di Dziga Cacace
123-Novecento Atto I di Bernardo Bertolucci, Italia 1976
Lo so, sono senza ritegno, ma Novecento è, per me, un’opera assoluta, specialmente in questa prima parte. È una sintesi poco sintetica di capitali nordamericani ed enfasi lirica di matrice sovietica, dove Ejzentejn incontra Visconti e Hollywood; è una tragedia shakespeariana dell’avvento e della caduta del fascismo e un balletto maoista del trionfo (momentaneo) della rivoluzione; Dio, che capolavoro! Siamo d’accordo: troppa enfasi, troppa violenza, troppo sesso, troppi melodrammatici incontri, addii, lotte e amori; troppo coreografati i movimenti delle masse proletarie, troppo oleografici i ricordi dell’infanzia e ancora troppo stilizzata la Bassa. Ma è un troppo che non stroppia. È un troppo per cui il mio calice trabocca.
Che piacere la generosa autoindulgenza della regia; che linimento (sììì!) per gli occhi la splendida fotografia (Storaro), che interpretazioni (Depardieu, De Niro, la Sanda, la Sandrelli, Hayden, la Betti, Sutherland, Lancaster…), che musiche (Morricone), che respiro narrativo, quale autentica gioia ogni volta che il dolly si libra nell’aria ferma della pianura padana! Ovviamente tutti i farisei intorno a me preferiscono la prima parte di Novecento e già mugugnano per l’Atto II che vedremo tra una settimana: lo so, questa parte è più accattivante, affettuosa e solare. Se Strategia del ragno era girato cinque minuti dopo che il sole era calato, il primo atto di Novecento sembra messo in scena dalla mattina fino a mezz’ora prima del tramonto: l’alba della vita dei due personaggi principali ci viene raccontata con complicità, poi calerà la notte buia del fascismo. Nel secondo atto prevarranno le luci cupe, l’oscurità e il senso d’immane tragedia; i campi saranno avvolti dalla bruma… insomma, il Ventennio, con il suo corollario di manganellate, assassinii e olio di ricino. Che c’è ben stato, eccheccazzo: doveva rendere allegro il periodo per voi? Novecento è un’opera unica che andrebbe assunta in unica soluzione e apprezzata come tale. Cioè: non rompete: se non capite, è colpa vostra. E per mettere in scena questo straordinario affresco Bertolucci presenta tutti i personaggi al momento della loro entrata in scena. Stavolta niente misteri da lasciar sciogliere allo spettatore: questi sono gli attori della Rivoluzione. Non si possono né devono fare classifiche, ma Novecento è il film che più mi emoziona, anche alla quarta visione. Nota lurida: Stefania Casini stabilisce un record imbattibile: non passerà alla storia del cinema per Lontano da dove ma per avere manipolato contemporaneamente i genitali di Depardieu e De Niro, impresa che mi sembra quanto meno improbabile da ripetersi. Per cui si tratta anche di un film record. (Cineclub Lumière; 19/11/97)
126-Intrigo internazionale di Alfred Hitchcock, USA 1959
Cary Grant è un distinto pubblicitario che, secondo il collaudato modello – messo a punto, ma non risolto – nel disordinato Sabotatori, viene incolpato di reati spionistici in cui non è, chiaramente, coinvolto. E allora, puntuale, la fuga. Ma stavolta la sceneggiatura fila a meraviglia e tutto il plot è pervaso da humour e sensualità. Grant è fantastico: puntualizza “Mi hanno confuso con uno più basso!” e caccia balle a go-go alla bionda platinata che trova il tempo di sedurre (dice di essere inseguito “per sette divieti di sosta”). L’incontro, per niente casuale, avviene in treno: “non prenderò mai più l’aereo!”. Io, in treno, ho sempre beccato ritardi, racchie e raffreddori. E non sono ancora deragliato. Poi, il testino più curato dell’orbe terracqueo, capito l’inghippo, congeda la seduttrice con un mitico “buonanotte amore, me la sono goduta”. L’inseguimento continua fino a concludersi nello storico duello sul monte Rushmore, in cui Cary deve misurarsi con Landau, lo spigoloso di Spazio 1999. La verità trionfa e così l’amore, con un bel convoglio che entra in galleria. Un divertimento intelligentissimo, fruibile come pura azione, ma anche ricco di trovate (tecniche e narrative) per la gioia dei cinéphiles. Passando ad altro, il monte Rushmore è però più bello con sopra le facce dei cinque Deep Purple (cfr. il seminale e imperdibile album In Rock del 1970). La più accurata spiegazione sul senso, o sul non-senso, del titolo originale (North by Northwest) la dà Pauline Kael: non ho voglia di trascriverla, ma a voce ve la posso raccontare, basta chiedere. Intanto noto che inizio ad appassionarmi: avevano fottutamente ragione i tanti che rimproveravano la mia freddezza nei confronti di Hitchcock. Eh sí. (Vhs; 23/11/97)
128-Glory Days di Arthur Rosato, USA 1986
Quando nel 1986 venne pubblicato il clamoroso quintuplo lp Bruce Springsteen and the E Street Band Live 1975/85 la CBS pensò bene di preparare un video antologico da poter distribuire a scopo promozionale alle televisioni di tutto il mondo. La tanto vituperata Rai se lo assicurò e mi assicurò tre estatiche visioni in pochi mesi (anche allora i programmatori non erano dotati di grande fantasia). Avevo sedici anni e, come per molti della mia generazione, il famoso concerto di San Siro del 1985 era avvenuto troppo presto: questa era finalmente l’occasione di vedere immagini del Boss dal vivo e non di doversi accontentare dei quattro minuti di un semplice videoclip (beh: De Palma e Sayles, mica bruscolini). Rivisto a dieci anni di distanza e messa da parte la dovuta emozione, bisogna rilevare di quanto sia evoluto il linguaggio dei video musicali: altro che i dolly sospesi sul pubblico o i carrelli davanti al palco che qualunque puzzone one hit wonder si può oggi permettere. Eravamo agli albori dell’era di MTV e bisognava accontentarsi di riprese semplici, da diretta televisiva. E la stessa struttura del documentario non gode di grandi idee: semplicemente la cronaca della carriera di Bruce, commentata da divertenti interviste ai membri della E Street Band e corredata di intense, sincere, pure immagini live, dal 1975 all’ultima (allora) tournée, quella del Born in the USA Tour. Quindi? Nonostante oggi sembri più importante avere un buon videoclip piuttosto che una bella canzone, ecco la dimostrazione che è vero il contrario. Glory Days è ancora stupendo e non solo per il turbinio ormonale che provoca in questo babbeo che si rifiuta di crescere. Credo che sia di impossibile reperibilità: a me lo ha prestato Pier Paolo per cui sapete a chi rivolgervi. Se invece vi basta la musica, beh, come ogni buona famiglia credente nel rock dovete possedere la Bibbia, il quintuplo live di cui si diceva prima. Ah: di Rosato so solo che è stato un roadie di Dylan. (Vhs; 25/11/97)
131-Novecento Atto II di Bernardo Bertolucci, Italia 1976
Eccoci alla seconda parte, attesa per una settimana. Innanzitutto una breve dissertazione tecnica: si tratta del montaggio ufficiale ripristinato con il restauro della pellicola nel 1991. Ma la tecnica nulla può contro l’idiozia degli uomini, infatti questa superba copia di Novecento viene conservata alla Cineteca Nazionale con le bobine in disordine. E così l’ordine cronologico di Novecento, all’interno del flashback che dal 25 aprile 1945 passa al 1900 (per poi concludersi nel “liberatorio” finale, di nuovo al presente), viene a saltare perché qualche caprone ha invertito l’ordine della quartultima bobina con la terzultima. Proprio ora che ci eravamo liberati di quel montaggio di fantasia delle videocassette e delle emissioni televisive che infilavano nell’Atto II le scene del ballo alla cascina e dell’incendio della Casa del Popolo con relativo funerale! A parte questo marchiano errore, anche la tanto vituperata seconda parte dell’Opera funziona a meraviglia. O perlomeno così a me pare. Insomma: l’autunno dell’avvento del fascismo si fa inverno tetro e rigido. La fotografia di Storaro si scurisce, per poi rivitalizzarsi cromaticamente nei giorni della liberazione in cui – guarda un po’ – prevalgono le tonalità rossastre, e la materia drammatica si fa ancor più pressante che nella prima parte. Lo stivale affonda nella dittatura e i personaggi sprofondano in una neve vischiosa (viene utilizzata una specie di crema da barba, ma ci deve essere dietro una metafora, sarà mica un errore, dài). Poi finalmente la liberazione: Bertolucci mette in scena la Rivoluzione mancata come un balletto e il processo al padrone (scena girata simbolicamente al tramonto) è costruito in modo spudoratamente retorico, con una teatralità anche eccessiva, ma, scusatemi, questo è Bertolucci e se l’ultima scena era evitabile, diciamolo sottovoce: il realismo non s’addice al Maestro, i partigiani sono belli con i loro visi senza tempo, Olmo (Depardieu) diventa l’eroe senza macchia della Resistenza e addirittura parla allo spettatore, fissando la cinepresa, in un delirio sonoro e visivo di fisarmoniche e bandiere rosse. E qui molti si scocciano, vuoi per idee politiche, vuoi per una più oggettiva capacità d’analisi del sottoscritto. Fate un po’ voi, ma a me questo finale esagerato, gonfio, esaltante ed esaltato, piace. E in questa ridondanza visiva colgo anche tanta memoria del cinema viscontiano: più che per la prima parte (dal punto di vista narrativo), le assonanze con Visconti emergono, per conto mio, dal punto di vista ideologico. Bertolucci sembra rimpiangere il tempo in cui il rapporto tra padronato e contadini era chiaro, duro ma onesto. Non c’è affetto per la figura di Lancaster? E quanto è invece caricaturalmente abietto Sutherland: proclama di voler abbattere il potere costituito, ma per sostituirlo, e sembra che alla regia faccia orrore che padroni diventino questi ignoranti e fetenti fascisti. Rozzi e violenti, in certa misura anche vitali, contrapposti a un ceto dominante ormai decaduto e decadente. Bertolucci, come Visconti nelle sue elegie del declino della nobiltà, sembra provare nostalgia per la dialettica tra le classi e orrore per l’emergente fascismo “culturale”. De Niro (nemico di classe visto con molta compassione), come Fabrizio in Prima della rivoluzione, è combattuto: difendere lo status quo o essere un “socialista dalle tasche buche”? Sono pensieri in libertà da verificare, ma questa contraddittorietà m’ha colpito (e non è polticamente molto esaltante). Sicuramente, rispetto alla prima parte, il racconto è più incerto, ma anche stasera il coinvolgimento emotivo mi porta a straparlare: Novecento è il mio capolavoro. (Cineclub Lumière; 26/11/97)
134-Giovani, carini e disoccupati di Un Cretino, Ben Stiller, USA 1994
Prima di affrontare l’immane fetenzia che segue, abbiamo anche visto il finale di The Swarm, ributtante “catastrofico” made in USA del 1978. Invedibile (anche perché Barbara m’aveva già costretto a vederlo in passato), ma con momenti d’insuperabile e involontaria genialità comicità: Houston è devastata da uno sciame di incazzatissime api africane. Per sterminarle si decide di inondare la città con un letale simil-Ddt; lo scienziato Michael Caine mette in guardia il deciso generale dell’esercito, il virile Widmark, dicendogli che a Houston non crescerà più un filo d’erba per il prossimo secolo. Il militare, imperturbabile: “Si preoccupa di farsi la barba se le stanno per tagliare la testa?”. Fantastico. Del resto Widmark è già preda di un dilemma: “La storia condannerà me oppure le api?”. Ma passiamo adesso alla deprecabile vaccata che avrebbe dovuto chiamarsi più correttamente Giovani, stronzi e giustamente disoccupati. Laleina (la splendida Winona Ryder) e Troy (il mammolone Ethan Hawke) convivono con altri due amici nell’immediato periodo seguente alla laurea di lei. Sono quattro stronzi presuntuosi, egoisti e antipatici, forse carini, ma bastardi e figli di papà, oggi e sicuramente anche domani. E in più razzisti: “Mi sono laureata con il massimo dei voti: non voglio vendere accendini agli incroci stradali”. Ma vaffanculo, che avrai fatto gli esami con i quiz, dài. Il titolo originale è Reality Bites: la realtà morde e invece questa commedia è quanto di più artificioso, falso, giovanilistico e retorico fosse apparso sugli schermi da qualche decennio a questa parte. Ma come si può dar retta a quello scioperato di Ethan Hawke che ci confida, tronfio per la trovata, che lui, della vita, si gode i dettagli? E certo! Finché il resto glielo pagano gli amici e i genitori… Questi sono carini? Questi sono dei grandissimi stronzi! E questo film è noioso e senza ritmo, i dialoghi sono di scarsa qualità e le battute loffie si sprecano. Sembra una sit-com post-prandiale stirata per un’ora e mezza, senza alcuna qualità registica. Certo, c’è anche qualche momento gradevole, ma il compiaciuto ribellismo à la page e il tono ammiccante mi mandano in bestia. È un film per undicenni che, vai a vedere i casi della vita, ha pure riscosso simpatia tra gli infantili spettatori di casa nostra. E non solo: “Ecco il film-sorpresa del ’94”: non comprate Duel. E poi, caro Pier: non ti dico nulla, ma te lo puoi immaginare: “la musica te la suono io”. Ciao. (Vhs; 30/11/97)
141-Jungle 2 Jungle di John Pasquin, USA 1997
Le vacanze di Cacace sono finalmente arrivate: una miserella settimana di ferie che, in spregio di ogni mia precedente contumelia nei confronti dei paradisi caraibici frequentati dai cafoni di casa nostra, ho passato a Santo Domingo. Nel viaggio d’andata, in aereo ho subito un leghista tarantolato che ha parlato ininterrottamente per alcune ore. Sorvolo sulla marea di immani cazzate che ha dispensato al povero compagno di viaggio, tra le quali la chicca latinista, per sostenere il federalismo: “lo dicevano anche gli antichi romani: divide et impéra”. Al ritorno mi son visto ‘sto filmetto e c’è voluto proprio un volo transoceanico e una persistente insonnia perché, in condizioni normali, mai lo avrei sostenuto. Un indiano in città è la classica storia del bimbo cresciuto nella giungla che viene portato nella grande città ed è talmente sempliciotta e ingenua che mi permetto di seguirla integralmente in lingua originale. Risate di grana grossa per un film da bambini non indecente ma con diseducativo messaggio pro-USA incorporato. Ma adoro Martin Short e posso sorvolare sulla conservatrice Disney. Davanti a me c’è un sosia di Danny Aiello giovane: è un sudamericano nerboruto con la camicia aperta sul petto villoso che sembra uscito da Godfellas. Abbatte la sua poltroncina sulle mie gambe. Glielo faccio rispettosamente presente e lui mi chiede in perfetto italiano “Ti disturba?”. Mi mostro ironicamente indeciso, al che lui, severo, “Sì o no?”. Chiaramente dico di no e mi vedo il film con le ginocchia che vengono frantumate ogni volta che l’orco sussulta per le risate davanti alle infantili gag che si susseguono sullo schermo. Sarà stata l’assurda situazione, ma mi sono quasi divertito e ho riso più di una volta come un ebete. Troppo sole a Santo Domingo. (Aereo; 12/12/97)
144-Mosche da bar di un’inane Steve Buscemi, USA 1997
Quella simpatica faccetta tutta storta che avete apprezzato nei film di Tarantino, Di Cillo e dei fratelli Coen si cimenta con la regia e sforna un film senza palle. Per inciso, Buscemi poteva facilmente scegliere di girare qualcosa di più compiacente verso il suo pubblico e regalarsi uno dei personaggi che lo hanno reso popolare: uno schizzato violento e tormentato. Invece, bisogna dargliene merito, preferisce ritagliarsi un ruolo più complesso, ma le sue aspirazioni naufragano nella povertà del racconto. Mi sono scocciato di tutti gli americani che pensano che per fare qualcosa d’impegnato basta guardarsi e rappresentarsi con uno stile minimale. Come dire: Hollywood spende miliardi e allora io, indipendente e autore, vi regalo una bella vicenda esile esile su cui qualunque patente di supposta poeticità (in questo caso “da strada”) possa essere appiccicata. Buscemi ci racconta (per modo di dire) le vicende di Tommy, un abulico scioperato, e dei suoi vari amici che frequenta in un bar. Sono tutti annebbiati da alcol, polveri e disgrazie. Lentamente scorre la vita e il film. Accade poco, e ancor meno di memorabile. Talcolta si sorride e le varie storielline possono risultare piacevoli, ma era lecito attendersi qualcosa di più. E poi sono di cattivo umore: piove in continuazione, il Lumière rischia di allagarsi, Natale si appropinqua, la gente parcheggia in seconda fila e sto per compiere, ancora una volta, gli anni. È sempre la stessa storia: non ne posso più. (Cineclub Lumière; 18/12/97)
145-Hana-Bi di Takeshi Kitano, Giappone 1997
Il poliziotto Nishi è arrivato alla soglia della pensione carico di gloria e di problemi: è perseguitato dalla Yakuza per un annoso debito, il suo migliore amico è finito su una sedia a rotelle, la moglie ha un tumore terminale e, per giunta, si sente responsabile della morte di un suo agente. Allora il silenzioso personaggio (interpretato con impassibile durezza da Beat Takeshi alias Kitano) decide di chiudere i suoi conti: organizza una rapina (che va a buon fine) e con i soldi ricavati regala tele e pennelli all’amico paralitico, salda il suo debito con i malviventi, regala un po’ di soldi alla vedova dell’agente e fugge, metaforicamente e fisicamente, con la moglie. Per quanto la sua sorte sia segnata, la porta al mare e in montagna, tenta di dare acqua a una pianta ormai sfiorita, fino al tragico epilogo. Kitano sintetizza ulteriormente i temi di Sonatine e li immerge in un nitore fotografico entusiasmante: riesce così ad armonizzare atroci violenze e squarci lirici, regalandoci un altro personaggio amareggiato ma ben deciso a scegliersi il suo destino. M’è venuto un pezzo orrendo ma sono, letteralmente, senza parole. E poche parole usa anche Kitano: finalmente l’immagine riprende il sopravvento sul dialogo. Finalmente un montaggio che sa destrutturare una storia, lasciandoci nel dubbio su cosa sia avvenuto prima e perché. Finalmente un’opera senza sbavature, compiuta formalmente e narrativamente, capace di regalarci un universo poetico toccante senza ricorrere ai classici strumenti retorici. E finalmente il gran film di cui sentivo la mancanza in questa stagione fino a oggi avara di vere novità. (Cineclub Lumière; 21/12/97)
148-Tutti giù per terra di Davide Ferrario, Italia 1997
Tutti giù per terra è tratto dall’omonimo romanzo di Culicchia che ha venduto uno sfracello di copie negli ultimi anni. Il libro m’aveva fatto cagare, di un’imbarazzante esilità. Com’è successo a tutti i recenti blockbuster letterari italiani (Jack Frusciante è uscito dal gruppo, Va’ dove ti porta il cuore) se n’è presto ottenuta una riduzione cinematografica che, per quel che voglio ricordarmi del romanzo, ne conserva l’impianto ma ne amplifica un po’ la narrazione. Il film ha avuto successo e il libro è stato ristampato. Poi uscirà la videocassetta e via di seguito: un’autoalimentazione commerciale che mi lascia un po’ confuso. Comunque, il regista Ferrario ha optato per scelte linguistiche che ho trovato riuscite. Ricorre a ralenti, accelerazioni e punti di ripresa insoliti, ma il linguaggio gggiovane si fonde bene con il racconto, anche se le (giuste ma generiche) denunce del malcostume italico (il servizio militare e civile, l’università, la burocrazia, la ricerca del lavoro, gli stronzetti con cabrio e telefonino) si perdono un po’ in questa ricercata messa in scena. Accompagnata dalla pulsante musica dei C.S.I. e tra citazioni del free cinema e del surrealismo, la storia di Walter è ben sceneggiata e la traccia di tutto il racconto diventa la sua perdita della verginità; di contorno rimane la disillusione di Mastandrea che sembra interpretare se stesso. La prima parte è un po’ svagata e indolente come l’attore, poi il film acquisisce più ritmo e alla fine trovo il prodotto discreto. Il film è andato bene al Festival di Locarno e andrà anche al Sundance Film Festival. Buona fortuna. E buon Natale. (Vhs; 24/12/97)
150-Othello di Orson Welles, Marocco/Italia/Francia/USA 1952
Iniziano le vacanze natalizie, il Lumière chiude e reagisco con un bel videoregistratore e un pila di videocassette: parto con il capolavoro di Welles che mi fece tornare dopo tanto tempo nell’amato cineclub dove adesso passo la metà delle mie serate genovesi. Quando ancora andavo alle elementari il Lumière assolveva anche a una funzione pomeridiana di cinema parrocchiale ed ebbi l’occasione di vedere un trashissimo Il triangolo delle Bermude, pellicolaccia che vedeva i protagonista l’incredibile coppia John Huston e Gloria Guida alla ricerca del continente perduto di Atlantide. Nell’autunno del 1992 l’edizione restaurata di Othello arrivò sugli schermi e, spinto dall’amore per il maestro di Kenosha, riscoprì la sala. Ma passiamo al film: in una scena l’immagine di Welles si riflette in un piccolo specchio rotondo, come aveva fatto Van Eyck nel suo ritratto dei coniugi Arnolfini: ecco, Orson è l’artista che ci ha regalato questo straordinario dipinto, abbozzato, corretto, interrotto e rifatto durante un autentico giro del mondo (da Mogador in Marocco, a Venezia, Roma, Tuscania e altri posti ancora) e adesso restaurato per raccogliere, come in una immaginaria tournée da un museo all’altro, la gloria che merita. La tragedia non ha bisogno di essere raccontata e non ho elementi per confrontarla con altre messe in scena (teatrali e cinematografiche); quello che colpisce fin da subito, per conto mio, è l’ansia di Othello di subirne di tutti i colori: cos’ha da farsi perdonare per essere così tormentato? Iago (magistrale interpretazione di McLiammóir, se il nome vi dice qualcosa) asseconda questo desiderio autodistruttivo con meschinità democristiana: trama come un dannato e anche l’ingenua Desdemona ci casca. Infatti s’incaponisce su Cassio e Othello trova soddisfazione: finalmente punito e cornuto, ah! Vuole addirittura le prove e Iago chiede: “Come un commerciante di cavalli, vuol vedere la monta?”. Ma Welles è regista troppo sopraffino per scadere nel pecoreccio in cui, a quanto ho sentito, s’è calata una recente produzione yankee con Branagh protagonista. E il dramma, con vertiginosi campi e controcampi tra Europa e Africa, giunge a compimento, concludendosi con le straordinarie immagini del funerale del moro condottiero, le stesse che avevano aperto magistralmente il film. Palma d’oro a Cannes nel 1952, continua, anche alla quarta visione, a essere uno dei miei preferiti di sempre. (Vhs; 26/12/97)
158-Conoscenza carnale di Mike Nichols, USA 1971
Nonostante il titolo (che non è stato arbitrariamente imposto dalla distribuzione italiana) possa far pensare decisamente a un pornaccio bello e buono, questo non è il caso. Abbagliato dal titolo, lo avevo già visto otto anni fa insieme a Ferro. Oggi lo scelgo dalla truffaldina collana de L’Espresso dei “Classici proibiti”. Cosa ci sia di proibito non è lecito comprendere e Pier Paolo reclama a gran voce, per la suddetta collana, veri film erotici. Anzi vuole di più: che la normativa nazionale la smetta d’impedire salutari visioni sul piccolo schermo dei film vietati ai minori, rendendoli visibili magari la mattina, così quei maledetti mocciosi sono a scuola e nessuno rompe le balle. E se i film li vedono i pensionati, buon pro gli faccia. Conoscenza carnale (tratto da una brillante pièce di Jules Feiffer) racconta le vicissitudini affettive e sessuali di due amici, fino al loro amaro bilancio in età adulta. Art Garfunkel è Sandy, timido e impacciato. Jack Nicholson è Jonathan, più scafato e stronzo. Infatti, in un college pre-contestazione e liberazione sessuale, approfitta dell’ingenuità dell’amico e ha una relazione con la sua ragazza, l’abbacinante e un po’ zoccola Candice Bergen. Il tradimento rientra e Sandy sposa l’attrice che ho tanto amato in Soldato blu. Allora il film segue il progressivo abbrutimento morale di Nicholson che, se le altre sono zoccole, lui è uno zoccolone gigantesco: passa da una storia all’altra, fino a un matrimonio – che va a rotoli – con la procace Ann-Margret. Gli amici si incontreranno anni dopo: il matrimonio borghese di Sandy è naufragato, mentre Nicholson ormai ricorre, impotente, al sesso mercenario. A prima vista potrebbe sembrare un assunto moralistico, ma così non è: la regia, professionale, sensibile e coadiuvata dalla splendida fotografia di Rotunno, analizza i difetti del maschio americano, il suo egoismo, la sua rozzezza e la sua immaturità. Non ne esce bene quasi nessuno e il film si chiude su una nota drammatica e profondamente pessimistica. I dialoghi sono brillanti (e per l’epoca, questi sí, anche molto spinti) e le recitazioni notevoli. Ne viene fuori un bel film, verboso, ma insinuante. Candice Bergen, se il film non v’interessa, è comunque un amore e vale la visione, ma se volete un po’ di vera azione, beh, dovete vedervi il film della prossima recensione. (Vhs; 28/12/97)
159-Gola profonda di Gerard Damiano, USA 1972
A differenza del film precedente, qui non ci sono equivoci: Gola profonda non lo vedrete mai, né a tarda notte, né la mattina presto. Il film l’ho visto esclusivamente per motivi professionali e per curiosità sociologica (ah, ah), dal momento che la pellicola in questione creò un vero e proprio caso internazionale. La trama è presto detta: la protagonista (la famosa Linda Lovelace), cercando di sconfiggere la sua incapacità a raggiungere l’orgasmo, non si nega nessuna esperienza sessuale. Dopo tanto cercare (ehm), scopre di avere la clitoride in fondo alla trachea (gli scherzi della natura. E della sceneggiatura) e per soddisfare le sue voglie con un partner maschile… beh, potete immaginare. Sul valore artistico del film non c’è molto da dire, se non che il montaggio è, in alcune parti, molto serrato: aveva iniziato Ejzentejn con Il vecchio e il nuovo e ora Damiano aggiorna il repertorio delle metafore dell’orgasmo con partenze di razzi e caroselli di scampanate. Altro che La pallottola spuntata, che non ha proprio inventato niente. Certo, poi il montaggio non manca in tutti i sensi, ma il film è percorso da una sottile vena umoristica. A suo modo, un classico, anche se come film obiettivamente fa un po’ schifo. (Vhs; 29/12/97)
160-Dumbo di Ben Sharpsteen, USA 1941
Ricordate tutti il generale coglione che piangeva calde lacrime vedendo Dumbo, durante il presunto attacco giapponese a Hollywood nel 1941? Bene, voglio di nuovo verificare di persona la lacrimosità del film e la Rai, sempre fantasiosa nel suo programma natalizio che prevede immancabilmente i classici della Disney, me ne fornisce l’occasione. Il film inizia con un diseducativo e plateale falso: alcune cicogne portano i cuccioli agli animali di uno zoo. Per ultimo arriva un tenero elefantino che, ahilui, possiede due orecchie immense. Ah! Il film si riscatta: è la storia di un diverso! Per difenderlo dagli sfottò degli altri elefanti, mamma Jumbo (pronunciato Giumbo, se no dovreste dire anche “Dambo”) si becca una punizione e viene rinchiusa in gabbia dal proprietario del circo. E qui c’è la famosa scena madre, con il piccolino che frigna senza ritegno: vedo schiere di bambini (e adulti rimbambiti) distrutti dal dolore, ridotti al pianto, emotivamente massacrati. Questa è vera pornografia: quel nazista di Disney! Poi Dumbo, per alleviare la sua enorme sofferenza, si prende una ciucca mortale (è la scena migliore: una parentesi onirico/etilica a base di elefanti rosa) e scopre che quelle lenzuola che ha al posto delle orecchie gli permettono di volare: diventerà, nell’immancabile lieta fine, una celebrità. Deprecabile morale: se sai mettere commercialmente a frutto la tua diversità, bene, se no: pussa via! Il film si fa vedere: ha ottimi momenti (coreografie e situazioni), commuove col ricatto e diverte, ma ho preferito, forse per questioni anagrafiche, Gola profonda: c’era più animazione. (Diretta TV; 29/12/97)
162-La riffa di un Ciarlatano, Italia 1991
Ultimi giorni dell’anno: do una sferzata alla mia vitalità da bradipo chiamando Pier Paolo e organizzando una session di poderose cagate cinematografiche che pretenderebbero essere eroticamente stimolanti. Decidiamo di partire con il maestro dell’eros all’italiana, quello zozzone di Brass: Così fan tutte ci mostra con zelo ginecologico le grazie di Claudia Koll e attori maschili umiliati a recitare con membri virili finti (Pier Paolo: “Ma fai un porno vero, allora!”), finché la cassetta s’inceppa, quasi a dimostrare emblematicamente la sua invedibilità. Abbiamo fatto a tempo a sorbirci il prete arrapato, il commesso gay, la moglie matura e infedele e qui e là qualche ispezione digitale. Né più né meno di quella che abbiamo subito posteriormente Pier e io da parte di una regia che abusa grammaticalmente di close-up su seni e debordanti e gambe accavallate su orifizi e pelurie di contorno… Frastornati, passiamo a La riffa di Francesco Laudadio, se non altro c’è la Bellucci, giovane vedova piena di debiti: come può tirare avanti senza dover approfittare dei soldi della domestica filippina (giuro)? Organizzando una riffa il cui premio sia proprio lei. Frase mitica della Bellucci (ovviamente doppiata): “Il mio unico capitale ce l’ho tra le gambe, e si logora in fretta!”. Mentre si organizza l’affare, la bella attrice ha tanti incontri: un deputato che le offre il pass per posteggiare in centro (!), un miliardario con la dentiera e infine – udite, udite – un intellettuale contadino: il critico Vieri Razzini nella sua più imbarazzante e divertente interpretazione. Pier Paolo è sconvolto. Gli chiedo cosa farebbe alla Bellucci se la riffa la vincesse lui. È categorico: “La rovino”. Poi appare Scarpati che ha la fortuna di essere investito dalla Y10 della protagonista, prima, e dalla sua purchia, dopo (ma la vede solo lui). Se la cosa fosse di dominio pubblico, reputo che la gente si tufferebbe a pesce sotto la macchina dell’attrice. Il film si trascina stancamente e riesce anche a regalare una patetica partecipazione al solitamente bravo Scarpa. Insomma, di riffa o di raffa, La riffa in culo te lo schiaffa e Pier e io, per quanto abbacinati dalla bellezza di Monica, dobbiamo ammettere che recita(va) come un cane. Film decisamente drammatico. (Vhs; 30/12/97)
(Continua – 5)