di Danilo Arona
E’ appena scoccato l’anniversario del bicentenario della Notte in cui nacque il Gotico a Villa Diodati sul lago di Ginevra (16 giugno 1816) ed è sotto gli occhi del mondo la notevole analogia tra la cosiddetta “estate infestata” di allora e l’attuale pessimo clima, caratterizzato da un inizio d’estate quanto mai capriccioso e piuttosto freddo. Purissimo caso e, se la parola “Caso” è sempre l’anagramma di “Caos”, non va dimenticato che la notte della grande sfida tra Byron, Polidori, i due Shelley e la Clairmont resta una convenzione dall’intrigante sapore di leggenda. Ma non fu affatto leggendario il singolare, per non dire unico, contesto storico e climatico di quella riunione. E il particolare effetto Farfalla che lo caratterizzò.
Si legge spesso che il cattivo tempo e il pessimo clima di quell’estate potrebbero configurarsi come fattori determinanti della nascita di Frankenstein e de Il vampiro. Concordiamo, ma si può andare oltre. Il 1816 infatti fu uno degli anni più disgraziati e crudeli della storia del genere umano, definito per lunghi anni a seguire nel folclore europeo “l’anno della miseria” o “l’anno senza estate”.
Era certo inizio estate sul calendario, ma su tutta quanto il pianeta pesava un’autentica atmosfera di Apocalisse. La stagione era dovunque rovinosa e piovosa oltre ogni dire, tempestosa e freddissima: la causa dell’inusuale fenomeno era da ascriversi all’eruzione del vulcano Tambora nell’isola indonesiana di Sumbawa, in Indonesia, avvenuta nell’aprile dell’anno precedente.
Possiamo spendere qualche riga per questo microscopico luogo, ubicato nelle piccole isole della Sonda, che ospita però uno dei più distruttivi e pericolosi vulcani del pianeta. Infatti il Tambora è tuttora considerato il secondo vulcano al mondo per indice di esplosività – la sua ultima rovinosa “esibizione” risale all’anno 1967 – e la sua eruzione più importante avvenne proprio nel 1815.
Il tutto iniziò il giorno 11 aprile, verso sera, con una serie di potenti boati, simili a tuoni o cannonate, che misero sull’avviso le truppe britanniche che da non molto tempo si erano stanziate nella regione dopo averne scacciato gli olandesi. Questa prima serie di esplosioni tuttavia si esaurì in breve tempo; ma un nuovo fenomeno parossistico, questa volta molto più intenso, cominciò il giorno 19, con esplosioni intensissime, tali da far tremare le abitazioni, e abbondanti emissioni di cenere che oscurarono il cielo dell’intera regione per giorni e provocarono pesanti disagi in tutti i villaggi circostanti. Le navi incontrarono anche dopo parecchi anni dal fenomeno la cenere in mare nella forma di isolotti galleggianti di pomice.
Quest’eruzione fu una delle più potenti della storia, almeno dalla fine dell’ultima era glaciale; l’emissione di ceneri risultò, quantitativamente, circa cento volte superiore a quella dell’eruzione, pur rilevante, del monte Sant’Elena (stato di Washington) del 1980, e risultò maggiore anche di quella della formidabile eruzione del Krakatoa del 1883. Complessivamente, vennero proiettati in aria circa 150 miliardi di metri cubi di roccia, cenere e altri materiali. L’eruzione creò disastri di proporzioni bibliche, con una stima di sessantamila morti dovuti sia all’esplosione che al susseguente maremoto nonché alle pesanti carestie che seguirono il disastro.
Nell’atmosfera, ovunque nel mondo, vennero proiettati enormi quantitativi di cenere e polveri (si parla di 150 miliardi di metri cubi di roccia), producendo un denso “velo” di polvere vulcanica che schermò una discreta parte dei raggi solari negli anni successivi, provocando dappertutto uno dei periodi più freddi della storia del mondo. La polvere restò per molti anni nell’atmosfera diminuendo la quantità di radiazione solare che abitualmente colpisce il suolo della terra. Il pianeta conobbe un’epoca di estati mancate e inverni freddissimi, con la conseguenza di scarsissimi raccolti e di un impoverimento importante di vaste aree del pianeta.
Il 1816, anno successivo all’eruzione, fu un vero e proprio disastro climatico e la sua estate la più fredda di tutta la storia sino a oggi. In Europa, come in altre parti del mondo, accaddero cose incredibili sia “fuori” – nell’aria, nella natura e nella società – che “dentro” -, nei cervelli e negli spiriti.
I raccolti diminuirono sino a sfiorare lo zero. A Quebec si scatenarono due tempeste di neve a fine giugno. A luglio e agosto i laghi della Pennsylvania ghiacciarono. In Italia per circa un anno cadde neve rossa, resa tale dalla polvere vulcanica. Scoppiarono rivolte, un po’ in tutta Europa, per la mancanza di cibo. La gente, già esasperata dalla fame e dalla drammatica situazione creatasi dopo le guerre napoleoniche, si diede al saccheggio e alla guerriglia perché i negozi di alimentari scarseggiavano di merce. Per l’assenza di foraggio si cominciarono a macellare tutti i maiali a disposizione, ma poi, spariti quelli, si iniziò a mangiare di tutto, dai gatti al muschio. La stessa Svizzera dovette dichiarare emergenza nazionale per la crisi del raccolto. Molti aree dell’Europa furono alluvionate. In Gran Bretagna tutto il mese di luglio fu caratterizzato da incessanti nevicate. Il freddo improvviso scatenò una pandemia colerica. Migliaia di persone morirono per malattia e congelamento.
Il sole in Europa appariva come un disco pallido e inerte. Attorno a quest’inquietante peculiarità del nostro astro, sin da maggio si erano diffuse voci allarmanti che contribuivano a diffondere e a radicalizzare l’idea della fine del mondo. Sin dalla primavera parecchi astronomi avevano annunciato di avere avvistato nei loro telescopi delle misteriose macchie solari. Da maggio a giugno dette macchie divennero così grandi da poter essere percepite a occhio nudo. La gente le guardava attraverso gli occhiali affumicati e in un battibaleno si diffusero voci tra Francia, Svizzera e Inghilterra che il sole stava morendo o che, in alternativa, un frammento di sole si sarebbe presto staccato per precipitare sulla Terra. I quotidiani, per quanto possibile, tentarono di arginare la paura collettiva. Il 5 luglio, ad esempio, “La Gazette du Lausanne” pubblicò un lungo articolo per dimostrare che le macchie solari non costituivano affatto un pericolo. Il 17 dello stesso mese torme di ambulanti vendevano per le strade di Parigi un sinistro opuscolo dal titolo Dettagli sulla fine del mondo, assicurando che l’Apocalisse sarebbe iniziata il giorno successivo. «Il 18 luglio è passato senza intoppi», riferì laconicamente il giornale svizzero un paio di giorni dopo, «e quella giornata che doveva portare il definitivo cataclisma non ha offerto altro miracolo che il ritorno del bel tempo». Purtroppo si trattò di un effimero miglioramento. Ricominciò a piovere e non smise praticamente più per tutta l’estate.
E dire che proprio nel 1816, all’inizio di giugno, Jacques Augustine Galiffe, importante storico ginevrino si era azzardato a dichiarare pubblicamente, nero su bianco su un giornale: «Non c’è nulla al mondo che possa essere paragonato al nostro lago durante la bella stagione», beccato di sicuro a descrivere una delle due e tre giornate estive del 1816, una di quelle che incantarono Lord Byron convincendolo a fermarsi in Svizzera e ad affittare villa Diodati. La pioggia in Svizzera provocò invece vere e proprie mutazioni del paesaggio con la nascita di nuovi corsi d’acqua, esondazioni del Rodano e dello stesso lago di Ginevra (che inondò le zone basse della città, tanto che in quei quartieri non si poteva circolare che in barca), e il proverbiale nitore dei prati svizzeri si trasformò in breve in un poco rassicurante color verde marcio. A causa della temperatura rigida la gente accendeva fuochi in casa per scaldarsi e si verificarono parecchi incendi. Fu una delle estati più umide e più fredde a memoria degli svizzeri. Ma non andò meglio in Inghilterra e neppure in Francia, dove il poco grano che si riuscì a raccogliere raggiunse quotazioni record. Disastri si segnalavano sull’altra faccia del pianeta, ad esempio nel New England dove il freddo e mostruose bufere estive distrussero quasi tutto il mais, alimento base, e la maggior parte degli ortaggi. Migliaia di agricoltori fuggirono a ovest e molti morirono assiderati durante il viaggio.
Il pane in Svizzera, dopo l’agosto del 1816, divenne sempre più scarso. Il prezzo raddoppiò poi salì ancora. Al punto che i ristoranti richiedevano ai clienti di portarselo da casa. Il 30 agosto i funzionari di governo a Ginevra presero in considerazione l’acquisto di grano all’estero, al fine di mantenere un approvvigionamento adeguato in patria e mantenere i prezzi a un livello accessibile. Anche se le prime due settimane di settembre segnarono un miglioramento nelle condizioni del tempo, era ormai troppo tardi per le coltivazioni che furono piccole e di scarsa qualità. La conseguenza fu una lunga carestia.
Il primo a documentare già nel 1816 una relazione tra l’eruzione del Tambora, ma non solo, e il disastro – climatico e sociale – in Europa e nel mondo, fu William J. Humphreys, scienziato del Werther Bureau degli Stati Uniti, che dimostrò un rapporto diretto tra le eruzioni vulcaniche e gli squilibri climatici del pianeta. Il Tambora aveva sparato nell’atmosfera la più alta quantità di pulviscolo della storia ma va aggiunto che si erano verificate altre due gigantesche eruzioni in anni ancora precedenti: nel 1812 all’isola di St: Vincent e nel ’14 a Mayon nelle Filippine. La polvere provocata da queste esplosioni fece il giro della Terra nell’alta stratosfera per diversi anni, riflettendo la luce solare verso lo spazio e impedendo a una parte di essa di raggiungere il suolo. Nel 1816 questo globo di polvere vulcanica, arricchito dalle ceneri del Tambora, si distese sull’Europa.
Non occorre essere un climatologo per affermare che l’ambiente influenza i modelli comportamentali. Le lettere e i diari di Mary Shelley indicano quanto lei fosse sensibile all’ambiente e al clima. E in egual misura lo erano Byron e Percy. Tutta l’opera di Byron – dal Don Juan al Canto III del Childe Harold’s Pilgrimage fino all’incipit dell’inquietante poema Darkness, composto proprio a Villa Diodati – risente dell’influenza del clima. Quindici anni dopo l’estate del 1816, nella prefazione all’edizione del 1831 di Frankenstein, Mary ricorderà la “pioggia incessante” che giorno dopo giorno sentiva battere contro i vetri delle finestre di Villa Diodati, una pioggia così pesante e prolungata che il gruppo non riusciva quasi mai a uscire all’aperto. Percy Shelley ne fece ottima letteratura in Mont Blanc e Byron grande poesia, appunto, in Darkness.
Insomma, un inferno climatico che fornì la visualizzazione di un paesaggio misterioso, fatto di buio e di lampi (guizzi di elettricità impazzita…), oltre il quale un intero mondo stagnava in un’apocalisse d’acqua con notizie di nevicate fuori stagione, inondazioni e cataclismi da ogni dove: ecco il proscenio in cui presero vita Frankenstein e Il vampiro. Una volta che gli Shelley tentarono di attraversare il lago partendo dalla loro Maison Chappuis, incapparono «nel temporale più grande e terrificante» che avessero mai visto, con furiosi venti di tramontana, caratteristica abituale del tempo ginevrino in ben altre stagioni e che divennero la regola nell’estate del 1816. Da est a ovest, seguendo il corso del lago, le raffiche mulinavano grani di pioggia, a volte solidi perché misti a ghiaccio, prima di spegnersi su Ginevra. «Una pioggia che pareva eterna ci confinava dentro Villa Diodati», ebbe a scrivere Mary nelle sue lettere, «da lì guardavamo i temporali che si avvicinavano dal lato opposto del lago, osservando i giochi di luce tra le nuvole in diversi punti del cielo».
Per Byron e gli Shelley la furia della natura era una manifestazione del Sublime. Tempeste furiose e tuoni assordanti infondevano grandi sensazioni nella mente e nello spirito. La violenza della natura, sia visiva che sonora, era da loro apprezzatissima. Un altro motore del Sublime era, soprattutto per Mary, l’oscurità, e in questo concordava specularmente con Edmund Burke e con l’asserzione, più che mai in climax da Villa Diodati, che “nelle tenebre è impossibile stabilire in quale livello di sicurezza ci troviamo, e l’immaginazione si può scatenare.”[1] Questo è un un evidente effetto di “inconscio emerso in superficie”, per dirla con Lacan: in un contesto di buio coatto e di violenza assoluta della natura, visualizzata dall’immagine del fulmine e dal mistico perturbamento che ne segue, ecco scaturire sulla patina percepita l’immagine di un mostro in qualche modo collegato alla forza primordiale della luce elettrica provocata naturalmente. Temporali selvaggi e fulmini compaiono del resto in altre successive opere della Shelley, pregne di una forte carica simbolica, ad esempio in Mathilda (1819) o in The Last Man 1826), in cui la tempesta incarna l’inconoscibile, l’ignoto e il presagio di tragedia. E non andrebbe dimenticato che, negli otto anni che Mary e Percy trascorsero insieme, il tempo quasi sempre e ovunque fu disastroso. In Frankenstein i temporali appaiono quasi sempre nei momenti cruciali a determinare l’azione. E il fulmine conduce alla perdizione ma può anche portare alla creazione.
I temporali terrificanti cui Mary ha assistito a villa Diodati sono stati evidente fonte d’ispirazione. Perché, tutt’attorno in Europa, si percepiva l’Apocalisse. Così il bizzarro gruppo di apostoli dell’amore libero sembra, dalla nostra prospettiva contemporanea, riunirsi sulle sponde del lago di Ginevra per celebrare a modo loro la fine del mondo. Alla stregua quasi dei cortigiani di Prospero che attendono, al riparo nel castello del nobile, l’arrivo inevitabile della Morte Rossa.
[1] Edmund Burke, A Philosophical Inquiry into the Origin of Our Ideas of the Sublime and Beautiful, New Edition, G. & B. Whittaker, Londra, 1821, pag. 144. Edmund Burke fu filosofo e scrittore britannico (1729-1797), qui ricordato per il suo concetto di estetica del Sublime, nel quale tutto ciò che è in un certo senso terribile, o che agisce in modo analogo al terrore, può raggiungere le vette più alte della fascinazione. Così la natura, nei suoi aspetti più terrificanti, diventa fonte del Sublime, per le emozioni che produce e l’ispirazione artistica che riesce a infondere.