di Franco Pezzini

Il golem di Victor 6[“Cominciato la mia storia di fantasmi dopo il tè”, scrive nel proprio diario alla data 18 giugno 1816 John William Polidori: e ai giorni immediatamente precedenti risale la famosa sfida letteraria idealmente a monte del fantastico moderno. Duecento anni dopo la fatale vacanza a Villa Diodati si propone qui un brano dai testi di ‘TuttoFrankenstein’, un ciclo di incontri a Torino sul romanzo di Mary Shelley conclusosi appropriatamente nella serata del 17 giugno: il passo qui commentato riguarda la scena del destarsi della Creatura. Per la traduzione utilizzo l’edizione Einaudi 2011.]

Fu in una cupa notte di novembre che vidi il coronamento delle mie fatiche. Con un’ansia che assomigliava all’angoscia, raccolsi attorno a me gli strumenti atti a infondere la scintilla di vita nell’essere inanimato che giaceva ai miei piedi. Era già l’una del mattino; la pioggia batteva sinistra sui vetri e la candela avrebbe presto dato i suoi ultimi guizzi quando, alla luce che stava per spegnersi, vidi aprirsi i foschi occhi gialli della creatura; un ansito e un moto convulso le agitarono le membra.
Come descrivere le mie emozioni dinanzi a questa catastrofe, o come dare un’idea dell’infelice che, con cura e pene infinite, mi ero sforzato di creare? Le sue membra erano proporzionate, e avevo scelto i suoi lineamenti in modo che risultassero belli. Belli! Gran Dio! La sua pelle giallastra copriva a malapena la trama sottostante dei muscoli e delle arterie; i suoi capelli erano folti e di un nero lucente, i suoi denti di un bianco perlaceo; ma questi pregi non facevano che rendere più orribile il contrasto con quegli occhi acquosi, che apparivano quasi dello stesso colore delle orbite biancastre in cui erano collocati, con la pelle grinzosa e le labbra nere e tirate.

È emozionante vedere questa pagina del manoscritto (sia pure in foto, sul sito Abinger papers, Dep. c. 477, fol. 21r, Bodleian Library, University of Oxford), con la grafia di Mary e le correzioni di Percy: da un punto di vista materiale il vero inizio del romanzo, come racconta Mary stessa nell’Introduzione all’edizione 1831. E con questo passo straordinario inizia l’avventura nel mondo dell’essere qui definito la “creatura” (“creature”): dove la stessa mancanza di un nome parrebbe indicativa di un rigetto. È un po’ come se Mary, figlia di una coppia innamorata con tutta la relativa fecondità emotiva, figlia di una madre morta per averla data alla luce, mostrasse il diverso stile di una nascita senza madre: non nel senso ovviamente dell’odierno dibattito sul gender, ma in quello simbolico “tradizionale” dei ruoli di padre e madre. Una nascita blasfema – un assemblaggio di pezzi morti, un anti-natale – nel segno dell’angoscia e non della gioia; un generare solo col cervello, con l’orgoglio e con quel senso di potere e normatività “paterna” al cui stile non sfugge Victor stesso (“Nessun padre avrebbe avuto diritto – ecco il termine – a una gratitudine così totale da parte dei figli come quella che io avrei meritato da loro”) e poi subito pronto a mutarsi in abbandono per delusione.
Consideriamo che il cap. V è rimasto quasi invariato dalla prima edizione 1818 (dove semplicemente si trattava del cap. IV), e soffermiamoci sui dettagli. Il tempo: una nascita in “una cupa notte di novembre”, anzi “l’una del mattino” in una notte livida di pioggia, a evocare cioè non un’alba simbolica ma un inizio nella notte fonda dell’anima. Le emozioni: “un’ansia che assomigliava all’angoscia”, ben diversa dai dolori del travaglio aperti però alla gioia. L’attrezzatura: “raccolsi attorno a me gli strumenti atti a infondere la scintilla di vita”, cioè in apparenza l’apparecchiatura leggera di pratiche galvaniche – sia pure fantasticamente reinventate, con batterie e forse muscoli animali collegati con cavi; e d’altronde in quel raccogliere gli strumenti sembra evocato il muoversi dei vecchi medici che radunano il necessario (bacinelle, forcipi, attrezzi per suturare) per far partorire in casa. La postura della creatura: che non sta affatto su fantastici letti steampunk, magari elevabili con funi e catene verso il tetto a ricevere l’energia del fulmine, mentre qui si parla di un “essere inanimato che giaceva ai miei piedi”. Cioè simbolicamente a terra per esserne tratto, un Adamo farlocco che è un coacervo di carni rabberciate, di ossa ficcate alla meglio, di parti anatomiche dilatate artigianalmente per semplificare il lavoro.
Sembra densa di valore simbolico anche quella candela che sta per spegnersi quando “vidi aprirsi i foschi occhi gialli della creatura; un ansito e un moto convulso le agitarono le membra”, come nel resoconto del famoso esperimento di Giovanni Aldini o in un risveglio traumatico da un incubo. Ed è allora che – tornando nuovamente al Genesi – “si aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi” (3, 7): non Adamo e la complice, che però è anche compagna, aiuto e consolazione, ma il falso Adamo e il falso creatore, ciascuno abbandonato alla propria solitudine. Uno che apre occhi morti, l’altro che finalmente si rende conto, e vede sconvolto ciò che ha animato. Sì, membra proporzionate, e tratti scelti “in modo che risultassero belli”: ma la bellezza che per Victor è probabilmente ancora quella neoclassica ha dovuto fare i conti con la messa in macchina, con la pelle necessariamente ingiallita (e qui vengono in mente certe immagini di antichi volumi anatomici, Il golem di Victor 2come quella barocca della pelle di un cadavere appeso in mostra – testa, mani e piedi penzolanti dall’epidermide staccata – che funge da cartiglio per il frontespizio dell’Anatomia reformata di Thomas Bartholin, 1655) fin troppo tirata per coprire l’intreccio di muscoli e arterie da macchina anatomica di carne. Sì, capelli nerissimi e denti bianchissimi sembrano belli – quasi finti nel loro esser morti – ma rendono “più orribile il contrasto con quegli occhi acquosi, che apparivano quasi dello stesso colore delle orbite biancastre in cui erano collocati”: perché la vitalità degli occhi è andata perduta. E in quel viso “la pelle grinzosa e le labbra nere e tirate” sono – a dispetto della scelta di cadaveri dai tratti regolari – il frutto di cuciture, tensioni di muscoli assemblati come si può, e un inevitabile processo di degradazione dei materiali pur nelle migliori condizioni di conservazione.
Victor ha “lavorato duramente per quasi due anni al solo scopo di infondere la vita a un corpo inanimato”, con un fanatismo assoluto e divorante, consumandosi: “ma ora che avevo finito, la bellezza del sogno svaniva, e il mio cuore si riempì di orrore e di un disgusto indicibili”. Subito prima aveva considerato che i sentimenti umani sono persino più mutevoli dei casi della vita: ma in realtà, a ben vedere, era lui a non essersi guardato dentro, a non aver interpretato l’angoscia che provava, a non essersi domandato se stava fissando la bellezza o non piuttosto il buco nero d’orgoglio del suo sogno febbrile.
E ci torna alla mente il brano in cui parlava della propria infanzia: l’amore della coppia che si fa “vera e propria miniera d’amore” riversata su di lui, mentre qui il suo orgoglio lo rende affettivamente sterile verso quel figlio; “le tenere carezze di mia madre e il benevolo sorriso compiaciuto di mio padre quando posava lo sguardo su di me costituiscono i miei primi ricordi”, mentre qui all’armeggiare galvanico è seguito lo sguardo inorridito del padre come primo, potenziale ricordo della creatura; l’Eden familiare in cui per i genitori Victor è stato “il loro giocattolo e il loro idolo, e qualcosa di più – il loro bambino, la creatura inerme e innocente loro concessa dal cielo”, ma qui il cielo si è limitato a permettere la libertà di lui di costruirsi un giocattolo e un feticcio, un finto bambino (in realtà già adulto) che si rivelerà niente affatto inerme e perderà subito l’innocenza. Inevitabile dunque il paragone tra le due situazioni, di fronte a quest’atteggiamento anaffettivo del figlio/padre.
Ed è in questo istante di smarrimento che lo coglie una delle primissime immagini all’opera, quella del grande Theodor von Holst, il più prolifico illustratore inglese di romanzi tedeschi, dal frontespizio dell’edizione 1831: la Creatura a terra, nerboruta e col viso allucinato, tra uno scheletro, un panno e un libro, mentre alle spalle si intravede qualcosa come un macchinario; e sullo sfondo di una grande finestra gotica Victor con lo sguardo stravolto, che sta prendendo la porta per scappare.
Così il testo del ’18 e così quello identico del ’31: ma abbiamo detto che c’è un terzo testo a cui fare riferimento, cioè la descrizione/ricostruzione del sogno ispiratore di Mary nell’Introduction ’31. E che riporta:

La mia immaginazione, non richiesta, mi pervase e mi guidò, donando alle immagini che si affacciavano alla mia mente una lividezza di gran lunga superiore alle solite visioni delle fantasticherie. Vidi – con gli occhi chiusi, ma con una percezione mentale acuta – il pallido studioso di arti profane inginocchiato vicino alla cosa che aveva assemblato. Vidi l’orrenda sagoma di un uomo disteso, poi, all’entrata in funzione di un qualche potente macchinario, lo vidi dar segni di vita e fremere con un movimento impacciato, vivo solo a metà. Doveva essere spaventoso, perché spaventoso sarebbe stato l’effetto di ogni sforzo umano di scimmiottare lo stupendo meccanismo del Creatore del mondo. Il successo avrebbe terrorizzato l’artista, che sarebbe fuggito colmo d’orrore dall’orrido manufatto.

Dove acquisiamo qualche particolare in più, a cavallo tra ricordo e ricostruzione del medesimo. Il golem di Victor 3Anzitutto in quel “pallido studioso di arti profane inginocchiato vicino alla cosa che aveva assemblato” vediamo che non c’è un tavolo, ma Victor, pallido e presentato come una sorta di negromante, studioso di arti blasfeme, è in ginocchio accanto alla cosa che ha messo insieme. “Vidi l’orrenda sagoma di un uomo disteso, poi, all’entrata in funzione di un qualche potente macchinario, lo vidi dar segni di vita e fremere con un movimento impacciato, vivo solo a metà” (“I saw the hideous phantasm of a man stretched out, and then, on the working of some powerful engine, show signs of life, and stir with an uneasy, half vital motion”), con il possibile scarto tra l’attrezzatura leggera del romanzo e il “potente macchinario” qui evocato (e suggerito vagamente dall’incisione di von Holst); ma l’espressione sul moto con cui la creatura riprende una vita deminuta è ancora una volta coerente con i racconti dell’esperimento Aldini. Con una nota aggiuntiva, ora, sull’inevitabile mostruosità derivata dal “to mock the stupendous mechanism of the Creator of the world”; e – con un tocco di ironia nera – sul successo che “would terrify the artist; he would rush away from his odious handywork, horror-stricken”, come se il mostro fosse un’opera d’arte e Victor un artista.
E infatti, continua ora Victor nel romanzo, “Incapace di sopportare la vista dell’essere che avevo creato, mi precipitai fuori dalla stanza e camminai a lungo su e giù per la mia camera da letto, incapace di prender sonno”: e possiamo solo immaginare cosa confusamente gli stia esplodendo dentro. Mary in qualche modo lo esplicita nell’Introduction:

Avrebbe sperato che, lasciata a se stessa, la flebile scintilla della vita che aveva comunicato si sarebbe spenta; che quella cosa che aveva ricevuto un’imperfetta animazione, sarebbe tornata a essere materia inerte; e si sarebbe addormentato sperando che il silenzio della tomba avrebbe soffocato per sempre la breve esistenza dell’orrido cadavere a cui aveva guardato come alla culla della vita.

E infatti alla fine – riprendiamo il romanzo – Victor crolla, si getta sul letto vestito, si addormenta e sprofonda negli incubi.

Credetti di vedere Elizabeth che, nel fiore della salute, passeggiava per le strade di Ingolstadt. Felice e sorpreso la abbracciavo, ma le sue labbra, che le sfioravo nel primo bacio, assumevano il pallore livido della morte, i suoi lineamenti mutavano, ed ecco che io stringevo fra le braccia il cadavere di mia madre; un sudario nel ricopriva le forme, e io potevo vedere i vermi brulicare tra le pieghe della stoffa.

Questa scena è terribilmente forte. Consideriamo pure che nel 1818 il gotico ha già mostrato un più che ampio teatro di orrori: ma ciò che sconvolge il lettore del Frankenstein è l’innesto delle fantasie macabre – finora lontane dalla realtà coeva, e perse in un passato di castelli e di spettri ai limiti del grottesco – entro dimensioni della modernità, dalla scienza di punta al tessuto di emozioni di una società borghese. Fino a sogni come questo, che prefigura le confidenze agli analisti del secolo successivo.
Sembra emblematico che il primo bacio del romanzo avvenga, sia pure nella forma vicaria del sogno, a seguito del trauma del laboratorio. È come se quell’evento scioccante avesse sbloccato qualcosa nella vita del giovane intelligentissimo e un po’ represso che deve fare i conti con un modello ingombrante di perfezione familiare; e per la prima volta entra l’eros nel romanzo. Ma un eros nero, nerissimo: e del resto Frankenstein pare quasi una grande seduta psicoterapica in cui Mary butta fuori i grovigli che ha dentro, in forma metaforica e non conciliata, neppure forse cosciente. Butta fuori non solo gli strascichi della crisi seguita alla morte della prima figlia – evento precedente al romanzo, e forse saldato luttuosamente in lei al ricordo della prima completa esperienza sessuale; ma butta fuori, nelle edizioni successive e in particolare in quella del ’31, il dolore e lo smarrimento, il vuoto e l’orrore per il fiume di morti seguiti all’estate di Villa Diodati. In questo sogno non c’è il compiacimento provocatorio degli Scapigliati, con i loro baci macabri: lo smarrimento è autentico, i morti ora rianimati stanno dietro una fragile porta a fissare con occhi acquosi, e nel gioco di specchi dell’incubo di un incubo Frankenstein esprime qualcosa di straziatamente vero.
Il golem di Victor 5D’altronde anche il sogno di Victor così descritto è perturbantemente credibile: al punto che possiamo domandarci se Mary non stia presentando sotto il velo narrativo qualcosa di conturbante vissuto davvero in sogno – da lei o piuttosto da Percy. Nell’Introduzione ’31, dove Mary (guarda caso) sta parlando di un altro sogno proprio sugli eventi di questa porzione di romanzo, non si fa cenno in nessun punto di tale fantasia onirica di Victor. Ma a ben vedere non è neppure necessario che si tratti di un’esperienza vissuta: ben prima di Freud, Mary potrebbe aver colto nei rapporti di suo marito col Femminile una confusione che noi classifichiamo in modo più strutturato come conflitto di Edipo. La vivacità delle frequentazioni tra Percy e le donne è stata letta da alcuni critici freudiani come desiderio edipico irrisolto di possedere la madre molto più giovane del padre – proprio come nel caso di Victor, specialmente nella versione ‘31. Nei versi di una già citata opera di Percy in qualche modo vicina al Frankenstein, cioè il poema Alastor, il desiderio di tornare alla tomba quale grembo della Madre Terra è stato interpretato in chiave edipica; ma soprattutto sembra interessante notare che il nome della partner di Victor che nell’incubo metamorfizza in sua madre, Elizabeth, è lo stesso dell’amata sorella che con Percy scrive poesie e insieme della loro madre, già a prefigurare una situazione di potenziale confusione. Nel romanzo, Elizabeth subentra alla zia adottiva Caroline in un ministero accuditivo della famiglia, anzi è come se Caroline morendo si incarnasse in lei attribuendole il proprio ruolo e consegnandola in sposa al figlio Victor: entrambe avvenenti e sensibili, entrambe votate al sacrificio, entrambe donne-angelo. Nella realtà Elizabeth/madre ed Elizabeth/sorella sono volti dell’Eden familiare che Percy ripudia con la sua vita libera, ma ancora presenti in forma irrisolta nella sua vita interiore: o così almeno Mary sembra adombrare.
Qualche ulteriore conferma la troveremo più avanti; ma anche senza insistere in una lettura freudiana (pure tanto promettente),

Mi svegliai di soprassalto, inorridito; un sudore gelido mi copriva la fronte, i denti mi battevano, tremavo convulso in tutte le membra; poi, al chiarore incerto e giallo della luna che filtrava attraverso le imposte, mi vidi davanti lo sciagurato, il miserabile mostro che io avevo creato. Teneva sollevate le cortine del letto, e i suoi occhi, se occhi si possono chiamare, erano fissi su di me. Dischiuse le mascelle e mormorò qualche suono inarticolato, mentre un ghigno gli contraeva le guance. Forse parlò, ma io non lo sentii; aveva una mano tesa in avanti, forse per trattenermi, ma fuggii e mi precipitai giù per le scale. Mi rifugiai nel cortile della casa dove abitavo, e lì rimasi per il resto della notte, camminando su e giù in preda alla più grande agitazione, tendendo l’orecchio e sussultando di paura a ogni rumore, quasi esso mi annunciasse l’avvicinarsi del demoniaco cadavere al quale così follemente avevo dato la vita.
Oh, nessun mortale avrebbe potuto reggere all’orrore di quel volto! Una mummia ritornata a vita non avrebbe potuto essere più spaventosa. Lo avevo osservato quando era incompiuto: era già brutto allora; ma quando muscoli e giunture erano stati resi capaci di moto, era diventato qualcosa che neppure Dante avrebbe saputo concepire.

Anche questa scena, pure tratta dall’incubo narrato da Mary nell’Introduzione (“Dorme; ma qualcosa lo sveglia; apre gli occhi; vede che l’orrida cosa è a fianco del letto, apre le cortine e lo guarda con occhi gialli e acquosi ma pieni di domande”), e che si può considerare nella sua onirica e raggelante efficacia una delle scene-chiave del fantastico di tutti i tempi, ha una fortissima valenza emotiva. Come un incubus da quadro di Füssli, o un brutto sogno evaso dai limiti della dimensione onirica, ecco la creatura occhieggiare dalle cortine del letto; Victor che pensava di essere sfuggito all’orrore di cadaveri del proprio incubo vi viene riprecipitato, e in modo molto più traumatico perché questa è la realtà e l’ha costruita lui; come prima era Victor a veder aprire gli occhi della creatura ora succede l’inverso, a stabilire un parallelismo che è anche allarmante rifrazione – e non solo perché il presunto creatore è in realtà creatura quanto l’altro.
Una con/fusione tra i due e un virtuale rapporto di rifrazione che evocano una serie di suggestioni, su cui occorre tornare nel corso dell’itinerario sul romanzo: il “mostro” come Doppio di Victor, come sua Ombra e come Perturbante (suggestivo pensare che il Frankenstein sia coevo di uno dei testi-base della riflessione sul Perturbante, Der Sandmann di E. T. A. Hoffmann, scritto nel 1816 e pubblicato l’anno seguente), come suo demone custode e nemesi personale.
Itinerari nel Frankenstein 1Ma in fondo un aspetto di questo rapporto di doppio/rifrazione sta nella stessa confusione poi consumata a livello popolare su “Frankenstein” come nome di Victor o piuttosto della sua innominata prole. Una confusione documentata fin dall’Ottocento (per esempio tra le pagine del romanzo Mary Barton di Elizabeth Gaskell, 1848, poi in un’opera di Edith Wharton, The Reef, 1916), e consacrata nella versione teatrale del Frankenstein di Peggy Webling, 1927 (ritoccata 1930), dove Victor attribuisce il proprio cognome alla Creatura: ma assurta la versione-Webling a base della sceneggiatura del film 1931 di James Whale, capostipite di un’intera serie Universal dove pure il mostro non ha nome, l’uso popolare troverà conferma attraverso richiami impliciti in titoli quali Bride of Frankenstein, 1935 – dove si gioca di rifrazioni tra la sposa dell’inventore e quella della creatura. Una tentazione del resto tanto più forte a considerare la scomoda varietà di epiteti generici, in gran parte offensivi, che l’innominato essere incassa nel corso del romanzo.
D’altra parte, nonostante il coinvolgimento nelle emozioni di Victor, iniziamo a nutrire il sospetto di una fondamentale incomprensione, di un tragico strabismo. Un’incomprensione nei confronti di colui che è etimologicamente infante, non sa parlare (“Dischiuse le mascelle e mormorò qualche suono inarticolato, mentre un ghigno gli contraeva le guance. Forse parlò, ma io non lo sentii”); un’incomprensione della sua gestualità (“aveva una mano tesa in avanti, forse per trattenermi”); un’incomprensione del senso dello stesso sguardo della Creatura (“i suoi occhi, se occhi si possono chiamare, erano fissi su di me”), su cui Mary torna nell’Introduction (“l’orrida cosa […] lo guarda con occhi gialli e acquosi ma pieni di domande”). Un’incomprensione che attraverso orrore e paura spalanca il rifiuto.
Paradossalmente noto a Victor fin nelle sue fibre costitutive (quasi in una contraffazione blasfema del Salmo 138 [139]: “Sei tu che hai formato i miei reni / e mi hai tessuto nel grembo di mia madre. // Io ti rendo grazie: / hai fatto di me una meraviglia stupenda; / meravigliose sono le tue opere, / le riconosce pienamente l’anima mia. // Non ti erano nascoste le mie ossa / quando venivo formato nel segreto, / ricamato nelle profondità della terra. / Ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi; / erano tutti scritti nel tuo libro i giorni che furono fissati / quando ancora non ne esisteva uno” – si noti che l’espressione ebraica galmi qui usato per “[massa] ancora informe/embrione” può tradursi letteralmente “mio golem”), pur essendo insomma più che noto al suo costruttore, il “mostro” appare invece a Victor il radicalmente sconosciuto, l’altro da temere.
È anzi interessante notare come questa creatura, sconvolgente epifania del mostruoso agli occhi del suo stesso costruttore, sussuma in poche righe altre due categorie teratologiche alla quali oggi tendiamo a dare nomi diversi. Parlando infatti di “demoniaco cadavere al quale così follemente avevo dato la vita” (“demoniacal corpse to which I had so miserably given life”, così già nel ‘18) – una definizione riduttiva, perché si tratta di ben più di un cadavere, ma insieme estensiva per quell’aggettivo demoniaco – già prefigura l’horror di zombie, cadaveri resi attivi (virtualmente) con il ricorso a potenze infere; e più avanti, affermando che “Una mummia ritornata a vita non avrebbe potuto essere più spaventosa” (“A mummy again endued with animation could not be so hideous as that wretch”, così già nel ‘18), sembra ammiccare a un altro protagonista dell’immaginario moderno, la mummia reviviscente. Che in effetti ha idealmente radici già all’epoca: se le campagne napoleoniche hanno portato in Europa la cosiddetta egittomania – dall’arte pubblica dei monumenti, che disseminano Parigi di sfingi e obelischi, a quella privata dell’arredamento che invita i faraoni nei salotti borghesi – già all’epoca le mummie (ennesimo modo di garantire una qualche resistenza del corpo al tempo) suscitano fascino e brividi. Pensiamo al leopardiano Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, 1824; ma pensiamo anche a quel protoconnubio di mummie e fantascienza offerto dalla scrittrice inglese Jane C. Loudon in The Mummy!: Or a Tale of the Twenty-Second Century, 1827, dove la storia della mummia Cheops riportata alla vita nell’anno 2126 rilegge liberamente (in chiave conservatrice) suggestioni del Frankenstein e storie di maledizioni egizie. Il faraone che l’eroe e i suoi amici hanno sciaguratamente risvegliato (guarda caso) con l’elettricità riesce a fuggirsene in pallone verso l’Inghilterra andandosi a ficcare in complicate beghe per il trono; e solo dopo una mole di pagine deciderà infine di tornarsene alla tomba.
Ma nel nostro testo c’è un altro richiamo interessante subito dopo: “Oh, nessun mortale avrebbe potuto reggere all’orrore di quel volto!” (“Oh! no mortal could support the horror of that countenance”, così già nel ‘18), dove il mostro alluso è addirittura la Gorgone: e questo è particolarmente interessante solo a pensare al peso simbolico che negli anni del Terrore rivoluzionario in Francia e successivi ha il volto pietrificante della maschera di Medusa. Attraverso l’icona della sua testa tagliata, la Gorgone del Terrore è assurta a figura della “libertà alla francese” (eventualmente in opposizione alla saggia ed equilibrata Atena suo contraltare “all’inglese”) non solo nel dibattito intellettuale, ma in un simbolismo molto più popolare e diffuso attraverso stampe e persino oggettistica rivoluzionaria. Dove l’ossessiva riproduzione della testa mozza – in particolare il gorgoneion della testa del re – reca una confusa e arcaicissima nebulosa di simboli, ma richiama in termini diretti al mito di Perseo; e la scelta della definizione di terrore nella narrativa gotica inglese vede quell’ombra estendersi oltre la Manica. Percy stesso, più avanti, si soffermerà sul tema in On the Medusa of Leonardo da Vinci, in the Florentine Gallery, 1819. Ravvisando dunque nella Creatura un volto – per metafora – gorgonico, l’autrice evoca sottotesto un fortissimo brivido d’epoca.
Ma non ci si ferma al viso: quell’essere, già brutto quando incompiuto – ecco che Victor se ne rende conto, l’aveva già notato ma come senza riuscire a portarlo alla coscienza – una volta messa in moto l’assurda macchina anatomica di muscoli e giunture “era diventato qualcosa che neppure Dante avrebbe saputo concepire”. Le suggestioni dantesche sono al tempo note anche al di là dei giri di intellettuali, e in questo caso il pensiero va alle epopee di nudità contorte e devastate dei dannati: le riletture delle anatomie classiche in autori d’epoca come Füssli e Blake (entrambi illustratori di Dante) mostrano anche un nuovo modo di porsi rispetto al corpo, sì statuario ma energizzato fino alla teatralità o alla ritualità più plastica. La creatura però, nel suo innaturale muoversi, sembra andar oltre tutto questo.
Il golem di Victor 7E Victor fugge. E il suo orrore è proprio quello manifesto in certe espressioni sconvolte dei dipinti di Füssli, von Holst o nel Caino di Blake (The Body of Abel Found by Adam and Eve, circa 1826): un terrore allucinato fino alla follia e alla demenza. Fugge all’aperto in cortile, passa una notte terribile: “In certi momenti il mio polso batteva così rapido e forte che sentivo palpitare ogni arteria”, quasi a sentire per proiezione la propria macchina anatomica di nervi, vene, pompa cardiaca; “in altri momenti quasi mi accasciavo a terra per il languore e l’estrema debolezza”, come un corpo non più animato o un burattino di carne. E irrompe con tutta la violenza di due anni di sogni abortiti la delusione più nera.
Ma in questa fuga di Victor – una fuga duplice, prima dal laboratorio e poi nuovamente dalla camera da letto – è stato visto dell’altro. Durante la gravidanza per la prima figlia, Mary si è trovata molto sola mentre Percy continuava a vedersi con la birichina Claire, sorellastra di lei; e anche nelle due difficili settimane di vita della piccola, nata prematura, Mary ha avuto netta la sensazione che Percy non si curasse granché della piccola. L’irresponsabilità di Victor verso la Creatura che l’ha cercato come un bambino potrebbe fare con un genitore, può in fondo essere intesa come la stessa irresponsabilità e poca cura di Percy verso la sua prima figlia. E verso la stessa Mary, che non a caso alla morte della bimba chiama sul posto il pacato e responsabile amico Hogg, mentre Percy ha perso un po’ la testa come Victor (“Will you come—you are so calm a creature & Shelley is afraid of a fever from the milk—for I am no longer a mother now”: lettera 6 marzo 1815). Mary cade in quel periodo in preda alla depressione, innescata certo da quella post partum, ma non migliorata dalla sensazione di un disinteresse continuato di Percy per la creaturina e la sua tragedia – una situazione generale che può ben proiettarsi nella scelta di abbandono della Creatura da parte di Victor. E del resto quello della responsabilità è uno dei temi-chiave del Frankenstein.

 

 

la-notte-di-villa-diodati-2011-copertina[NOTA. I testi principali frutto della sfida del giugno 1816 – cioè il Frankenstein di Mary Shelley (nella versione ‘31), The Vampyre di John William Polidori e The Burial: A Fragment di Lord Byron sono stati riuniti in traduzione qualche anno fa nel bel volume La notte di villa Diodati, per i tipi Nova Delphi (2011, pp. 388), cui senz’altro si rimanda. Tanto più che a coronarli è un grande saggio di Danilo Arona, Villa Diodati Horror Show (Prometeo, Edipo ed Ecate contro il Vampiro), dove l’autore affronta da par suo i grovigli relazionali tra i protagonisti, con un po’ di ghiotti retroscena e un’analisi dei meccanismi mitopoietici in gioco. Un breve estratto del saggio è già apparso qui.
Si rammenta che lo stesso editore romano – il cui ricco catalogo comprende collane sul pensiero libertario (compreso un intero progetto dedicato a Sacco e Vanzetti), sull’America Latina e sul passato italiano più recente – ha offerto alle stampe anche una traduzione di Fantasmagoriana, il testo letto dagli ospiti di Villa Diodati, con l’ottimo commento di Fabio Camilletti, 2015, cfr. qui.]