale della SIAE che parla di musica come di ricotta ed è, lui!, vago su diritti e autori. Complimenti ai responsabili di cotanta porcata. (Diretta su RaiDue; 7/8/98)
57 – Il corvo di un Mentecatto, USA 1994
Draven risorge a un anno dalla morte e va a vendicarsi di chi lo aveva ucciso. Esce dal sarcofago e ha freddo e comincia a piagnucolare. Andiamo bene. Si veste come il cantante dei Cure e diventa cattivo come l’aglio: non mi sta piacendo. Il film si dipana poi come semplice rosario delle morti di tutti i componenti della banda dei suoi assassini: il Corvo si piglia sventagliate di pallettoni che lo riducono a una groviera, ma essendo già morto il film può continuare. Ed è una merda, noioso, debolissimo dal punto di vista scenografico, poco inventivo e molto imitativo, con ambientazioni che ricordano un garage disordinato. Montaggio a raffica senza che si abbia minimamente idea che il montaggio dovrebbe produrre senso e non farlo. Gusto per le immagini paurosamente di stampo televisivo: magari fosse un videoclip, come ho sentito dire in giro. E poi ‘sta menata pretende di essere romantica, mentre è solo moralista. È zeppo di citazioni gratuite e in alcuni momenti si vedono le pareti e i soffitti degli studios dove l’hanno girato. Il corvo di Alex Proyas usurpa il titolo di un gran film di Clouzot ed è una porcata che deve la sua fama immeritata ad abile marketing e pubblico credulone che già s’era bevuto un fumetto furbastro. Il compianto Jason Lee (una pistola doveva essere caricata a salve e non lo era: toh, morto sul colpo) volteggia e si appollaia con la grazia di un tacchino goffo. Il seguito lo ha interpretato Vincent Lyndon: come se Banfi facesse il nuovo 007. I cattivi sono quello de I guerrieri della notte e quello di Strange Days; quando si dice prigionieri del ruolo. (Diretta Italia1; 6/9/98)
76 – Il giocattolo di Giuliano Montaldo, Italia 1979
Visto secoli fa, Il giocattolo mi era piaciuto. Oggi, al secondo tentativo, confermo. Ha una sua disturbante attrattiva e dal punto di vista puramente spettacolare è ben congegnato e non annoia. Il parùn Griffo (Arnoldo Foà), con figlia porca e ribelle (Pamela Villoresi) e moglie bellissima e rassegnata (Olga Karlatos), ha alle sue dipendenze il docile ragioniere Vittorio Barletta, un azzeccatissimo Nino Manfredi. Travet fedele con moglie malata, ingenuo, con l’hobby degli orologi da riparare e i vizi dell’italiano medio, fellone, naturalmente maschilista e che accetta le prepotenze di Griffo e ne asseconda la disonestà, tenendogli una contabilità nera. I tempi sono duri: paura di rapine, terrorismo, rapimenti. E c’è paura anche da sinistra: i borghesi con la rispettabilità finalmente ottenuta fuggono la ribellione giovanile. Ad ogni modo Barletta si becca una pallottola nella gamba durante una rapina in un supermarket. E allora, dopo il frigorifero e la televisione a colori “mi faccio la pistola”. Va in palestra per la rieducazione e, conosciuto il fascistone Sauro (Vittorio Mezzogiorno), viene iniziato alla mistica delle armi. Al poligono scopre di essere un tiratore eccellente: si appassiona, compra una pistola, gliela fregano. E deve ricomprarsela: uno strumento di morte è ridotto a dimensione, prestazioni, costo, maneggevolezza: un giocattolo che uccide. Del resto là fuori c’è il far west e Barletta ama fischiettare le musiche morriconiane di Per qualche dollaro in più e C’era una volta il West e citarne a memoria le battute. In questo personaggio c’è tutta l’Italia contraddittoria di sempre, infantile, meschina e ipocrita. Barletta è ligio alle regole, finché gli fanno comodo. Oltre, si ha il diritto di fregarsene, per autodifesa. Come con una pistola. Ma anche la descrizione della società funziona: ne Il giocattolo c’è tutto il sapore polveroso di quegli anni, sospesi tra normalità ed emergenza, voglia di vivere e pulsioni necrofile: la sessualità libera, la contestazione giovanile, la tivù e la giustizia privata, la sfiducia nelle istituzioni, le furbate italiote per cavarsela. Un clima plumbeo — perlomeno per certa borghesia disorientata — che Montaldo rende benissimo: Manfredi/Barletta non ci capisce più una minchia. Promosso dirigente da Griffo (gli serve una testa di legno per un’operazione spregiudicata in Lussemburgo), spara a un delinquente difendendo Sauro, che viene ammazzato. Lo minacciano e gli bruciano la macchina. Lui reagisce e spara: fermo cautelativo per eccesso di legittima difesa. Per la stampa è un giustiziere, l’emblema della rivolta del cittadino comune che non viene tutelato. Ci si mette pure la Villoresi che lo seduce (con imprescindibile nudo peloso seventies). La moglie malata lo scopre e ingoia. Griffo, geloso della figlia, lo abbandona. Il clima diventa claustrofobico, pura angoscia: ormai solo, paranoico, con la moglie agonizzante, senza lavoro, abbandonato, Barletta conclude: “siamo circondati”. Ma stavolta il pecorone decide che è venuto il momento di reagire sul serio, carica la pistola e quando sta per andare a farsi giustizia da sé — sul serio —, la moglie malata lo fa secco. Bel finale inaspettato. Ho letto critiche più datate del film stesso, che parlano di apologo immorale e ambiguo. Mah! A me è piaciuto, c’è del gran mestiere: è un western metropolitano, ricco di battute, come di letture diverse, molto meno banale di quel che sembra. Ultime note: pubblicità occulta alla Sanpellegrino (acqua e aranciata, senza risparmio) e la Villoresi costretta dagli sceneggiatori a dire delle bestialità che dovrebbero esemplificare il rapporto padre/figli di quegli anni: “Papà: sei campione mondiale di scazzo al cazzo”. Comunque, film valido, credetemi. (Vhs originale; 18/9/98)
95 – Il signor Quindicipalle del poverino Francesco Nuti, Italia 1998
Pier Paolo procura i biglietti della prima e noi, scarsi cinéphiles cresciuti coi film di Nuti, non possiamo che andare. L’idolo caduto della nostra gioventù introduce timidamente il film e mette subito in chiaro che non ha nulla da dire. Anzi, no: dice di averci messo un po’ di poesia. Ahia. Parte il film e lo scarnificato Novello Novelli ci racconta la storia di Francesco di Narnali, figlio di “padre trombino” (qui si dovrebbe ridere) e campione di biliardo. Francesco deve portare una donna a cena, come se fosse la sua fidanzata, e si prende la Ferillona, prostituta d’alto bordo. L’ha incontrata al cimitero: Francesco sulla tomba del padre, lei a commemorare gli innumerevoli clienti stroncati da infarto e dalla patata di lei medesima. Ovviamente i due si piacciono: lei molla la redditizia professione e lui, non è tanto chiaro perché, rinuncia al campionato del mondo di biliardo. Di fronte a un film così si rimane sconcertati: al confronto Tutta colpa del paradiso è un testo polisemico e ramificato che assume la statura di Quarto potere. Il signor Quindicipalle parte con una lieve rievocazione e poi s’adagia nella sua inconsistenza. Tutto è indefinito, immotivato, senza consequenzialità. Anche tecnicamente: la cinepresa s’affanna in improbabili dolly e carrelli che non si sa mai dove concludere. E poi Nuti, dio mio, Nuti: una faccia di pietra che s’ostina a fare il trentenne belloccio col giubbottino, mentre gli leggi il cerone in faccia ad ammorbidire le rughe, la trippetta fuori dai calzoni, i capelli tinti. Perché non interpretare un malinconico e crepuscolare loser, com’è in realtà, piuttosto che immaginarsi ancora accattivante eroe di provincia? Francesco: c’è già Pieraccioni, ormai, e ha quindici anni di vantaggio! La Ferilli fa quel che può, senza danni, regalando la scena migliore ballando un mambo. Siccome non si mostra nuda, Nuti allora fa spogliare un’attrice secondaria. La comicità è tragica e non c’è una battuta decente. Nuti ripete le cose tre volte, ma non fa ridere: sembra solo arteriosclerotico. Il signor Quindicipalle, alla fine del film, sono io. Gonfissime. (Sala, Astra, Milano; 1/10/98)
97 – Dark Star di John Carpenter, USA 1974
Girato con due lire e tantissimo cervello, Dark Star è la storia dell’omonima astronave che gironzola per l’universo da vent’anni per far esplodere i pianeti instabili pericolosi per la Terra. L’equipaggio è composto da quattro alienati, un capitano criogenizzato, un computer dalla femminile voce suadente e una bomba estremamente razionale. Ma un dispettoso alieno (vero) e la bomba troppo intelligente in crisi dialettica guasteranno tutto. Parodia cialtrona di 2001, nasce come prova finale al corso di cinematografia dell’università di L.A. e viene stiracchiato per dargli un’uscita nelle sale. Si vede la forzatura in alcuni momenti morti, ma si gode pure delle continue invenzioni surreali e del dialogo brillante. Miglior attore un pallone da spiaggia coi piedi che impersona il dispettoso alieno. Genio puro. Non so, ma credo e auspico che il titolo sia un omaggio alla lisergica sinfonia dei Grateful Dead, già utilizzata in Zabriskie Point e qui assente. (Vhs da Rai; 4/10/98)
99 – In cerca di Amy di un Bluff Totale, USA 1997
Lo sapevo: così imparo a non fidarmi delle bad vibrations che Kevin Smith mi ha sempre comunicato. A me Clerks era piaciuto così cosà: m’era sembrato un classico caso di miopia critica e di esaltazione in mancanza di meglio. Avevo dovuto discutere con gli amici e far la figura del sacco di merda presuntuoso e bastian contrario. Sí, discreto… ma bello, Clerks, no, dài, no. I risultati erano più casuali che intenzionali e non voglio farla lunga, ché già altre volte ho indugiato contro questo regista. Pensai: il tempo sarà galantuomo. Esce il secondo film del regista indipendente nel frattempo diventato oscenamente ricco, Generazione X, e mi guardo bene dall’andarlo a vedere, anche perché stavolta viene stroncato. Primi dubbi nella critica ufficiale e mia sinistra soddisfazione. Perché poi i critici sono così: t’incensano per un nonnulla e poi si offendono se non confermi quelle qualità che solo loro avevano visto. Poi arriva questo In cerca di Amy e, siccome è ormai evidente che Smith è un mediocre, se ne dice discretamente per non fare retrospettivamente la figura dei completi idioti. Io, il film me lo affitto sapendo già che è una porcata, ma lo faccio per godermi la rivincita. E mannaggia se avevo ragione: Holden e Benky sono due fraterni amici che vivono e lavorano assieme, come fumettisti. A una convention di comics conoscono Alyssa, un’aggressiva autrice di cui Holden s’innamora prima di rendersi conto che è lesbica. Equivoci, tanto sesso parlato, l’amicizia e poi il miracolo machista: Alyssa decide che gli piace anche il pisello e si mette con Holden, con gran gelosia di Benky. Liti, rese dei conti, passati imbarazzanti che riaffiorano e nulla sarà più come prima… Recupero riviste e critiche ufficiali: il millantato e mitragliato dialogo esilarante è inesistente. Funziona dieci minuti e poi si riduce a un turpiloquio irritante. Narrativamente il film si spappa in una verbosità che ammorba la vicenda, ambientata peraltro in décor poverissimi di cui s’intuisce l’origine da studios. Quella che era sembrata in Clerks l’originale scelta di un approccio linguistico e narrativo grezzo – grunge, si diceva allora – si conferma semplicemente povertà mentale. Questa lunga cagata si trascina fino a un finale drammatico oltre ogni intenzione registica. Se poi bisogna affrontare la questione dell’omosessualità bisognerebbe avere almeno un minimo di serietà: qui basti la figura dell’amico nero dei due protagonisti, una checca persa che abusa di tutti gli stravisti vezzi e cliché che neanche ne Il vizietto. In tutto ‘sto bailamme, Smith si cita più volte e si riserva anche un’apparizione nei panni di quel Silent Bob, che già avevamo visto nel suo esordio registico, per concedersi un’inaspettata loquacità che ci educe sul significato del titolo. E poi, noo!, la dedica a Dio nei titoli di coda… Ma per piacere! Il sonno del Sundance crea mostri: questo film è una merda. (Vhs originale; 7/10/98)
100 – Il collezionista di un Cialtrone, USA 1997
Siamo al clone povero di quello fesso… Mi spiego: in un’infausta notte di Natale di due anni fa venni trascinato a vedere Seven che mi sembrò una bella sòla, narrativamente scombinato e visivamente derivativo de Il silenzio degli innocenti, senza però averne la classe e il fascino. Okay la fotografia di Darius Kondhji, carini i titoli di testa, e poi? E poi le solite cose, narrate peggio e, soprattutto, senza alcuna motivazione. Vi ricordate Spacey? Per quale motivo uccideva chi, secondo lui, s’era macchiato dei sette peccati capitali? Boh, però faceva tanto intrigante. E sapete come veniva catturato, il cattivone? Perché, pur possedendo 17.000 libri, era dovuto andare a procurarsi una copia della Divina Commedia in una biblioteca pubblica controllata dall’FBI! Chiaramente mettendo il suo vero nome nella richiesta. Morgan Freeman, il saggio compagno del giovane e irruento Brad Pitt, aveva l’alzata di genio di andare a fare una controllatina e, sorpresa!, ecco rivelata l’identità del cattivone di turno. Ma per piacere… neanche ne La signora in giallo, dài! Bene, quello era il clone fesso e adesso siamo al clone povero, questo Il collezionista, un film dalla pessima gestione narrativa. Ve lo racconto: Morgan Freeman è Alex Cross, un detective psicologo coinvolto personalmente nella caccia di un serial killer che ha probabilmente rapito sua nipote. Il maniaco si firma Casanova e viene definito “stupratore entusiasta” per le lesioni vaginali che provoca alle sue vittime, belle studentesse che tiene segregate e che uccide se si ribellano. A far accelerare l’inchiesta interviene un ulteriore rapimento dall’esito imprevisto, quello di Ashley Judd, volitiva dottoressa praticante kickboxing. Questa riesce a fuggire con un’altra decina di vittime e, seppur in stato confusionale, si mette in salvo: fuori dal labirinto carcerario (una parodia di Piranesi) c’è un bosco, lei corre come un ossesso e alla fine si fa un bello zompo alla cieca in un orrido che neanche Klaus Dibiasi. Vabbeh, facciamo atto di fede che la cosa stia in piedi. Cioè: un serial killer pasticcione e una tuffatrice drogata e intrepida. Freeman assiste la poveretta che, ovviamente salvata e ricoverata, versa però in cattive condizioni. Ma non per il tuffo fantozziano, bensì perché intontita da un medicinale di cui non si capisce l’identità. Ovviamente ci riesce Freeman che poi scopre, attraverso Internet, che di questo stesso medicinale ne è stata acquistata una grossa quantità da un chirurgo losangelino. Solo che il medicinale non si usa in chirurgia. Il maniaco risiede in California: come fa a compiere i suoi efferati delitti nella Carolina del Sud dove la vicenda è ambientata? Il povero spettatore lo ha già capito. I maniaci sono due, alleati e competitivi, e si scambiano foto delle loro vittime attraverso la posta elettronica. Il chirurgo di Los Angeles sventa l’arresto perché Freeman dorme in piedi e non gli spara neanche alle gomme della macchina… ragazzi: il cazzo di film deve durare almeno due ore! Il chirurgo, feticista dei piedi mozzati, raggiunge il suo compagnuccio senza che nessuno lo fermi ma Freeman e la Judd s’incaponiscono e scoprono il nascondiglio dell’allegra brigata (ovviamente sfuggito alle accurate ricerche dell’FBI): lotta finale, liberazione delle prigioniere, uccisione del chirurgo e caso ancora irrisolto perché Casanova non viene catturato. Freeman, liberata la nipote, se ne fotte, ma gli casca l’occhio sui rapporti della polizia locale e, guarda tu!, c’è una strana somiglianza con la calligrafia dei biglietti del maniaco. Con una prova calligrafica ineccepibile (sovrapposizione dei reperti cartacei sotto una fonte luminosa) Freeman deduce che Casanova è quel giovane poliziotto adesso in visita da Ashley Judd. Accorre e gli pianta una pallottola in fronte in un duello finale che mi vergogno a raccontarvi. Era tempo che non vedevo un film così scombinato, risibile come script e indeciso quanto a linguaggio. Il regista Gary Fleder era parso simpatico con Cosa fare a Denver quando sei morto, ora si capisce che è un cialtrone. (Vhs originale; 8/10/98)
(Continua — 1)