di Alessandra Daniele
Giovedì notte a Dallas quello che è stato per anni un massacro unilaterale è diventato una guerra a tutti gli effetti.
Il cecchino che ha ucciso cinque poliziotti non l’ha fatto perché li ritenesse personalmente responsabili della sistematica strage di afroamericani che aveva contato due nuove vittime il giorno prima, ma per la divisa che portavano, considerata ormai quella d’un esercito nemico, una forza d’occupazione.
Per i loro colori, compreso quello bianco della pelle, perché i colori del nemico.
Gli USA sono in guerra ai quattro angoli del mondo come al loro interno.
La guerra è ciò che li contraddistingue da sempre, nella realtà fisica come nell’immaginario collettivo.
La guerra è la loro religione di Stato, il cui primo comandamento, portare armi, è fissato nella Costituzione fra i diritti inviolabili.
Il loro fuoco zoroastriano che arde perennemente, il principale motore di molte loro industrie chiave, compresa quella dello spettacolo.
Il bagno di metallo fuso col quale vogliono purificare il mondo.
La fornace nella quale forgiano la loro identità nazionale, e nella quale la loro identità nazionale si dissolve.
Il cecchino, afroamericano reduce dall’Afghanistan, è stato ucciso con un drone esplosivo molto simile a quelli usati in Afghanistan.
Il giorno dopo, un altro afroamericano è stato ammazzato dalla polizia.
Il fronte eterno e infinito sul quale gli americani combattono percorre tutto il pianeta.
Non c’è ritorno a casa, non c’è tregua.
La guerra continua.