di Alessandro Cartoni
Pelagio D’Afro, I ciccioni esplosivi, ed. Montag, 2009, pp. 182, € 12,50
Il grottesco è una categoria estetica tipica della modernità dalla struttura ambivalente, che sapientemente mescola un certo grado di comicità allo spessore tragico della narrazione. Per questo è tanto più difficile conquistarlo quanto più l’occasione comica diventa facile e debordante. Riesce onestamente in questa impresa Pelagio D’Afro, l’autore policefalo de I ciccioni esplosivi, romanzo giallo-grottesco recentemente edito dalla piccola casa editrice marchigiana Montag.
Il teatro della storia è seducente trattandosi di quel contesto metropolitano-provinciale che coincide con la città di Ancona (qui chiamata Gomitona). Anzi, non vorremmo essere ingenerosi nel confronti dei personaggi nel dire che la vera protagonista è proprio l’antica, oscura, levantina e abissale città dorica. Nel ventre di Gomitona (quartiere degli Archi, porto, città vecchia ecc.), e nei suoi dintorni (dai nomi sapientemente leggendari che i marchigiani non esiteranno a riconoscere, Aquilara, Pontemarcio ecc.), si svolge una vicenda nera che parte dalla morte esplosiva e inspiegabile di individui in sovrappeso e coinvolge l’ambiente delle palestre, il terrorismo internazionale e una multinazionale di prodotti per l’alimentazione dietetica.
A indagare intorno all’intreccio convulso dei sospetti delle ipotesi e degli errori, un piccolo ufficio di polizia i cui strenui baluardi sono una suadente vicequestore e un ispettore meridionale col pallino della citazione dantesca (Dante si rivela qui la bussola che conduce al centro dell’inferno gomitoniano).
E se anche il lettore sarà portato a divorare l’intreccio irresistibile dei fatti, a discapito dell’analisi dei personaggi (a volte pure macchiette dipinte a pennellate veloci), dopo l’ultima riga gli rimarrà il dubbio se aver assistito a una farsa divertente oppure a un deformante e sarcastico affresco delle nostre contemporanee ossessioni: la bellezza fisica, il sesso come garanzia di successo sociale, le fissazioni enogastronomiche, l’integralismo religioso.
A spingerci verso quest’idea è proprio l’autore Pelagio che infila nell’epigrafe una citazione dal Candide di Voltaire. Gioco leggero, dunque, o romanzo filosofico?
Da non dimenticare i tre pensionati gomitoniani, anch’essi investigatori per passione, che, pure proiezioni dell’autore, rivelano la sostanza del pensiero pelagico. Nell’epilogo, Vespasiani (uno dei tre anziani) guarda il mare notturno con attitudine del tutto opposta a quella di ‘Ntoni Malavoglia e riflette: La realtà era apparenza, Velo di Maja; lo percepiva, lo sentiva con una chiarezza abbagliante e inesprimibile a parole; ma tra le maglie del Velo, in attesa dell’annichilimento senza scampo di questo inutile e assurdo Io, c’era il tempo di godere di tanti piccoli e, se capitava, grandi piaceri. E senza rompere le palle a nessuno.
Il mondo può dunque rimanere al suo posto con le sue contraddizioni, i suoi conflitti, i sui cataclismi, purché non turbi la passione al “piacere statico” di chi lo vive con lucidità, saggezza e senso della distanza. Una filosofia minima (definita non si sa quanto scherzosamente in quarta di copertina “buddhepicurismo”) che in questi tempi duri può aiutare a sopravvivere in modo dignitoso e per nulla consolatorio, come dimostra la fattiva esperienza dei tre vecchietti.
La prefazione di Paolo Agaraf dimostra senza equivoci che l’autore Pelagio D’Afro è una costola del suo padre putativo. Due quarti di Pelagio sono già due terzi dell’autore agaraffiano e cioè Alessandro Papini e Roberto Fogliardi, ai quali si aggiungono Giuseppe D’Emilio e Arturo Fabra, a riprova del fatto che la scrittura collettiva gode nelle Marche di una buona e “buddhepicurea” salute.
Il sito dell’autore: http://www.pelagiodafro.com