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[Dopo le recenti elezioni europee, nella sinistra detta “radicale” – che non ha raggiunto il quorum generosamente ideato dal PD, in combutta col PDL, per farla fuori una volta per tutte – si discute animatamente su come mai un settore importante della classe operaia abbia votato Lega invece che i partiti presuntivamente “di riferimento”. E’ stato un tema ampiamente trattato, per esempio, nella “Festa per l’Unità” che si è svolta nei giorni scorsi a Castell’Arquato (PC), dove la discussione ha occupato una giornata intera. Malgrado proposizioni brillanti o comunque interessanti, rintracciabili in video sul sito di PdciTv, la nozione di classe operaia e di proletariato usata dagli oratori pareva alquanto obsoleta. Per dare una mano alla riflessione, riproponiamo, con un titolo arbitrario che lo attualizza, un intervento dell’insostituibile Primo Moroni, apparso sul n. 1 di Vis-à-Vis — Quaderni per l’autonomia di classe, la rivista dell’altrettanto rimpianto Marco Melotti (il grande “Karletto”). Il saggio è del 1993, e ricalca un intervento di Moroni pronunciato quasi due anni prima, a Bologna, durante un convegno sul revisionismo storico. Si parla dunque di una Lega dei primi anni Novanta, che oggi non esiste più. E tuttavia gli spunti forniti sono straordinariamente illuminanti per tentare di analizzare il quadro odierno. Ennesima dimostrazione di come l’estrema sinistra anti-istituzionale e “criminalizzata” abbia saputo offrire spunti teorici che la sinistra più o meno radicale fatica a esprimere.
Il saggio completo di Primo Moroni è reperibile on-line, nel sito di Vis-à-vis, ma in formato pdf. Lo riproduciamo per assicurargli la massima diffusione, diviso in tre parti per via della lunghezza.] (V.E.)


Premessa

I materiali, i riferimenti e le riflessioni contenuti in questo articolo sono soprattutto una sollecitazione a seguire percorsi di lettura, itinerari bibliografici e a dotarsi di “strumenti di lavoro” adatti a consentire la conoscenza delle profonde trasformazioni in atto in una parte consistente della società italiana e di converso del suo porsi nell’Europa delle grandi strategie economiche. Nell’intenzione, quindi, materiali problematici e sicuramente non esaustivi così come sono legati a ricerche sul campo e a letture d’appoggio. In definitiva queste note vogliono essere una sollecitazione a tornare a “fare inchiesta e ricerca” partendo dai propri ambiti di lavoro e utilizzando Marx & co. come una “cassetta degli attrezzi” con la quale scardinare i sistemi di falsificazione dell’avversario di sempre. Il lettore troverà quindi in queste note possibili “ripetizioni” e percorsi apparentemente contraddittori (specialmente nelle parti finali), ma, appunto, l’intenzione è quella di produrre materiali relativi a ricerche e percorsi tutt’ora in corso e tutt’altro che conclusi.

Di alcune memorie recenti

ver1.jpgGli anni ’80 appena conclusi sono stati un periodo oscuro e tormentato del paese Italia. Molte sono state le mistificazioni e le ideologie ad occultare i processi reali (fra tutte “il pensiero debole”, le pagliacciate del “nuovo rinascimento”, l’Italia come grande paese industriale, ecc. ecc.). In realtà sono stati anni in cui il capitale a livello nazionale e internazionale si ristrutturava ed operava una profonda rivoluzione interna che molti definiscono una autentica “rivoluzione”.
Intorno a questi processi “alti” il grande ciclo dell’eroina, il dilatarsi del “capitale illecito”, la distruzione processuale delle soggettività, le generose e drammatiche risposte delle controculture giovanili metropolitane e infine il mondo del lavoro, gli operai chiusi nelle fabbriche, impotenti e attanagliati dall’angoscia per il proprio futuro.
Si può partire da alcune esperienze dirette di ricerca sul campo che abbiamo realizzato insieme al Consorzio Aaster di Milano. Lapo Berti così le riassume e qui liberamente possono essere riportate: la ricerca di cinque anni fa (1984-1985) ci pose davanti agli occhi un ambiente sociale devastato, un immaginario collettivo ridotto in frantumi, delle identità individuali svuotate.
Ricordo la frase esagerata, ma significativa, di un lavoratore anziano: “Siamo come gli ebrei; ora ci aspetta la “soluzione finale””. A quella ricerca mai pubblicata, avremmo voluto dare il titolo “La paura operaia”. La paura, infatti, sembrava essere la tonalità emotiva dominante, la “Stimmung” prevalente tra quei lavoratori che si vivevano come un gruppo di naufraghi. Il loro orizzonte era pesantemente occupato dal problema della droga, di cui quasi tutti, sorprendentemente, mostravano di avere avuto esperienza diretta (ovviamente tra i più giovani) o indiretta per il tramite di parenti o conoscenti (ciò anche a sfatare le banalità che riconducono il problema droga esclusivamente alle fasce marginali giovanili). L’immagine dell’ambiente di lavoro appariva dominata dall’irruzione dell’innovazione tecnologica, percepita nella sua brutale quanto reale valenza di sostitutrice del lavoro umano.

Qualche anno dopo, nel 1988, ci occupammo di un ambiente di lavoro del tutto diverso, quello di una “fabbrica” terziaria, la Ciba Geigy di Origgio, in cui gli operai rappresentavano una ridotta minoranza. L’atmosfera riscontrata era molto diversa, presumibilmente per la forte presenza di tecnici e di quadri, ma a livello operaio rispuntavano, seppur in qualche modo attutiti, i sintomi del disagio. Il reddito considerato insufficiente, la scarsa soddisfazione rispetto al lavoro, la percezione di occupare una posizione sociale stazionaria, se non in regresso, il timore che l’innovazione tecnologica minacciasse il posto di lavoro. Il risvolto di questa condizione soggettiva sul piano della rappresentazione sociale era, e in parte rimane, una sostanziale assenza del soggetto operaio anche se si intuivano i segni di una rinascente mobilitazione che in qualche modo si sarebbe rivelata alcuni anni dopo sia pure pesantemente condizionata dalle culture materializzate precedenti.
Ma questa perdita di protagonismo, questo silenzio del mondo del lavoro non potevano che porre domande profonde sulle loro origini e sui processi di trasformazione produttiva intervenuti a partire dagli anni ’80 (ma in realtà iniziati già a metà degli anni ’70).
Riflettere sul silenzio politico e culturale che avvolgeva il mondo dei lavoratori dipendenti allora e sulle difficili risposte che vengono date oggi, significa, quindi, interrogarsi sulla natura e il senso dei cambiamenti che sono avvenuti sotto i nostri occhi e che ci hanno coinvolti e trasformati. Significa, anche, interrogarsi sulla natura della società in cui viviamo e sulle forme di convivenza che essa esprime o cancella.
Tra la fine degli anni ’70 e nel corso degli anni ’80 si è compiuta in Italia una trasformazione epocale che ha messo tendenzialmente fine al precedente assetto produttivo e ha nel contempo ridisegnato larga parte delle culture sociali di intere regioni del paese. Come è ovvio questa mutazione del modo di produrre ha inevitabilmente sconvolto universi di riferimento, comportamenti collettivi e relazioni intersoggettive. Ha altresì messo in crisi l’intero sistema delle forme di rappresentanza politica che si erano formate nel precedente trentennio e che nella “verticalità” del sistema dei partiti assicuravano una relativa dialettica tra maggioranza e opposizione. Si può collocare l’inizio di questa mutazione , anche se ciò può apparire paradossale, nel biennio 1975-76 e cioè proprio quando la sinistra istituzionale di opposizione raggiunse il suo massimo storico di forza elettorale. Io credo che quel biennio abbia avuto (nella sfera politica e nelle sue conseguenze o ricadute nel sociale) un importanza di valore strategico tale da richiederne, prima o dopo, un analisi ben più approfondita di queste brevi citazioni. Qui, e per adesso, si può dire che un vasto mandato popolare e classista, che si tradusse in un voto massiccio per il PCI berlingueriano e altre forze di sinistra, auspicava un ricambio radicale del governo della società e che nel mito del “sorpasso” (e cioè del superamento dei voti delle forze centriste e moderate) trovava la parola chiave nell’immaginario collettivo. Come è noto quel grande risultato non venne “rispettato” dalle dirigenze comuniste le quali optarono per un accordo con la Democrazia Cristiana e le altre forze moderate. Nacquero così i governi di “unità nazionale” o di “solidarietà nazionale”. Un orrendo pasticcio politico che favorì il perpetuarsi della logora e precedente “classe dirigente” mentre fece venir meno la prospettiva di fondare una riforma delle regole del gioco sull’assunzione diretta di responsabilità di governo da parte delle forze che rappresentavano il mondo del lavoro dipendente, Noi scrivemmo, al tempo, che con quella scelta il PCI si era praticamente “suicidato”, attirandoci la derisione di sciocchi “gazzettieri” anche se non molti anni dopo gli stessi dovettero trasformare i loro poco attraenti ghigni in smorfie attonite e beote.
Le conseguenze di quelle scelte politiche di vertice sono note, il PCI e il Sindacato gestirono in prima persona la repressione dei movimenti antagonisti e fecero letteralmente “fuori” la grande esperienza dei “consigli di fabbrica” mentre il padronato espelleva più o meno violentemente dalle fabbriche decine di migliaia di avanguardie che si erano formate in due decenni di lotte. In questo modo la ristrutturazione produttiva poté marciare speditamente a tutto vantaggio delle élite capitalistiche. Si trattò indubbiamente di una svolta autoritaria che senza l’aiuto del PCI e del sindacato sarebbe stata molto più problematica e, in ogni caso, compito della “sinistra” sarebbe stato quello di governare e contrattare conflittualmente la transizione produttiva. Una svolta che con la parola chiave “emergenza” avrebbe dominato poi il quindicennio successivo e che nella violenta modifica delle regole democratiche (a partire dalla sfera del diritto e dalla conseguente trasformazione della magistratura in “braccio secolare” del potere politico ed economico) trovava il sostegno per ribadire la propria legittimità trasformando l'”emergenza” in forma di governo.
Alla luce odierna molte delle nostre analisi di allora appaiono in parte limitate perché se pure avevano colto che era in corso una “rivoluzione interna” del sistema politico, forse non avevamo colto appieno che quella era una necessità intrinseca della sfera della produzione. Ci fu probabilmente un enfasi eccessiva nell’indagare e nel sottolineare il ruolo repressivo del sistema politico e in particolare del sostegno che a questo veniva offerto dalla sinistra istituzionale, ma non venne colto appieno che stava avvenendo un autentica svolta epocale nelle strategie complessive del capitalismo maturo. E’ evidente che l’aver capito, o cominciato a capire, oggi la profondità di questa mutazione aggrava e non diminuisce le responsabilità del PCI e del Sindacato. Ma anche da parte della sinistra extrasistemica i limiti di analisi furono molti e contribuirono a non poche scelte sbagliate. Ciò a partire, ad esempio, dal concetto di “sconfitta operaia” che indubbiamente ci fu ma che era la conseguenza di più profonde implicazioni e che così ridotta finiva per cogliere esclusivamente la dimensione politica di quello che, in realtà, e, prima di tutto, era e rimane un gigantesco processo di trasformazione sociale indotto puramente e semplicemente dalla necessità di cambiare in profondità il modo di produrre. Una necessità che nel caso italiano interveniva con un considerevole ritardo se rapportata ad altre aree economiche capitalistiche e il ritardo era stato causato principalmente dalla capacità conflittuale e dalla maturità raggiunte sia dai movimenti antagonisti che, soprattutto, dalla forza organizzativa del corpo centrale della classe operaia. In questo senso era comprensibile che la mutazione assumesse in Italia contorni molto più drammatici che altrove e che per realizzarsi “dovesse far fuori” sia i movimenti antagonisti che la stessa centralità operaia.
Probabilmente non avevamo riflettuto a sufficienza su quanto era successo negli Stati Uniti a partire dalla fine degli anni ’60, quando il processo di “dismissione” dei grandi impianti industriali aveva radicalmente trasformato la fisionomia di intere aree sociali del paese. Per fare l’esempio più conosciuto si può ricordare la vicenda di Detroit (che è stata la storica capitale del mitico ciclo dell’automobile e che ha segnato l’immaginario di molte generazioni di militanti di sinistra, ortodossi o eretici) e dei processi di deindustrializzazione che vi si verificarono. Detroit non più una città industriale da molti anni e la sua storica classe operaia nera e bianca, violenta e intelligente, si è dissolta nelle pieghe immense del mercato del lavoro statunitense. In un certo senso è praticamente scomparsa forse anche a causa della sua ingestibilità, ma soprattutto perché le grandi holding o corporation dell’automobile optarono per un formidabile decentramento produttivo che veniva consentito o facilitato dall’irruzione sempre più massiccia delle nuove tecnologie. Ricerca di manodopera poco conflittuale a basso costo e nuove tecnologie determinarono lo spostamento, in una prima fase, di una parte rilevante della produzione dei processi di fabbricazione nel sud degli States e negli anni ’80 direttamente in Messico o in altri stati. Lo stesso fenomeno si sarebbe poi verificato per altri settori della produzione industriale determinando una radicale deindustrializzazione degli Stati Uniti di cui l’esternalizzazione della produzione è il fattore più visibile. All’interno la fabbrica taylorista e fordista è stata trasformata grazie ai robot e all’informatica, spesso “impiantati” in nuovi, più piccoli stabilimenti costruiti nelle aree meno sindacalizzate del paese. Poi è stata ulteriormente traslocata in Corea del Sud, a Singapore, Hong Kong, Formosa, nelle Filippine e così via. Gli effetti sono noti: impoverimento in quelli che erano i centri pulsanti della produzione e della vita operaia, con conseguente loro degrado a periferie economico-sociali, e “arricchimento” delle nuove enclaves legate alla produzione industriale. Ed è in queste aree che si assiste alla rinascita di ideologie legate ai particolarismi etnici e razziali e al consolidarsi dei “piccoli nazionalismi” dei diseredati.
L’approfondirsi dell’impoverimento etnico e razziale ha lasciato ai più giovani di ciascun gruppo ben pochi obiettivi, al di là della difesa del proprio territorio. Sono ideologie mistificate, che indirizzano odi e risentimenti verso il più vicino socialmente e territorialmente. (Bruno Cartosio, Stati Uniti: La mutazione capitalistica in atto, in rivista “Altreragioni” n. 2, Milano, 1993) (1).
Per parlare quindi della realtà attuale occorre partire dai processi strutturali della seconda metà degli anni ’70 e dalla violenta offensiva che era, oltre al resto, resa necessaria dalla inaffidabilità dei nuovi soggetti giovanili che si affacciavano al mercato del lavoro (2); ma che era altrettanto non rinviabile per gli intervenuti processi concorrenziali determinati dall’irruzione delle tecnologie flessibili nel modo di produrre le merci nelle società del capitalismo maturo. (3) e (4)

1. LA “NUOVA DESTRA SOCIALE”: IPOTESI E MATERIALI DI RIFLESSIONE

primo_moroni2.jpgLa sconfitta del “corpo centrale della classe” simbolizzata dalla Fiat ’80, dalla marcia dei 40.000 “quadri intermedi” o “colletti bianchi” e dai 23.000 licenziamenti (5), significava proprio questo, significava che insieme alle culture e alle forme di lotta della classe operaia più moderna e matura del dopoguerra, decadeva anche il modo di produzione di cui quelle pratiche di conflitto erano la risposta speculare. In un certo senso era il tramonto del modello fordistataylorista di organizzazione della produzione delle merci e della vita dei lavoratori. In ogni caso è comunque indubbio che la transizione dal modello della “produzione di massa” alla cosiddetta “produzione snella” è un fatto consolidato, non solo nei settori della meccanica leggera, ma nel complesso della struttura industriale. E che essa ha al centro il tentativo di superare alcuni dei caratteri qualificanti del modello organizzativo fordista e taylorista, che ha segnato la storia industriale per buona parte del Novecento. (6)
Accennavo alla conflittualità operaia degli anni ’70, alla pratica conflittuale che abbiamo conosciuto come “centralità della fabbrica” con le sue pratiche di “rigidità” e di democrazia dal basso espressa dal “movimento dei consigli”. Sostanzialmente intendo riferirmi al grande ciclo di lotte dell'”operaio massa” e alla cultura diffusa che quel ciclo aveva innestato in tutta la società. Indubbiamente le élite capitalistiche si sono trovate nella condizione di “smontare”, distruggere quel ciclo che minacciava sempre più il “comando” sui processi lavorativi e su tutto il resto della società; ma, come sempre, i processi di trasformazione interna del capitalismo sono sì la risposta speculare all’offensiva operaia, ma non possono essere letti solo in termini di conflittualità. Il conflitto di classe, infatti, è, come noto, un motore dello sviluppo e comporta di conseguenza una rivoluzione tecnologica del modo di produrre le merci. Intendendo dire con questo che il movimento dei consigli di fabbrica, che il ruolo politico della “centralità operaia”, sono sì decaduti in seguito ai processi repressivi; ma che nel contempo la risposta padronale ha avuto la possibilità di avere successo non solo per la forza e la capacità innovativa determinate dal consolidarsi delle nuove tecnologie flessibili, per cui si può contemporaneamente affermare che il movimento dei “consigli di fabbrica” è scomparso insieme al modello di organizzazione del lavoro di cui era espressione speculare. Innovazione tecnologica e processo di mondializzazione dell’economia sono due fenomeni strettamente interrelati che incidono profondamente sul terreno socio-culturale e stanno determinando una torsione concettuale che investe i fondamenti stessi del “nostro essere nel mondo”.
Citando ancora Lapo Berti, si può concordare con le sue affermazioni quando nel saggio Sull’invisibilità del problema operaio nella società postindustriale (7), afferma:

«E’ semplicemente mutato il modo di produrre. Si è instaurato un nuovo universo di rapporti. Sono emerse nuove configurazioni (8) … Non staremo qui a rifare la storia del decentramento produttivo e della corsa verso la flessibilizzazione dei processi produttivi su cui tanto inchiostro è stato versato in questi anni. E’ sufficiente ricordare come questi processi abbiano avuto due effetti dirompenti sulla composizione sociale che deriva la sua ragion d’essere dalla configurazione del sistema produttivo. Da un lato, sono stati smantellati, in maniera più o meno drammatica, i grandi blocchi omogenei di lavoratori che erano connaturati alla configurazione fordista. Per questa via sono state dissolte le basi materiali del mondo della classe operaia quale l’abbiamo conosciuto in questo dopoguerra. Le forme della cooperazione nella grande fabbrica fordista nonché i modi della socializzazione del lavoro operaio erano la grande matrice dei comportamenti che poi davano luogo alla “società solidale”. Con esse sono scomparse anche le ragioni della solidarietà nel senso tradizionale del termine.
Dall’altro, l’area sterminata del lavoro dipendente è stata progressivamente erosa dall’emergere di posizioni professionali indipendenti che hanno enormemente dilatato la sfera del lavoro autonomo. E’ stata questa, probabilmente, la trasformazione economica dalle conseguenze più vaste e rilevanti. Siamo ancora ben lontani dall’averne compreso e valutato la portata».

Il mondo del lavoro dipendente è stato, per così dire, invaso e disarticolato dalla “logica d’impresa”, dando luogo alla grande simulazione di una miriade di microimprese individuali che nascondono nuove forme di cooperazione e subordinazione, ma che, comunque, distillano un clima sociale diverso da quello generato dalla configurazione fordista della cooperazione sociale.
Vi è certamente molta enfasi e molta falsificazione nelle analisi di quegli economisti e di quei sociologi che parlano tout-court di una società dalla produzione immateriale o che riassumono nel termine terziarizzazione (senza precisarne i contenuti) le trasformazioni produttive in atto. Negli anni ’80 abbiamo assistito ad una gigantesca opera di “occultamento del lavoro”. In realtà la quota dei lavoratori manuali non è cambiata granché dagli anni ’50 ad oggi (circa cinque milioni di persone) e l’innovazione tecnologica – nonostante le indubbie implicazioni strategiche – è molto meno profonda di quanto non si voglia far credere (9) e, anzi, nel caso italiano si può parlare caso mai di un processo di innovazione marcata che, unitamente al mito della pace sociale, ha contribuito a determinare la produzione industriale più scadente del panorama europeo.
E’ stata invece profondamente modificata la dislocazione dei fattori produttivi con effetti di dispersione e invisibilità del mondo del lavoro rispetto alle isole sindacalmente organizzate mentre i profili professionali sono stati frequentemente sconvolti. (10)
La liberazione dal lavoro che è stata il filo conduttore, ora dispiegato ora nascosto, di tutti i conflitti innescati dall’operaio fordista appare ora (per quote consistenti) paradossalmente realizzata, sotto forma di simulacro, in questa opera gigantesca di rimozione sociale. Siamo nel pieno di quella mistificante narrazione che va sotto il nome, appunto, di “terziarizzazione” e che vorrebbe descrivere l’esodo dall’oppressivo lavoro di fabbrica verso la terra promessa del lavoro libero e indipendente. (11)
Appare evidente che non è esattamente così, ma ciò nonostante centinaia di migliaia di soggetti produttivi la “vivono” emotivamente, materialmente e individualmente in questo modo con effetti di profondo spaesamento dentro i confini e i profili della classe.

2. IL LAVORO “AUTONOMO”

Nel suo recente Problematiche del lavoro autonomo in Italia (12), Sergio Bologna elabora una prima analisi in profondità di questa, per larga parte, nuova figura sociale sia in termini quantitativi che qualitativi. Rinviandovi alla lettura di questa analisi estremamente complessa e documentata, posso qui citare alcuni passaggi illuminanti ai fini del nostro ragionamento e per spiegare dove voglio andare a parare con questo intervento relativo al formarsi di quella che molti nel “movimento” definiscono “nuova destra sociale”:
«Il lavoro autonomo costituisce una specie di ‘secondo livello della flessibilità del lavoro’, essendo il primo rappresentato dalla quota di lavoro la cui flessibilità è regolamentata contrattualmente o giuridicamente ed il terzo rappresentato dall’intero universo del lavoro nero o ‘non ufficiale’».
Generalmente il lavoratore autonomo assume il profilo giuridico della “ditta individuale” anche se per molte non è obbligatoria la registrazione alle Camere di Commercio. Anche se il livello di conoscenza sull’universo delle imprese individuali è molto limitato, si può formulare l’ipotesi che un gran numero di “lavoratori autonomi” esegue mansioni semplici lontano dalle unità di produzione che le ha commissionate, che il loro salario è rappresentato dalle fatture che presentano secondo una periodicità variabile per il lavoro fornito e che i vincoli posti alla loro prestazione dal committente sono sempre più rigidi. Secondo le stesse Camere di Commercio le imprese registrate sarebbero solo il 50-55% di quelle effettivamente in attività e ciononostante assommano ad alcuni milioni di unità (nella sola Lombardia sono circa 400.000). A questa categoria vanno poi aggiunte le imprese artigiane che nel 1988 erano 1.385.116 di cui ben 703.506 costituite dopo il 1980 [!]. (13)

Certamente dentro questo universo ci sono anche le decine di migliaia di bottegai, ma la quota di coloro che lavorano per le imprese (che fanno parte quindi delle cosiddette imprese a rete) o che sono produttori di merci e servizi si è tuttavia enormemente dilatata fino a rappresentare un fattore determinante dell’universo del lavoro.
L’analisi delle diverse caratteristiche di questo universo sarebbe troppo lungo e noioso e vi rimando quindi all’articolo citato, qui posso osservare che moltissimi di loro sono lavoratori monocliente (che svolgono servizi o producono merci per un solo committente) e in quanto tali “Essi non sono altro che forza lavoro desalarizzata, non si pongono in maniera autonoma in rapporto a un mercato pluricliente (un’altra quota consistente ha invece queste caratteristiche) e tuttavia, poiché debbono rispettare tempi e modalità di servizio rigidamente determinate, non sono detaylorizzati; quindi rivestono sì la forma di microimpresa, in realtà sono il nuovo operaio-massa dell’impresa a rete”. (14)
Sostanzialmente si è dato vita in questi anni a quella che gli economisti chiamano una protoindustria: legata al locale, alla famiglia, alla autoimprenditorialità, alla microimprenditorialità. Lo sviluppo dei servizi, che è il fatto nuovo, si è basato sulle strutture primarie: la famiglia e le reti parentali (il discorso vale anche per la Francia), reti che consentono uno sviluppo forte dell’economia informale. Si può dire che le famiglie diventano negli anni ’80 degli agenti dello sviluppo. (Giuseppe Gario: Evoluzione e tendenze nell’economia, nella società e nelle istituzioni lombarde).
D’altronde lo stesso Andrè Gorz nel suo Metamorfosi del lavoro, afferma che “Le grandi imprese hanno imparato a decentrare e subappaltare, secondo il modello giapponese, il maggior numero possibile di produzioni e di servizi servendosi di imprese satelliti – perlopiù minuscole – composte al limite di un solo imprenditore-artigiano che lavora esclusivamente per la grande azienda con capitale prestato (spesso n.d.r.) dalla stessa azienda”. (15)

3. TRA LAVORO AUTONOMO E MICROIMPRESA

Volendo citare un caso in grande ci si può riferire alla attuale struttura produttiva della Fiat-auto: “Un’auto Fiat è infatti composta da circa 5000 pezzi che sono in gran parte prodotti esternamente alla Fiat auto: il 25 per cento delle forniture sono acquistate da aziende straniere (perlopiù europee), un altro 25 per cento provengono direttamente dalla componentistica Fiat (circa 45.000 addetti), il rimanente 50 per cento da piccole aziende indipendenti (l’indotto) che producono esclusivamente per la Fiat. Molte di queste ultime unità produttive sono sorte per iniziativa di ex dipendenti Fiat (perlopiù quadri e capi), alcune anche grazie a partecipazione di capitale Fiat a cui sono legate non solo economicamente ma anche culturalmente. Esse occupano 150.000 addetti (un numero superiore di circa 10.000 unità a quello dei dipendenti della Fiat auto nel suo complesso) e la loro produzione è estremamente specializzata” (16).
Qualcosa di molto simile avviene in altri settori produttivi (celebre, ad es., è il modello Benetton e nel settore agricolo il modello Ferruzzi) (17) e questa profonda trasformazione è stata resa indubbiamente possibile, o fortemente facilitata, dall’irruzione massiccia delle tecnologie flessibili che permettono una continua interazione tra la fabbrica centrale e le migliaia di unità produttive disperse sul territorio. E’ in effetti noto che l’innovazione tecnologica è discretamente diffusa nelle piccole imprese, e ciò per molti ordini di ragioni tra cui la ridotta economia di scala e la necessità di continua innovazione non sono tra i minori. Innovazione dei processi lavorativi e modifica continua del prodotto sono infatti le caratteristiche principali di questo ciclo produttivo.
A esemplificare questo concetto si può dire che la produzione precedente (quella che si è affermata negli anni ’30 fino ai primi anni ’70) era di tipo essenzialmente unilineare e quantitativo. I settori dominanti erano quelli dei beni finali durevoli indifferenziati (come auto e elettrodomestici). Erano prodotti nuovi e desiderati che andavano a soddisfare svariate esigenze domestiche o soggettive. Non c’era una grande esigenza di qualità in questi prodotti, l’importante era averli. Quando, a livello multinazionale (ovviamente nei paesi a capitalismo sviluppato), si è giunti a soglie di saturazione di questa esigenza si è cominciato a giocare sulla qualità. Oggi il miglioramento della qualità è lo strumento necessario per accelerare le sostituzioni. Ciò avviene tramite soluzioni sempre più orientate alla personalizzazione dei beni e servizi. La tecnologia diventa in questo senso risorsa indispensabile, permette la continua differenziazione del prodotto e ciò è tanto più possibile quanto più la produzione possa essere organizzata per piccole unità produttive adatte a valorizzare e “controllare” le risorse umane e le singole abilità lavorative integrate creativamente con le tecnologie stesse. (18)
D’altronde l’evoluzione degli ultimi anni mostra che, da un lato, le nuove tecnologie forniscono le opportunità per uno sviluppo delle relazioni tra imprese e tra unità operative della stessa impresa, dall’altro che l’enorme quantità di opzioni tecnologiche rendono impossibile per una azienda, per grande che sia, il controllo di tutte queste opportunità. Di qui, la necessità da parte dell’impresa di assumere “configurazioni a geometria variabile” con confini mobili. La dimensione organizzativa di ogni area decisionale varia a seconda della tipologia del problema da gestire: la soluzione non è più sempre e comunque lasciata al centro, ma si demanda al sottosistema più idoneo all’invenzione di nuove aggregazioni o alleanze con altre imprese. (19)

Siamo quindi in presenza di un nuovo paradigma tecnologico che tende a distruggere i cicli industriali precedenti creando nuove figure sociali e produttive dislocate in aree territoriali molto vaste che se da un lato danno luogo a macroregioni sovranazionali (20) interconnesse tra loro dall’altro consolidano una miriade di “società locali” dove si sviluppano forme di cooperazione sociale tra imprese. La tecnologia informatica è, in questo caso, la rete “virtuale” di collegamento tra tutte queste realtà produttive. Essa permette infatti la trasmissione di informazioni e istruzioni a un costo molto basso, sostanzialmente indipendente dalla distanza. Diviene così possibile predisporre numerose varianti di un prodotto di base per le necessità di aree geografiche e di categorie socioeconomiche anche molto limitate: “Si osserva, pertanto, la parallela estensione di un medesimo processo produttivo a varie aree del pianeta (la cosiddetta “globalizzazione” della produzione) e l’adattamento a esigenze di piccoli gruppi di varianti di un modello di base”. (21)

4. LA NUOVA IDEOLOGIA DEL LAVORO

fine03.jpgSe ci sembrano convincenti queste riflessioni appare evidente come le nuove tecnologie e la profonda ridislocazione dei fattori produttivi siano state indubbiamente una risposta padronale alla ingestibilità del corpo centrale della classe, ma che questa risposta è stata resa possibile o, dialetticamente, necessaria dalla irruzione delle tecnologie flessibili. Essa ha inciso in maniera profonda sulla modifica dei territori industriali, ha ridisegnato le geometrie della composizione sociale di intere regioni, ha inciso sulle caratteristiche del mercato del lavoro che si è massicciamente territorializzato e localizzato fuori dalle grandi metropoli, dentro i piccoli centri di provincia delle regioni produttive del centro-nord. L’espulsione dei lavoratori dalle grandi fabbriche metropolitane ha determinato il loro ritorno nelle società locali da cui provenivano tramite il ben noto fenomeno del “pendolarismo”. (22)
Una parte di loro si è trasformata in imprenditore di micro-impresa, altri in lavoratori autonomi, moltissimi in forza lavoro flessibile e disponibile ad alto contenuto di skill (destrezza, abilità).
Da uno studio Nomisma (relativo al modello pratese o alle maglierie di Carpi) si ricavano utili indicazioni sui ritmi di lavoro degli artigiani e delle micro-imprese. Molti di loro – e i loro dipendenti – sono costretti a lavorare anche 16 ore al giorno così come sono tenuti a rispettare il just in time, vale a dire che l’artigiano deve non solo eseguire la lavorazione con il massimo di rapidità, ma consegnare la merce all’ora stabilita, in modo che essa entri direttamente nel ciclo dell’assemblatore e/o di chi commercializza (23). Inutile dire che se trasferita nel modello Fiat (o consimili) la situazione non cambia.
Gli stessi lavoratori autonomi a carattere individuale (cioè senza dipendenti) registrano, come dato immediato della propria indipendenza desalarizzata, un formidabile aumento della giornata e della settimana lavorativa. Siamo in presenza quindi di uno straordinario processo di valorizzazione della forza lavoro o di una sua continua contrattazione nel caso dei lavoratori delle microimprese.

Per cui si può affermare, nell’ambito di un intervento a carattere parziale (o di ricerca), che siamo in presenza non solo di uno sconvolgimento dei profili della classe, ma anche e soprattutto di quello delle élites dirigenti. Qui il discorso si fa particolarmente complesso e le analisi a disposizione frammentarie. Ma ciò proprio perché questa “rivoluzione” interna del capitalismo è tuttora in corso e tutt’altro che conclusa e, come è noto, le transizioni da un modello produttivo ad un altro sono sempre lunghe, incerte e contraddittorie. Mi diverte qui ricordare come Mario Deaglio (ex direttore de “Il Sole Ventiquattrore”, l’organo della Confindustria) nel testo che ho citato più volte (La nuova borghesia e la sfida del capitalismo) si diverte, a sua volta, intelligentemente a citare Marx ed Engels quando nel Manifesto del Partito Comunista affermano:

«La borghesia non può esistere senza provocare una continua rivoluzione nei mezzi di produzione e per conseguenza nei rapporti di produzione e con essi nell’intera gamma dei rapporti sociali. La conservazione dei vecchi modi di produzione in forma immutata è stata, al contrario, la prima condizione dell’esistenza di tutte le precedenti classi industriali. Una costante rivoluzione nella produzione, una perturbazione ininterrotta di tutti i rapporti sociali, una perenne incertezza e agitazione distinguono l’epoca borghese da tutte quelle precedenti».

NOTE

1) Nello stesso articolo Bruno Cartosio osserva che nel 1976 i milionari in dollari erano negli Usa 250.000 e che oggi sono 1.700.000.

2) «Un esempio più eloquente di qualsiasi teorizzazione: tra il 1978 e il 1979, la Fiat assume 15.000 nuovi operai; esattamente dieci anni prima, un’identica immissione di nuova forza aveva determinata l’esplosione autonoma della primavera, la durissima conflittualità dell’autunno, la mobilitazione permanente e il crescere del contropotere operaio degli anni successivi. Ma questi operai sono tutti diversi, scolarizzati, con alle spalle anni di lotte sociali e già una maturata avversione per il lavoro salariato. Scioperano ma ai cortei interni preferiscono la fuga dall’officina alla spicciolata, senza clamore. Il loro comportamento dentro le officine lascia a bocca aperta gli stessi militanti formatisi nel 1969. Lama e Romiti useranno per definirli lo stesso tono scandalizzato: “sesso, droghe, mercatini, pagliacciate, scarsissima produttività» (La città senza luoghi, a cura di M. Ilardi, Costa&Nolan, 1991).

3) «L’esistenza stessa di un nuovo modo di produrre implica la perdita di valore del capitale, fisico e umano, investito nei precedenti, e meno efficienti, processi produttivi, con estese chiusure d’impianti ed espulsione di manodopera… Sul continente europeo le fasi della distruzione economica del vecchio capitale necessario ai nuovi processi produttivi non sono del tutto chiaramente distinguibili e coprono un periodo che va dal 1975 al 1984» (M. Deaglio, La nuova borghesia e la sfida del capitalismo, Laterza, 1991).

4) Vedi inoltre le considerazioni di Marco Revelli in Fiat: la via italiana al postfordismo nel volume “Il nuovo macchinismo”, AA. VV., Datenews Roma, 1992: «E’ con la prima metà degli anni ’70 che la direzione Fiat deve prendere atto dei limiti sociali strutturali del modello produttivo vallettiano, in corrispondenza con la constatazione del carattere non occasionale, nè riassorbibile, del conflitto esploso alla fine de decennio precedente e proseguito con straordinaria anelasticità. Si trattava non di un disturbo transitorio, nè di un semplice problema di ridistribuzione del reddito risolvibile per via salariale, ma della specifica forma con cui “quella” forza-lavoro stava dentro “quella” organizzazione del lavoro una volta venuta meno l’arma della divisione e della paura… Maturò allora la scelta di confrontarsi con quella “composizione di classe”, con i suoi livelli strutturali di rigidità…, con la sua specifica insubordinazione produttiva, attraverso l’arma “oggettiva” della tecnologia. Di rinunciare, in sostanza, ad uno scontro frontale giudicato troppo costoso, e di giocare la carta dell’innovazione».
Il testo citato all’inizio della nota raccoglie gli atti del seminario promosso dai Circoli Comunisti sul tema lavoro e qualità totale nella fabbrica integrata e flessibile, i casi Fiat, Zanussi e Italtel, svoltosi a Venezia il 7 e 8 febbraio 1992.

5) Com’è noto i “40.000” non erano tutti “quadri” intermedi, ma ciò non diminuisce l’enorme valore politico di quell’episodio. D’altronde gli stessi 23.000 operai furono messi in cassa integrazione, ma la gran parte di loro non sarebbe mai più rientrata in fabbrica.

6) Marco Revelli in Fiat: la via italiana al post-fordismo, cit. In quanto a enfasi sulla svolta “epocale” vedi anche J.P. Womack, D.T. Jones. D. Roos, La macchina che ha cambiato il mondo. Passato, presente e futuro dell’automobile secondo gli esperti del Mit, Introduzione di G. Agnelli, Rizzoli, Milano, 1991.

7) Rivista “ITER” n 1, Consorzio AASTER, Milano, 1991.

8) Il temine “configurazione” viene usato da Lapo Berti nel senso assai pregnante che gli attribuisce Norbert Elias ne Il processo di civilizzazione, Il Mulino, Bologna 1982 e ne La società degli individui, Il Mulino, 1990.

9) Luciano Gallino, Tecnologia, organizzazione e società, Etas libri, 1992. Il ragionamento sull’innovazione tecnologica è qui fatto in termini generali. Analizzando infatti alcuni grandi complessi industriali come la Fiat, occorrerebbe un’analisi più approfondita. Basti osservare che alla metà degli anni ’80 la Fiat è uno dei gruppi automobilistici più altamente tecnologizzati, più dei francesi e degli americani, ma anche – a detta sei suoi dirigenti – più dei tedeschi e dei giapponesi. Gli esiti sono evidenti. I dipendenti diminuiscono del 40% mentre gli indici di produttività balzano bruscamente in avanti: nel 1986 si producono in Fiat una media di 19 auto per addetto (contro le 9,4 del 1979). Nel 1989 si arriverà ad una media di 31,2 auto per ogni lavoratore direttamente produttivo. Vedi M. Revelli, Gabriele Polo e Loris Campetti, in Il nuovo macchinismo, cit.

10) Ibidem.

11) Vedi il saggio di Lapo Berti, cit.

12) Pubblicato sul numero uno della rivista “ALTRERAGIONI”, Milano, 1992. La seconda parte è in pubblicazione sul numero 2 della stessa rivista.

13) D’altronde lo stesso M. Deaglio (ma anche le ricerche Censis) afferma che in Italia ogni giorno nascono circa 100 nuove imprese, al netto di quelle che muoiono. Sostanzialmente 30.000/40.000 all’anno.

14) Vedi il saggio di Sergio Bologna in “ALTRERAGIONI”, cit.

15) Andrè Gorz, Metamorfosi del lavoro, Boringhieri, Torino, 1992.

16) Gabriele Polo, Gli inganni della qualità totale, di prossima pubblicazione sulla rivista “ALTRERAGIONI”, cit. Vedi inoltre Benjamin Coriat, Ripensare l’organizzazione del lavoro, Dedalo, Bari 1991 (il titolo italiano rende molto male l’originale che era Penser à l’envers, pensare al contrario). Da cui risulta, ad es., che la giapponese Toyota appalta all’esterno il 70% della produzione. Sul lavoro di Coriat vedi l’incisiva recensione di Domenico Potenzoni sulla rivista “La Balena Bianca” n° 5, Pellicani ed., Roma, 1992.

17) Vedi in proposito le incisive analisi contenute in L’imprenditore politico: il modello Benetton curato da alcuni compagni italiani a Parigi e pubblicato nel numero 3 della rivista “KLINAMEN”, Sesto S. Giovanni (Mi), 1992: «I nuovi attori erano operai (o ex operai), ma anche forza lavoro scolarizzata e a volte altamente qualificata… Rifiutavano il lavoro ripetitivo e dequalificato della grande industria. Cercavano sul territorio forme alternative di autovalorizzazione. E’ a questo movimento qualitativo legato alla crisi sociale della grande industria che si deve l’amplificazione del doppio lavoro, del lavoro indipendente, e la proliferazione delle piccole fabbriche sparpagliate sul territorio”. Benetton ne intuisce la potenzialità e decentra una parte rilevante della produzione a queste figure sociali. “nel caso Benetton la distribuzione comanda sulla produzione”. Partendo dalle risorse locali la grande impresa è l’unica in grado di assicurare la commercializzazione internazionale della produzione. Simile, e forse ancora più preciso, è il modello Ferruzzi: “L’esempio del gruppo Ferruzzi risulta centrale. la sua dimensione politica globale è la sola in grado di assicurare a migliaia di piccole imprese agricole il “savoir-faire” necessario per sviluppare politiche di lobby e di comunicazione (sull’utilizzo alternativo delle risorse agricole) che soli possono assicurare le sovvenzioni comunitarie alle colture di barbabietole e di soia». Come si vede GLOBALE e LOCALE in questi esempi risultano categorie armoniche.

18) Vedi Riccardo Galli, GLOBALE/LOCALE in rivista “ITER” n° 2/3. Vedi inoltre B. Coriat, cit., e D. Potenzoni, cit., soprattutto per ciò che concerne i riferimenti al modello giapponese e alle teorie dell’ing. Taichi Ohno, “mitico” vice-presidente esecutivo della Toyota Motor Company, da cui deriva il termine onhismo o modello onhista alla cui base sta l’obiettivo di “produrre a buon mercato delle piccole serie di numerosi modelli differenti”. Il modello onhista rappresenta oggi per il capitale ciò che la fabbrica fordista ha rappresentato nel passato: un modello produttivo di carattere universale (globale) e la cui efficacia è notevolmente superiore alla precedente fabbrica fordista per i processi di valorizzazione del capitale”, D. Petenzoni, cit. Qui si può osservare che il Penser à l’envers, il “pensare al contrario” del modello onhista, rappresenta un’autentica “rivoluzione copernicana” almeno in un punto strategico del modello produttivo fordista che attiene alle direzioni dei flussi di comando sulla produzione. Non più una direzione d’impresa arroccata nel proprio quartier generale al centro del sistema produttivo, ma affidando le definizioni dei volumi produttivi direttamente al mercato, al cliente e quindi facendo dell’ultimo terminale d’assemblaggio la sezione aziendale che meglio di ogni altra può, con la propria “domanda”, attivare segmenti a monte, determinandone i volumi produttivi parziali (Just in Time), e, in ultima istanza, globali. (vedi Marco Revelli, Ford oltre Ford, in rivista “Fuorilinea” n° 2, Roma, 1993). Chi pensa o fiduciosamente crede che per questa via il “cliente” modificherà la produzione e quindi l’organizzazione del lavoro, ragiona in modo totalmente rovesciato.

19) Ibidem.

20) Vedi, ad es., la comunità “Alpe Adria” (ormai operante) che si è costituita nelle Regioni di confine delle Alpi centro-orientali e dell’alto Adriatico. Comprende 18 regioni di stati occidentali (Italia, Germania federale e Svizzera, neutrali (Austria), non allineati (ex Iugoslavia, in particolare Slovenia e Croazia) e orientali (Ungheria). “Alpe-Adria” si è costituita nel 1978 e fin dall’inizio comprendeva sia la Slovenia che la Croazia e ciò consentirebbe suggestive riflessioni sugli eventi bellici successivi. Complessivamente “Alpe-Adria” comprende 38.553.013 abitanti.

21) M. Deaglio, cit.

22) Ovviamente e parallelamente molti hanno abbandonato la metropoli sia per gli aumentati costi di sopravvivenza, ma anche perché il decentramento offriva opportunità lavorative nelle società locali. la perdita di circa 500.000 abitanti verificatasi a Milano è anche spiegabile con questi processi oltre che con la tendenziale espulsione dei “soggetti deboli”.

23) Sergio Bologna, cit.

(1-CONTINUA)