di Tommaso De Lorenzis
[Avevamo già recensito l’ autobiografia di Blackie Audett pubblicata dalle edizioni Odoya. Proponiamo ora l’introduzione al libro scritta da Tommaso De Lorenzis.]
«I delinquenti non possono vincere», scriveva Achille Battaglia nell’introduzione alla prima edizione italiana di Rap Sheet. Correva l’anno 1958 ed era trascorso un lustro da quando James Henry Audett, in arte Blackie, era tornato in una cella del penitenziario di Stato dell’Oregon per l’ennesima sospensione della libertà vigilata. Era scritto da qualche parte, tra le stelle dispensatrici di pene e contrappassi, che il principe della rapina a mano armata, l’Houdini degli istituti penali di massima sicurezza, il contrabbandiere recidivo, dovesse concludere le sue pirotecniche memorie al fresco. Ma anche a cinquant’anni suonati, consapevole della vecchiaia incombente, fiaccato da una grave malattia e con una tuta da galeotto addosso, il bandito non aveva perso il gusto dell’ironia. Così, quando arrivò il tempo di rimettere l’anima a dio, in tanti giurarono che — davanti alle oscure acque dell’Averno — Blackie avesse fatto fesso il Traghettatore e fornito false generalità a qualche satanasso-doganiere. Del resto, proprio alla fine di queste pagine, c’aveva tenuto a ricordare come niente vada escluso: neppure «una fuga da quella prigione in cui il direttore ha le corna e la coda».
Dovendosela vedere con un tanghero di tal fatta, non è difficile intuire perché — sul volgere dei Cinquanta — Battaglia si profondesse nell’esorcismo del trionfo dei fuorilegge. È un bene che non esista un’illiberale corrispondenza tra le forme della scrittura e le fattispecie del diritto penale. In caso contrario, il volume che avete tra le mani meriterebbe lo stigma dell’istigazione a delinquere. E questo malgrado i propositi dell’autore: sempre accorto a non spingere chicchessia sulla via del crimine. Certe pessime frequentazioni, consumate in veste di lettore, possono comunque suonare come equivoche connivenze o — addirittura — come complicità manifeste. Ed è meglio non trascurare i rischi d’una chiamata di correo.
D’accordo, Blackie non è uno sbruffone. A differenza di altri colleghi passati anch’essi dal revolver alla penna, Audett non indulge a facili compiacimenti. Nemmeno cede alle vanterie di un’apologia di reato confezionata in forma di smaliziata autobiografia. E quand’ostenta vanità, si tratta pur sempre di legittimo orgoglio “professionale”.
Detto questo però, conviene essere “onesti” e passare alle ammissioni del caso. È veramente impossibile non nutrire un virile rispetto per quest’uomo che in tenera età rifiutò la misera fatica del lavoro salariato e imboccò la strada dell’illegalità. E in fondo, se ci limitiamo a confessare un’imbarazzata ammirazione, è solo perché un libro pesa meno d’una pistola e una libreria è un po’ meno blindata di un istituto di credito.
Ma non stiamo a menarcela. Le regole sono queste. È l’antico patto dei racconti di malavita: si finisce per stare dalla parte “sbagliata”. Che sia sbagliata, poi, è soltanto questione di punti di vista. E non si dica che da quel lato della barricata non c’è futuro. Non si sprechino parole per ricordare che «i delinquenti non possono vincere».
È peggio. Molto peggio. Di solito si sortisce l’effetto contrario. Lo charme degli anti-eroi dal fato avverso è quasi più seducente d’un bel paio di gambe inguainate in calze di seta. Lo sapevano bene, su questa sponda dell’Atlantico, gli scrittori dei grisbi e dei rififi. Ed è su quel tipo di fascino che la tenebrosa Trimurti del gangsterismo letterario transalpino eresse la sua leggenda. Stiamo parlando di gente tosta, sia ben chiaro. Mica di mammolette. Tipi duri, guarniti d’attributi e controattributi, con un ottimo passato nel milieu e trascorsi più che onorevoli nelle patrie galere. E se Auguste Le Breton, José Giovanni e Albert Simonin continuano a inumidirci gli occhi con quelle remote storie di fuorilegge tisici, sfortunati e malinconici, allora qualche problema c’è. Quindi, per carità, siamo sinceri e non perdiamo tempo con la favola che quella è una partita persa. Il bello sta proprio lì: nel concedersi una ribellione per delega e una sconfitta per procura, servite a mezzo d’inchiostro su carta, un attimo prima di tornare ad augurare il «buon giorno, buon lavoro» allo sbirro che c’ha appena restituito i documenti.
Le somiglianze, tuttavia, si esauriscono qui. Primo: perché Blackie non ha fatto in tempo a scrivere romanzi, ammesso che ne avesse l’intenzione. Invece, i suoi compari “franciosi” non solo hanno redatto le rispettive autobiografie, ma hanno pure scritto valanghe di romanzi.
Secondo: perché Audett non è un romantico e al massimo si concede una punta di sentimentalismo, ma senza tirarsela con l’anticaglia del c’era una volta o del bel tempo che fu. Quando racconta la morte dell’amico Johnny Dillinger, lo fa con una buona dose di sangue freddo, interessato a illustrare la dinamica della venerata action, piuttosto che a celebrare il mesto tramonto degli Dei del Male: «Quella fu la fine di Johnny Dillinger. Anna, la Donna in Rosso, l’aveva venduto all’FBI e i federali lo uccisero, sparandogli alla nuca». Amen.
Terzo: perché l’America non è la Francia e, nonostante una latitanza consumata tra la rive gauche e Bordeaux, Blackie Audett rimane un americano fottuto: dollari, sconsiderata intraprendenza, acceleratore a tavoletta e tanti saluti… Per la poesia decadente e le schioppettate surrealiste, per l’“umor nero” e l’illegalismo anarchico, per i rovelli dell’inconscio e le arie da Bohème rivolgersi alla cara, vecchia, stramaledetta Europa. E allora, risparmiamoci la trasvolata intercontinentale e rimaniamo da quella parte dell’oceano, riservandoci i piaceri d’un palpitante peregrinare yankee in compagnia di canaglie e farabutti della peggior specie.
«Una vita da romanzo», potremmo abbozzare senza grandi sforzi d’immaginazione. L’idea che conferisce al “romanzesco” i significati dell’eccezionalità è vecchia quanto la sputacchiera d’un malfamato saloon del Far West. Eppure, qualcosa di buono si trova anche nel più scontato cliché, perché — sull’evanescente confine che separa la realtà dalla finzione — la vita di Blackie Audett incrocia almeno due generi très maudits e very popular: le storie di rapina e i prison novels.
Così, nella galleria di questi «Jesse James degli anni Trenta», non ci vuole molto a ritrovare i disinvolti gemelli in carne e ossa del mitico Dix Handley, brigantesco protagonista di The Asphalt Jungle, il cui tormentato flusso di coscienza suona come un raggelante monito rivolto a un’America catramata, crudele e ormai dimentica delle frontiere d’una volta: «Non era stato suo nonno a introdurre per primo nella contea il pane nero irlandese? E non avevano combattuto i suoi nonni negli eserciti del Sud durante la guerra civile? Erano gente semplice, forte e onesta, niente aristocrazia: erano il sale della terra…». E proprio a una perduta ed essenziale solidità americana Audett pare restituire la figura del public enemy number one: «Johnny Dillinger era furbo come una volpe e aveva la coscienza di una pietra. […] Mi è capitato di sentir dire da più parti che Johnny aveva la paura negli occhi. L’ho perfino letto nei giornali. Il che è assolutamente falso. Johnny non aveva paura di niente ed era in grado di reggere lo sguardo di chiunque». Messa così, non si pensa al più famoso rapinatore degli States, divenuto una vera e propria ossessione per quel “galantuomo” di Edgar Hoover. Anzi, è una descrizione che — per paradosso — calzerebbe a pennello perfino su un’icona legalitaria come il Wyatt Earp di Gunfight at the O.K. Corral. Ma il bello di certe storie d’oltreoceano è proprio che i contorni sono sfumati e il mondo non è mai in bianco e nero: al più, è solo nero. Del resto, anche Pat Garrett cambiò casacca. E perfino sull’incorruttibile Mr. Earp bisognerebbe cominciare a dirla tutta: «La sua reputazione crebbe a tal punto che la destra del partito della Legge e dell’Ordine non lo considerava molto migliore degli uomini ai quali aveva dichiarato guerra; soltanto uno dei peggiori, ma col distintivo».
I personaggi di queste pagine intrattengono rapporti strettissimi con le archetipiche maschere del genere d’argomento criminoso. Tanto per dire: un tipo come Eddie Bentz, il geniale “analista” che preparava e vendeva piani per rapine, non è molto diverso dagli immancabili progettisti che popolano crime stories e gangster movies. Ma se Rap Sheet costituisce senza dubbio una perfetta documentazione in chiave autobiografica dei cosiddetti armed robbery novels, dice molto anche sul filone d’ambientazione carceraria. E non è difficile immaginare il ghigno di Blackie davanti alla pellicola di Escape from Alcatraz. Le scene di Don Siegel valgono da risarcimento per l’uomo che trascorse oltre quindici anni alla Rocca, dopo essere evaso — redivivo Edmond Dantès del Nuovo Mondo — dall’isola di McNeil e dal penitenziario di Leavenworth per arrendersi solo alle tumultuose correnti della baia di Frisco. Alle assurde situazioni di fughe spericolate, Audett deve gran parte del suo talento narrativo. E dalla ricca tavolozza degli aneddoti non manca niente. Così, le tinte fosche di evasioni dagli esiti tragici si mischiano ai colori picareschi d’inseguimenti in stile “guardie e ladri”. E c’è pure l’inevitabile defilarsi in abiti da prete, situazione antica quanto il clero, cui — da sempre — non possono sottrarsi i veri fuggitivi e i proscritti doc.
Realtà e finzione, dunque. A tal punto intrecciate, nelle tenui luci del crepuscolo del Vero, da risultare indistinguibili. Succede così nei racconti di (mala)vita: un po’ fatti incredibili e un po’ invenzioni verosimili, anche — e soprattutto — quando il narratore professa assoluta sincerità. Non potrebbe essere altrimenti, perché solo uno sciocco presterebbe fede alla parola d’un millantatore incallito e patentato. Anche questo, però, fa parte del gioco.
«Una vita da romanzo», dicevamo. Insieme — s’intende — al suo indistinguibile rovescio: ai tanti romanzi del genere fioriti sulla trasfigurazione immaginativa di vite acide e ribelli. Sono due lati di quel prisma dalle mille facce che si chiama «letteratura criminale», come ha insegnato Edward Bunker, colui che più di tutti attorcigliò le occorrenze narrative agli spietati casi del vivere. Al di là di qualsiasi riferimento, infatti, Rap Sheet funge da calzante prologo di quel capolavoro della memorialistica banditesca intitolato Education of a Felon.
Sono davvero tante le analogie tra queste straordinarie esistenze consumate nei più profondi gironi del crime. E anche senza buttarla sulla psicologia, vorrà pur dire qualcosa il fatto che, in entrambi i casi, all’inizio di tutto c’è un padre alcolizzato. Così, Blackie compirà la sua prima fuga in compagnia dell’amato cavallino Noble, oggetto delle sadiche attenzioni del genitore dipsomane. Il piccolo Eddie scoprirà la crudeltà del mondo davanti a una lettera che annuncia la soppressione dell’adorata cagnetta Babe: «Mia zia e mio padre mi avevano detto che Babe aveva trovato una nuova casa a Pomona. E invece se n’erano sbarazzati facendola uccidere, perché per loro era un fastidio. Credo che questo fu il momento preciso in cui il mondo mi perse, perché la sofferenza si trasformò presto in rabbia». Ma non è da meno il dolore di Blackie, cui tocca una scelta forse ben più dura: vendere Noble per centocinquanta dollari e mettersi a cercar lavoro. Alla maniera di Audett, anche Bunker colleziona una lunga serie di fughe, esordendo precocemente — all’età di cinque anni — con un’“evasione” dal collegio in cui era finito dopo il divorzio dei genitori. Il seguito della storia si snoda per gli stessi, bruschi tornanti della discesa agli inferi del contrabbando e delle rapine, degli inseguimenti e dei vagabondaggi, delle celle di Alcatraz, San Quentin, Folsom e della libertà vigilata. Con qualche piccola differenza in merito agli scenari, ai vizi e alle merci: piccola, sì, ma indicativa di come i tempi cambino. E se le macchine dell’astemio Blackie sono cariche di liquori e immigrati clandestini dagli occhi a mandorla, E. B. si dedicherà al commercio di marijuana, non disdegnando di sperimentare gli effetti dell’eroina. Audett percorre le strade d’America nel tempo in cui a espressioni come “andare a ovest” o “cercar fortuna” è ancora appiccicato un ultimo sputo di senso. Bunker, invece, rimarrà incatenato nelle tenebre d’una giungla d’asfalto chiamata Los Angeles. Ma al di là di questi particolari, la sostanza non cambia, la passione per il furto è la stessa e resta immutata anche l’impossibilità di fermarsi: la demoniaca coazione a perseverare sul cammino dei misfatti.
Ma non cambiano neppure sbirri e cacciatori, che adesso — nel pieno dei bizzarri rovesci delle peripezie criminali — possiamo tranquillamente fregiare del titolo di “cattivi”. Ed è qui che conviene sconfinare nel campo avverso, per dire qualcosa su un aguzzino d’eccezione di cui sarebbe scorretto tacere. Nell’incredibile serie di eventi ai quali Blackie ha partecipato in qualità di protagonista, comprimario o comparsa, figura anche la «grande rivolta», la sollevazione con cui — il 2 maggio 1946 — un gruppo di detenuti prese Alcatraz, dopo aver catturato alcune guardie. In realtà, va detto che bastarono tre galeotti del calibro di Dutch Joe Cretzer, Marvin Hubbard e Barney Coy, il «pistolero del Kentucky», per tenere in scacco un’intera guarnigione fino all’intervento dei marines armati di bazooka. Nel corso di quelle ore disperate, Dutch Joe ebbe l’idea di svuotare, per ben due volte, la sua .45 nella cella in cui erano stati rinchiusi i secondini. «Probabilmente era convinto di averli fatti fuori tutti. Ma l’unico che aveva ucciso era William Miller. Il capitano delle guardie era stato ferito al petto e altre guardie avevano rimediato ferite gravi. Due guardie si erano gettate a terra, fingendosi morte non appena Cretzer aveva cominciato a sparare. E così riuscirono a salvarsi», racconta Blackie.
Alcuni anni dopo, nel carcere minorile di Lancaster, la vita di Bunker sarà segnata dall’incontro con il capitano L. S. “Red” Nelson. Proprio una violenta colluttazione con l’ufficiale costerà a Eddie il trasferimento nella prigione della Contea di L.A., dove risiedevano gentiluomini come Johnny Cicerone, braccio destro dei fratelli Sica, Billy Cook, accusato dello sterminio di un’intera famiglia, e Caryl Chessman, il Bandito della Luce Rossa autore del bestseller Cella 2455, Braccio della Morte. Oltre a esplodere lacrimogeni addosso ai detenuti, “Red” Nelson era solito narrare dei “bei” tempi di Alcatraz. Alla Rocca, infatti, aveva vissuto un’esperienza di quelle che ti rivoltano come un calzino: «Mi raccontò di essere stato rinchiuso in una cella insieme ad altri sei agenti di custodia mentre tre bastardi, tre rapinatori originari del Kentucky, scaricavano una .45 dentro la cella. Nelson era sopravvissuto senza un graffio. Da quel momento non aveva avuto più paura». La vita è buffa e si diverte a costruire imprevedibili intrecci, quasi più avvincenti delle trame dei migliori romanzi.
Una volta ancora non ci si può esimere dal tirare in ballo il destino, quella mano invisibile che tiene in pugno gli uomini, offrendo il meglio di sé con certi individui. Alcuni lo chiamano fato. Altri, svolgendone le implicazioni più occulte, l’hanno appellato «pulsione di morte». Audett l’ha condensato nel tiro mancino d’una notte sciagurata. Bunker l’ha paragonato a un giro di “poker alla rovescia”, il gioco d’azzardo dei galeotti, le cui regole — metafore del rovesciamento d’ogni valore — trasformano il punto più basso in quello vincente. In ogni caso, il discorso non cambia, perché tutte queste storie — vere, verosimili o inventate — finiscono sempre in due modi: con del piombo in corpo o con una penna in mano. Bunker lo dice chiaramente: «Io ho rubato soldi, e ho smesso nel momento in cui sono riuscito a vendere un romanzo». E tanto per non essere frainteso, lo ripete pure: «Il rumore più forte è quello delle macchine per scrivere disseminate nell’edificio, ciascuna con una velocità e un ritmo propri, dall’incertezza impacciata di alcune alla pulsazione regolare di altre, a produrre ricorsi per le istanze di habeas corpus, oppure il Grande Romanzo Americano, perché non sono l’unico detenuto di Folsom a sognare la redenzione tramite la vita letteraria, a sognare di far sbocciare il fiore di loto dalla melma. Dubito di essere io quello dotato di maggior talento. Direi che mi considerano il più determinato». Sembrerebbe, pertanto, che ai fuorilegge — perdenti nati al più estenuante morire — sia concesso un solo trionfo: quello che profuma di carta stampata.
«I delinquenti non possono vincere». E così siamo tornati all’inizio, ma con l’obbligo di fornire qualche ragguaglio sulle cagioni di quest’impossibilità. Ce ne sono diverse, alcune delle quali proprio Achille Battaglia menzionò — mezzo secolo fa — a corredo della biografia di Blackie Audett. Si può citare, ad esempio, l’ineluttabilità del diritto come garanzia del viver civile. Oppure, si possono ricondurre le effimere vittorie dei malfattori a momenti d’eccezione e a particolari congiunture sociali. Va anche considerata la matematica occorrenza dell’infedeltà o — quantomeno — il progressivo assottigliarsi della rete di connivenze che copre la latitanza dei banditi. Dillinger non è stato né il primo né l’ultimo esempio di questo martirologio alla rovescia. Succede dalla notte dei tempi, al punto che — nelle leggende di malavita — il Traditore (meglio se di genere femminile) è una figura indispensabile quanto quella del Fuorilegge. E anche a fare il controcampo, le cose non risultano troppo diverse. È ben documentata, infatti, l’avversione del barbuto di Treviri per usi e costumi di questa luciferina nobiltà del Lumpen, irrimediabilmente persa alla “causa”. L’elenco di motivi è lunghissimo e potremmo andare avanti per giorni o per centinaia di pagine. Eppure, la causa più ovvia, sul cui greto scorre l’impetuoso fiume dei tanti generi dedicati al crimine, rimane avvolta dall’equivoco velo del silenzio.
I gangster non possono vincere per il semplice motivo che hanno già vinto. E quando imposero il violento equilibrio dei loro istituti, iniziarono a farsi dare del “lei”, dicendosi imprenditori e finanzieri, capitani d’industria e liberi professionisti, federali e senatori, deputati e sindaci, sceriffi e peace officers, sindacalisti e poliziotti. È questa l’amara verità della letteratura criminale: il male ha vinto, la corruzione domina, il delitto si chiama legge e — cosa ben più importante — nessuno può dirsi innocente.
Avvelenata è la città di Poisonville nelle pagine di Red Harvest di Dashiell Hammett. Marcio e intossicato è il sangue della potente famiglia Sternwood nel chandleriano The Long Goodbye. Eloquenti e simbolici sono i drappi «rosso-sangue» che adornano la decorosa dimora borghese, luogo di un’impronunciabile perdizione, all’inizio di Double Indemnity di James Cain. È una «fetida» metropoli quella da cui, in The Asphalt Jungle, Dix Handley fuggirà nell’unica maniera che gli è consentita: crepando. «Implacabile, irredimibile, anzi di là di ogni redenzione» è — a detta di James Sallis — il mondo di Jim Thompson. Realtà e finzione, lo ripetiamo, fanno poca differenza. Sono comprate, infiltrate, controllate anche le città di Rap Sheet: la Chicago di Alfonso Capone e Frank “Potere Esecutivo” Nitti o la Kansas City di Johnny Lazia e Tom Pendergast, sul cui libro-paga figura il nome di Blackie Audett, a testimonianza del fatto che i contorni sono sfumati e i toni epici d’un certo ribellismo illegalista vanno bene solo in parte. Il problema, infatti, non riguarda l’epica, bensì l’etica. E anche senza parlare di epos, bisogna ammettere che, in un universo completamente invertito, irrompere in una banca con una pistola in pugno suona come un atto morale al tempo del nichilismo. E poi, non servono audacia e durezza, accettazione del rischio e senso del sé? E non sono forse queste le caratteristiche ancestrali dello spirito americano?
Parlando del genere hard-boiled, Stefano Tani ha rilevato come l’individualismo spicciolo del detective privato evochi quello “spirito della frontiera” che finisce per collegarlo «al cow-boy di Owen Wister, ai cercatori d’oro di Bret Harte, all’esploratore apripista di James Fenimore Cooper». In altri termini, Sam Spade e Philip Marlowe sarebbero la reincarnazione dell’«uomo americano intraprendente e solitario, coraggioso e violento, innocente e sospettoso, sentimentale ma comunque celibe, che può contare solo su se stesso in un ambiente selvaggio e pericoloso dove porta la sua dubbia civiltà e la sua privatissima giustizia». Bene, ad eccezione dell’innocenza, del celibato e della civiltà, questi aspetti sono perfettamente riferibili a personaggi come Blackie Audett e Johnny Dillinger. Con un merito in più: quello d’aver finalmente rinunciato ai resti d’una crepuscolare cavalleria arturiana. Molto meglio dello sbirro, funzionario corrotto di una società oppressiva, ma anche meglio del private eye, romantico Lancillotto senza Graal, il fuorilegge personifica l’estrema fedeltà ai principi primordiali e l’ultima sollevazione della vecchia America, libera nella colpa delle origini e felicemente violenta in ogni gesto. D’altronde, come scriveva James Ellroy, «L’America non è mai stata innocente. Abbiamo perso la verginità sulla nave durante il viaggio di andata e ci siamo guardati indietro senza alcun rimpianto».
E fu così che, dopo la caduta d’un giovedì dell’anno di grazia 1929, il «santo con la pistola» della letteratura si trasformò in un diavolo armato di thompson.