di Leandro Piantini
Giorgio Falco, L’ubicazione del bene, Torino, Einaudi Stile libero, 2009, pp. 141, € 16,00.
Racconti di periferia metropolitana, tutti ambientati a Cortesforza alle porte di Milano. Ogni racconto mette al centro un problema della vita d’oggi: la crisi economica, la perdita del lavoro, non riuscire più a pagare il mutuo, case pignorate, matrimoni che vanno in pezzi ecc. C’è un sapore amaro che potrebbe ricordare le vicende metropolitane di cinquant’anni fa raccontate da Calvino nella serie di Marcovaldo. Ma allora era il neocapitalismo con le sue novità e le sue meraviglie che entrava nella vita degli ex contadini abituati alla lentezza della campagna, e che poteva creare disagi ma soprattutto divertimento e simpatia.
Ora invece – in questo territorio “in florida rovina” – le novità sono tutte al negativo. Se il libro di Falco ci dice qualcosa di importante sul piano sociale questo è, per esempio, che la generazione precedente ai trentenni d’oggi se la passava molto meglio. I genitori si potevano permettere di acquistare due appartamenti mentre i loro figli se li sognano. Chi da queste situazioni risulta stare meglio sono soprattutto i pensionati maschi, che fanno mille traffici e lavorano otto ore al giorno.
Non c’è solo quadro sociale in questi racconti algidi e geometrici, circola qualcosa di blandamente metafisico, un’aria poco rassicurante anche se non veramente minacciosa, in queste strane vicende. I cambiamenti avvenuti hanno prodotto uno stile di vita americaneggiante e un po’ nazista per cui, se putacaso a qualcuno muore un cane, diventa un’impresa sovrumana seppellirlo, se poi lo vuol cremare le ditte specializzate impongono condizioni così proibitive come se a venir cremata fosse la nonna. Dunque il massimo della perfezione unito al massimo dell’assurdo – e del costo. La situazione prospettata è quella di un’insicurezza generale unita ad un’organizzazione della vita sociale la cui spietata razionalità sembra partorita dalla mente di Kafka e di Beckett messi insieme.
Quello che dà un ritmo pressoché perfetto a questi racconti stravaganti e surreali sono l’esattezza dei referti sociologici e l’elegante snobismo dei tanti tecnicismi che vi compaiono.
Troviamo dei dialoghi da far accapponare la pelle su quello che mangiano i serpenti da appartamento. “Però non esageri. Vado contro i miei interessi, non gli dia troppo cibo. Un serpente non è un bambino o un cane. Milano è piena di serpenti grassi. C’è gente che ingozza il serpente anche quando cambia muta”. C’è poi l’orrenda storia dei pulcini, anch’ essi ottimo cibo per serpenti, specie i pulcini congelati, e Paolo, il protagonista del racconto La gente è più forte di tutto, ne compra un quantitativo enorme di dieci chilogrammi. Ci è chiaro a questo punto perché i suoi genitori lo hanno fatto internare e ottengono dal tribunale che venga inabilitato.
Alcuni hanno criticato il fatto che non viene detto chiaramente che L’ubicazione del bene è una raccolta di racconti e non un romanzo. In fondo a me pare che questo non cambi molto le cose dato che il libro funziona proprio come un romanzo, con i vari pezzi che formano le tessere di un unico mosaico: un inferno metropolitano dove dominano la paura del futuro e il generale impoverimento.
Il libro getta uno sguardo spietato sull’oggi ma con delle impennate di scrittura stralunata, alla Beckett, quando per esempio si racconta di una sorta di impazzimento collettivo che esplode nella testa di alcuni personaggi.
Qualcuno ha tacciato il libro di maschilismo. La verità è che non troviamo in queste pagine né donne né uomini felici. Sono tutti sulla stessa barca – una barca che sembra squassata da venti che non promettono nulla di buono. E dunque non si vede il motivo per cui le donne dovrebbero essere più ottimiste, più generose, più fantasiose e misericordiose degli uomini — per la verità assai grami e sfigati – che compaiono in questi racconti.