T Cooper (questo il suo sito ufficiale) ha ventitré anni, un’infanzia allucinata in Los Angeles, un mentore messianico in un altro Cooper, Dennis. Il suo some of the parts ha conquistato pubblica e critica americana. Non è difficile capire perché: insieme a Trevis Jeppesen, T Cooper è la scoperta dell’autore di Ziggy, autentico talent scout della Akashic Books. Una produzione seriale, ma di qualità quella di Dennis Cooper: sia Jeppesen che TC sembrano cloni di JT Leroy – cloni d’eccellenza, sia chiaro. some of the parts è un cocktail mortale a base di lesbismo e transgenderismo, antideologia neoconservatrice, pompini, sieropositivi, suicidi, borderline in libertà, crimini tratti dalla cronaca. E’ un gran libro, anche per chi nutre legittime irritazioni davanti al facile puzzle di materiali consimili praticati dagli ultimi arrivati tra gli avantpopper. Abbiamo tradotto l’incipit del quarto capitolo del libro di T Cooper, proprio per dimostrare che il ragazzino non è soltanto frizzante ed eversivo – è maturo e affonda radici autentiche nel male umano.
da SOME OF THE PARTS
di T Cooper
Ho parlato a telefono pochi giorni fa col mio amico Bryan. Lavoravamo insieme a Life – lui in redazione, io nella produzione. E’ malato, Bryan: tumori al cervello. Tonnellate di tumori al cervello. Tutti e due disabili, ora, io e lui, ma per ragioni parecchio diverse. I tumori sono come stelle nella galassia delle lastre del suo cervello. Hanno nomi di stelle, perfino, come quelli delle astronavi nemiche in Guerre Stellari. Astrocytoma. Allarme rosso! Pericolo a dritta! Fuoco! Fuoco!
Bryan aveva preso un treno per il Minnesota per combattere le sue guerre stellari. Già non poteva più andare in aereo. Un anno intero, durò. Gli impiantarono piccoli semi radioattivi nel cervello. E poi aspettarono. E invece di stroncare i tumori, i piccoli semi radioattivi divorarono le poche cellule sane che gli restavano. Bryan disse che si sentiva speciale, perché lui era l’unico paziente a cui il suo dottore avesse mai levato i semi radioattivi. Speciale o no che fosse Bryan, questa comunque non era una buona notizia.
Bryan ci metteva una cifra a parlarmi. Quella che sarebbe stata normalmente una conversazione da venti minuti, Bryan ci impiegava un’ora per sostenerla. Me lo vedevo che cercava di reggere fascine, i circuiti integrati delle parole che gli andavano a terra come rami dalle braccia ogni volta che tentava di raccogliere quelli che gli erano appena caduti.
“Mi hanno scavato nella parte del cervello dedicata all’elaborazione del linguaggio” mi diceva. “Ho sbagliato parola. Volevo dire che ci hanno premuto sopra”. A volte dovevo aspettare dieci o quindici secondi tra una parola e l’altra. In media, dai tre ai cinque secondi. Il più delle volte, diciannove. Giuro, l’ho calcolato.
Non mi era del tutto chiaro quanto di lui fosse presente. Erano passati soltanto sei o sette mesi dall’ultima volta che avevamo parlato. Il vecchio Bryan era fin troppo sarcastico e corrosivo per avere una conversazione del tutto regolare. Ma non era quello che succedeva adesso. Adesso era come un bambino. Ogni cosa, una meraviglia, uno stupimento. Alla fine fine di ogni frase, un inspiegabile punto esclamativo. Prima pensavo che fosse una simpatica testa di cazzo, ora era letteralmente una testa di cazzo. Fosse toccato a me vivere una situazione del genere con ottimismo, avrei chiesto di esalare l’ultimo respiro.
“Ho toccato il mio nadir”, mi diceva. Usava sempre queste parole che dovevo controllare sul vocabolario, prima di essere davvero sicuro su cosa intendesse dire. Ecco perché lui lavorava come editoriale e io alla produzione. Ma questa volta me lo sentivo addosso che cosa voleva dire: c’erano già troppi indizi.