di Fabrizio Lorusso
Presentiamo un’intervista con Raùl Zecca, autore del saggio Come schiavi in libertà: vita e lavoro dei tagliatori di canna da zucchero haitiani in Repubblica Dominicana (Arcoiris, Salerno, 2016).
Come nasce il tuo libro, Come schiavi in libertà. Vita e lavoro dei tagliatori di canna da zucchero haitiani in Repubblica Dominicana (Arcoiris, 2016)?
Il libro nasce dall’esigenza di raccontare una realtà estremamente drammatica e allo stesso tempo quasi del tutto ignota. La Repubblica Dominicana è infatti conosciuta in tutto il mondo per i suoi mari cristallini, le spiagge caraibiche, l’ottimo rum e la bachata, ma dietro a questa facciata turistica esiste molta povertà, sfruttamento e razzismo. Con questo libro, frutto di una ricerca che mi ha impegnato per oltre quattro mesi sul campo, mi sono concentrato sulle terribili condizioni di vita e soprattutto di lavoro che migliaia di braccianti impiegati nelle piantagioni di canna da zucchero sono costretti a subire quotidianamente. Si tratta di braccianti haitiani, migranti irregolari fuggiti dal paese più povero del continente americano e giunti nella Repubblica Dominicana con la speranza di trovare un futuro dignitoso, un sogno destinato a infrangersi tra soprusi, violenze e abusi nello sfruttamento delle piantagioni.
E c’è anche un documentario dallo stesso titolo. Puoi parlarcene più in dettaglio?
Il documentario è figlio del caso. Dopo intere settimana trascorse insieme ai braccianti nelle loro comunità posso dire di essere diventato parte della famiglia. Con alcuni di loro è nato un vero rapporto di amicizia e questo mi ha permesso una confidenza e un’intimità che altrimenti sarebbero state impossibili. Così ho potuto filmare situazioni ed interviste che a mio avviso sono testimonianze autentiche del regime di sfruttamento che i lavoratori vivono, immagini che non avrebbero nemmeno bisogno di commenti o spiegazioni perché parlano da sé. E’ così che è nato il documentario, senza averlo programmato, e forse anche per questo ha un valore ancor più “etnografico”. Ma è soprattutto un documentario di denuncia, un modo per dare voce a coloro cui è stato negato ogni diritto, e portare alla luce una realtà vergognosa. Anche per questo cerco di presentarlo insieme al libro ovunque mi si offra la possibilità, negli spazi comunali, nelle librerie, nei centri sociali. Ed ora lo si trova anche sul sito delle Edizioni Arcoiris che hanno coraggiosamente pubblicato il libro.
Chi sono oggi gli “schiavi in libertà” del sistema? E nella Repubblica Dominicana? Cos’è un batey?
Gli schiavi in libertà sono semplicemente i nuovi schiavi, gli schiavi moderni. Formalmente la schiavitù è stata abolita e viene esplicitamente ripudiata da tutti, ma nella pratica, nelle dinamiche sociali, nei rapporti di lavoro, molto spesso sopravvivono forme di dipendenza e sfruttamento che sono del tutto assimilabili a quelle che caratterizzavano lo schiavismo. Nella Repubblica Dominicana gli schiavi in libertà sono i braccianti agricoli haitiani, tra l’altro discendenti da veri schiavi, gli schiavi che furono vittima della tratta atlantica, quegli schiavi che a fine ‘700 trovarono il coraggio di ribellarsi e che pagarono a carissimo prezzo la libertà conquistata, tanto che ancora oggi, dopo intere generazioni, si ritrovano di nuovo sotto altri gioghi, legati da altre catene, forse ancora più difficili da scardinare proprio perché invisibili. E i bateyes sono il simbolo di questa schiavitù moderna, comunità-ghetto disperse nell’entroterra della Repubblica Dominicana, tra sterminate piantagioni di canna da zucchero, dove migliaia di braccianti haitiani vivono e lavorano in condizioni al limite dell’umanità e per paghe da fame, senza acqua corrente, energia elettrica e servizi igienici.
Quali sono le lotte o resistenze che si sono create di fronte a questa situazione?
Purtroppo la situazione è talmente disperata che ogni tentativo di protesta viene represso con la minaccia del licenziamento. Nei bateyes vige infatti un regime ricattatorio basato sulla fame e la sopravvivenza, poiché per i lavoratori, migranti privi di documenti, non esistono alternative possibili al taglio della canna da zucchero e questo comporta una sottomissione totale al lavoro e l’accettazione di condizioni davvero infami.
Secondo te come sono o come definiresti le relazioni tra haitiani e dominicani?
Sono relazioni complesse. Storia e geografia hanno costretto due popoli molto diversi a una convivenza forzata e quel confine che divide Haiti dalla Repubblica Dominicana è una cicatrice aperta su cui in molti fanno leva per fini strumentali. Parte della politica dominicana è imperniata sull’antihaitianismo nell’ottica strategica del capro espiatorio e i media spesso fomentano questo tipo di ideologia ultranazionalistica che purtroppo genera sentimenti xenofobi, fenomeni di razzismo e molto odio, soprattutto tra le fasce più povere della società.
In che termini possiamo parlare di razzismo?
Oltre un secolo fa, uno dei primi attivisti per i diritti civili dei neri, Edward DuBois, scrisse che il problema del XX secolo era il problema della color line, la linea del colore. Purtroppo nemmeno con il nuovo secolo si è risolta la questione e ancora oggi in molte parti del mondo la linea del colore rappresenta una vera e propria frontiera nella subcultura razzista. Così è nella Repubblica Dominicana dove vige un’autorappresentazione razziale fondata sulla narrazione di un’identità superiore rispetto a quella haitiana e a segnare il confine tra l’una e l’altra è proprio il colore della pelle. Essere scuri o avere i capelli crespi per molti dominicani è una vergogna e oggetto di discriminazioni.
A distanza di alcuni mesi dal tuo primo viaggio di ricerca sei tornato sull’isola recentemente e hai visitato di nuovo alcuni bateyes. E’ cambiato qualcosa? In che senso? Continuano le lotte per i diritti dei lavoratori?
Ti porto un solo esempio. In quest’ultimo viaggio ho avuto modo di parlare con un bracciante che insieme ad alcuni compagni di lavoro stava cercando di organizzare qualcosa di simile a un sindacato, e completamente sconsolato mi raccontava delle enormi pressioni che l’impresa stava esercitando nei loro confronti e nei confronti di chiunque pensasse di aggregarsi, ad esempio cercando di corromperli con pochi pesos, o detraendo una somma prestabilita di denaro dal salario di ogni affiliato, o ancora richiamando a colloquio i singoli braccianti, cioè in qualche modo intimorendoli. E tutto questo per eliminare una libera associazione di pochissime persone, incapace di far fronte a un solo giorno di sciopero, privo di forze, di mezzi, di tutto…questo per dirti degli interessi che ci sono in gioco. Difficilmente la situazione potrà cambiare se non si mettono in discussione quegli interessi, che sono interessi economici, ma anche politici.
Haiti e la Repubblica Dominicana hanno avuto conflitti storici endemici. Negli ultimi 3 anni per lo meno c’è stato anche un problema migratorio grave dovuto a una sentenza della Corte Suprema dominicana che in pratica arriva a togliere retroattivamente la cittadinanza a decine di migliaia di haitiani o discendenti. Hai potuto capire com’è la situazione nel Paese o nelle comunità che conosci più da vicino?
La riforma costituzionale che ha di fatto denazionalizzato oltre duecentomila persone di origine haitiana rientra perfettamente nel discorso del razzismo ed ha come obiettivo l’esclusione di queste persone indesiderate da qualsiasi tipo di diritto civile e politico. Ne è scaturita una situazione molto tesa, soprattutto nei grandi centri urbani e nelle zone di frontiera, poiché non sono mancate deportazioni di massa e rimpatri forzati. Paradossalmente nei bateyes tutto continua come prima e ciò si spiega con il fatto che queste comunità rappresentano dei veri e propri ghetti sociali, piccoli invisibili stati nello stato, che soprattutto costituiscono una preziosa riserva di manodopera a basso costo, estremamente redditizia per le imprese dello zucchero dominicano.
Quali sono secondo te le possibili connessioni tra un fenomeno locale di semi-schiavitù e ripetute violazioni ai diritti umani e del lavoro e il resto del mondo o addirittura l’Italia?
Per quanto la mia etnografia prenda in considerazione una realtà circoscritta e distante, ciò che ho cercato di mettere in luce sono temi tanto attuali quanto universali come lo sfruttamento sul lavoro e la violazione dei più fondamentali diritti umani. Ma soprattutto, ciò che ho cercato di mostrare, è che tali condizioni sono la conseguenza diretta di specifiche politiche economiche nazionali e globali generalmente riconducibili al modello neoliberista, dove all’altare del capitale e del libero mercato vengono sacrificate molte delle conquiste sociali degli ultimi due secoli. A ciò si aggiunge e fa da collante un ulteriore grande tema che ci riguarda tutti molto da vicino, ed è quello delle migrazioni, spesso forzate; un tema che ci interroga quotidianamente ogni qualvolta un nuovo barcone carico di profughi raggiunge le nostre coste; persone che parlano una lingua universale, a qualsiasi latitudine, quella dei dannati della terra.
Trailer del documentario “Come schiavi in libertà”