di Andrea Searle Villarroel

migranti_mellila_tagliata.jpg[Sarebbe riduttivo definire Andrea Searle solo come una donna migrante. Andrea, assieme a tante donne venute a vivere in Italia, rovescia clamorosamente lo stereotipo costruito dai media sulle migranti. Dietro di lei c’è l’esperienza della docenza universitaria a Città del Messico, anni di lavoro politico prima in Cile, poi nel Chiapas – quando ha seguito progetti di sviluppo rurale con gli indigeni e ha fondato una Ong – per approdare infine a Oaxaca, dove ha partecipato a una delle più interessanti forme di mobilitazione popolare di cui abbiamo dato conto su Carmilla] A.P.

L’obiettivo di questo articolo è riflettere sulle nuove forme di pensiero politico che possono scaturire dal fenomeno migratorio, una realtà contrastata dal discorso di molteplici correnti politiche di destra che rappresentano l’immigrazione come un pericolo per la società e il territorio, criminalizzando i migranti e trasformandoli in una delle ragioni della povertà e della perdita di posti di lavoro. Di fatto, in quanto migrante, sono stata testimone di svariate campagne elettorali, sia in Messico che in Cile e infine in Italia, in cui le forze di destra e di centro hanno preso in forma ricorrente come bandiera delle loro strategie discorsive il tema delle migrazioni.

Nel caso del Messico si parlava di difendere i migranti messicani che attraversavano la frontiera settentrionale per entrare negli Stati Uniti, ma a sua volta si criminalizzavano e perseguitavano tutti quegli stranieri — soprattutto centroamericani — che transitavano nel paese. Nel caso del Cile si trattava di criminalizzare i vicini che arrivavano perlopiù dal Perù e dalla Bolivia, considerati inclini a commettere attività illecite, caricando ogni discorso dei miei connazionali con una forte dose di razzismo. Infine in questi ultimi tempi sto vivendo sotto un bombardamento di messaggi razzisti e classisti in Italia, diretti particolarmente contro gli “extracomunitari”, siano europei dell’est, africani o latinoamericani.

Su quali argomenti si fonda questa xenofobia discorsiva e d’azione che induce la gente — in questo caso elettori e cittadini/e — a formarsi un’idea errata della migrazione? In primo luogo sull’idea che se non ci sono posti di lavoro per gli autoctoni, tanto meno ce ne saranno per gli stranieri; in secondo luogo sulla convinzione che gli “extracomunitari” che arrivano sono necessariamente persone con un’istruzione minore di quella di chi è nato nel paese d’accoglienza; infine sul fatto che, in ogni modo, meglio che se ne stiano nel loro paese d’origine.

Ma credo che questi politici che rappresentano in maniera diversa ma sempre negativa l’immigrazione verso i loro paesi si dimenticano che oggi, come nel passato, questi tre popoli — messicani, cileni e italiani — hanno, in maniera distinta, una tradizione migratoria piuttosto profonda. E che quando i loro connazionali partivano — o partono — verso paesi stranieri, partivano pieni di speranza, o pieni di tristezza perché dovevano abbandonare il loro paese, o pieni di responsabilità, o pieni di trasformazioni. Infine, pieni di una cultura e di pensieri diversi.

Non si possono fare generalizzazioni quando si parla di migrazioni, perché esistono tanti tipi di migranti e di percorsi migratori. Pertanto penalizzare le migrazioni in quanto tali significa pretendere di chiudere i paesi e le culture contro nuovi cambiamenti. In particolar modo, contro i cambiamenti politici.
Non tutti i migranti extracomunitari sono delinquenti, o trafficanti di droga, o prostitute. Non tutti i peruviani sono trafficanti di denaro o di telefoni cellulari. Non tutti i messicani sono “narcos”. Potrei scrivere pagine intere piene di pregiudizi e stereotipi attribuiti alle diverse nazionalità: quello che voglio dire è che ancora oggi ci sono luoghi del pianeta in cui si concentrano la ricchezza e la povertà, la miseria e la bella vita. Per questo è ovvio che se la gente del Salvador o dell’Honduras vive nella miseria, dopo la guerra degli anni Ottanta portata a termine dal governo degli Stati Uniti, deve avere l’opzione di uscire dal paese, perché qui si tratta di fuggire o morire.

Quando dico poi che le migrazioni sono importanti soprattutto a livello politico, mi riferisco alla necessità che sentiamo tutti oggi, in questo mondo, di trasformare la nostra realtà, nel nostro paese come negli altri. Sentiamo in maniera quasi angosciante il bisogno di possibilità diverse di vita, di esistenze che nascano da uno sviluppo reale, liberamente scelto, in cui non ci sia posto per lo sfruttamento.

Ma come si può porre questa istanza a livello di politiche pubbliche se nelle proposte politiche non si prende in considerazione l’evidente necessità di intercambiare i modelli, di aprire le frontiere, di depenalizzare la libertà e per ultimo di redistribuire quella ricchezza che i pochi guadagnano sulla pelle dei molti? A questo punto mi domando se la politica fatta oggi da quelli che formalmente sono chiamati “politici” non sia altro che l’amministrazione della ricchezza dei ricchi e la contenzione sociale dei poveri.

Assieme a questo, le correnti localiste di molti paesi si difendono dietro un pensiero identitario e nazionalista, un ritorno al passato in cui sperano di salvarsi dalla povertà e dalla distruzione che si avvicina senza rendersi conto che questa chiusura identitaria trasforma le culture e i territori in musei impraticabili.

Ad esempio, quando si parla di indigeni l’identità è un concetto binario: da un lato riafferma l’individuo e i suoi principi nella cultura d’origine; dall’altro i cambiamenti necessari, come nel campo delle discriminazioni di genere, tra classi di età e nella politica sono lenti e fanno parte di un’intromissione “occidentale” a volte mal vista.
Anche a livello legislativo è necessario costruire delle leggi sulle tematiche indigeniste, ma molte volte questa legge, come quella in vigore in Cile e in Messico, diventa una camicia di forza piuttosto stretta.

Credo che abbiamo superato — mi riferisco alla società in genere, inclusa quella “occidentale” – una visione paradossale della destrutturazione, o della decodificazione culturale, per lasciare il passo a qualcosa di nuovo, qualcosa che abbiamo vissuto a livello mondiale. Parlo di destrutturazione nel senso che la cultura non è qualcosa di statico, ma è la risultante delle relazioni sociali, una costruzione dialettica tra poteri e contropoteri sociali in lotta costante. Per questo possiamo unirla in maniera stretta col campo politico e vederla come un riflesso delle relazioni di potere che si danno in tutte le società.

Da questo punto di vista possiamo costruire, a partire dalle migrazioni, il meticciato e i processi di intercambio dialettico e culturale, opzioni politiche e di governo insomma che siano adeguate alla realtà. Una realtà piena di sfide rispetto alla sopravvivenza, la permanenza e lo sviluppo. Quanto sopra è in relazione col concetto di “Babel Feliz” (1), un tema elaborato da Marc Tibaldi, che prospetta un mondo in cui il divenire è contrassegnato dalla polifonia dell’evoluzione, dall’eliminazione della frontiera tra lingua e parola, nel caso concreto della comunicazione planetaria.

È possibile tutto questo?

Credo sia possibile nella misura in cui educhiamo profondamente noi stessi alla decodificazione culturale. E questo anche a livello linguistico, sennò in quale altra maniera potremmo comunicare con persone che parlano altre lingue e possiedono culture diverse senza cadere nella discriminazione, o nella semplificazione o nella mancanza di comprensione. Al riguardo Tibaldi sostiene che la lingua come momento di conoscenza collettiva già appresa non si può né creare né modificare. Ma la parola sì, in quanto aspetto individuale e creativo dell’essere umano, in quanto atto di intelligenza.

Possiamo concludere questo articolo sostenendo che la comunicazione, la comprensione, la tolleranza, l’intercambio di idee e sistemi politici e infine il meticciato, in quanto atto ideologico, culturale e anche biologico, domandano di per sé una grande intelligenza umana tradotta in apertura e solidarietà. Sostengo che tutti questi attributi, che coinvolgono anche l’etica e soprattutto l’immaginazione, sono necessari per trasformare la realtà di un mondo in cui l’intercambio, il passaggio e la trasgressione delle frontiere non patiscano un’involuzione.

“La trasgressione delle frontiere esistenti e la loro contestazione possono ispirare una nuova forma di cittadinanza che permetta la coabitazione dei diversi e che consenta alla singolarità di farsi comunità senza rivendicare una identità, di modo che gli esseri umani possano co-appartenere senza una condizione rappresentabile di appartenenza” (2). Questa può essere una delle sfide più difficili e insieme più costruttive per la politica attuale.

(1) Tibaldi, Marc. Metix babel felix. Meticciamiento, passing, divenire e conflitto, Udine: Kappa Vu, 2007, p. 103.
(2) Op. cit., p. 104.