di Dziga Cacace
[Per un equivoco, la puntata 3 è apparsa prima della 2. Pubblichiamo quest’ultima come 3, senza stare a cambiare la numerazione dei film.]
39-Potere assoluto di Clint Eastwood, USA 1997
In vacanza da supergiovani sul Lago Maggiore, s’impone una visione nelle sale cinematografiche di Verbania. Andiamo al cinema Sociale dopo che al Porcellino d’oro di Intra ho trangugiato una mezza Napoli e una diavola (peperoni, peperoncino, salame piccante e acciughe) innaffiando l’incendio nel cavo orale con abbondanti boccali di birra. Sono però abbastanza lucido per notare la delicata fantasia verde pisello e marroncino diarroico del décor del Sociale. Le poltroncine sono scomode e non c’è un cane. Siccome sono in stato preagonico mi schiero di fianco al provvidenziale sistema d’areazione a gambe larghe, con l’ultimo bottone della patta dei calzoni pietosamente slacciato e la maglietta con le maniche arrotolate, come un chicano del barrio.
Poi il film inizia e, nonostante sia cotto come una ribollita, me lo godo assai. Per me non è il capolavoro di cui molti hanno straparlato, ma è piacevole nonostante una sceneggiatura inverosimile e qualche buco narrativo. Tutto accade perché Whitney Luther (il roccioso Eastwood) è testimone di un delitto, ma non una ammazzatina qualunque: coinvolto è il Presidente degli Stati Uniti d’America che stava provando a fare alla moglie di un suo amico quello che va facendo da anni al mondo intero (nella realtà, non nella finzione). Il ladro gentiluomo non sa che pesci prendere e via di seguito, con tanto di complesso edipico irrisolto con la figlia. Buon ritmo, regia decente, ottimi attori (Hackman, la Davis e, vai!, Eastwood, ieratico nella sua immota inespressività) e anche tante frecciate al potere presidenziale: esemplare la scena del ballo, con grandi sorrisi alla stampa e alla televisione mentre si progettano efferate malefatte. Presente Reagan? Faceva sempre il pagliaccio davanti alle TV: tutti pensavano che fosse un po’ coglione e intanto smazzettava denari alla Contra, a Noriega, all’Iran, massacrava un po’ di civili libici etc. Il patriota Clint si prende il gusto di pigliare per i fondelli quel maniaco sessuale di Clinton ma non molto di più, dài. Anche se alcune battute sono azzeccate: “Giusto o sbagliato, questo è il mio Presidente” e ancora “Pietà? Ho finito la scorta!”. (Cinema Sociale; 18/8/97)
41-Compagna di viaggio di Peter Del Monte, Italia 1996
Cora è una giovane ribelle dalla vita affettiva disordinata che, per guadagnare qualche lira, accetta il compito di controllare che un vecchio professore rimbambito non si perda per le strade di Roma. Ma il prof. scappa. Lei è Asia Argento, intrigante e scontrosa adolescente dall’apparato mammario che risveglia incontrollabili fantasie d’allattamento. Lui è il grande Piccoli, tenero e svagato. Il racconto, accettata l’inverosimiglianza della situazione, procede un po’ lento, ma i due personaggi sono ben tratteggiati e la loro interpretazione è notevole: il film mi prende e gli si perdonano il ricorso ad alcuni stereotipi narrativi, non ultima l’ennesima scena con vomitata post sesso mercenario. Benino, dài. (Vhs; 1/9/97)
45-Stéphane una moglie infedele di Claude Chabrol, Italia/Francia 1968
Charles è un grasso e compiaciuto assicuratore. È ricco e appagato e, la sera, gode ottuso della visione del suo apparecchio televisivo da 15 pollici. La moglie ha ben altri grilli per la testa e la sera preferirebbe godersi qualcos’altro: va a finire che rende il marito cornuto. Da qui si dipana uno pseudo thriller che Tarkovskij avrebbe narrato con più ritmo. Alcune trovate sono decisamente interessanti e Chabrol fornisce un ennesimo ritratto della borghesia acido e pungente, ma, signori miei, che gran rottura di zebedei… La recitazione è statica e i dialoghi inesistenti: lo so che con un maestro come Chabrol bisognerebbe ragionarci un attimo, ma il mio scoglionamento è a livello di guardia. (Vhs; 3/9/97)
46-La cena delle beffe di Alessandro Blasetti, Italia 1941
Il primo spettacolo televisivo della serata è sempre un po’ drammatico: hai appena cenato e il divano è un sofà pronto ad accogliere il tuo corpo intorpidito. La mente vacilla, gli occhi si chiudono a intervalli regolari, ti dici “Ce la faccio… li chiudo un attimo… tanto è un momento in cui non accade nulla…”. Poi finisce che ti addormenti come un tronco. Al secondo spettacolo, invece, superata la digestione e con la caffeina che inizia a fare il suo mestiere, s’inizia a essere più pimpanti, finché, verso le undici, ti sembra di essere diventato una civetta. Ecco, più o meno, tutto ciò è avvenuto stasera. Quella stronza di Stéphane ha messo a dura prova la mia resistenza (ma purtroppo non mi sono addormentato), però poi ero talmente arzillo da optare per La cena delle beffe, epocale film di Blasetti. Siamo nel Rinascimento e Neri Chiaramontesi e Giannetto Malespini, da sempre divisi da un odio feroce, tentano un’improbabile rappacificazione. Occasione dell’incontro è la famosa “cena delle beffe”, in cui il perfido Giannetto incastra Neri, facendolo passare per matto e arrestare. Mi astengo da qualunque rivelazione sul finale, ma vi rendo noto che il Mereghetti, incredibilmente, non vi dice tutta la verità. Il film ha un bel ritmo ed è ben sostenuto, seppur con le limitazioni recitative dell’epoca, dal roccioso Amedeo Nazzari (Neri) e dai suoi comprimari. Il dramma è pure bello ambiguo e, a suo modo, anche sensualmente provocatorio. Tutti saprete del famoso primo capezzolo nudo della cinematografia italiana (il consueto razzismo nei confronti del porno!), quello di Clara Calamai… ma non solo: l’attrice, che interpreta la cortigiana Ginevra, appare spesso e volentieri in un quattrocentesco vestito semi trasparente, un tivedonontivedo che fa intravedere tutto. In pieno fascismo e con un comune senso del pudore medioevale, deve aver rappresentato qualcosa di veramente pazzesco. Ma torniamo al fosco dramma che ha dato adito alle più svariate interpretazioni. Nelle prime sequenze il pubblico non ha dubbi nel rivolgere le sue simpatie: Giannetto è vessato dal prepotente Neri, uno stronzo Patrick Swayze anni Quaranta, con voce baritonale, postura come se avesse un bastone nel culo e allarmante rigidità facciale. Poi, nel momento in cui Giannetto si dimostra un viscido vile, devo dire che la debordante e sfrontata vitalità di Neri sembra molto più accattivante. Niente male per un film dell’epoca. La regia è sobria, le scenografie decisamente immaginifiche e i dialoghi suonano un po’ datati (“Fellone! Manigoldo! Tu, Ginevra, me l’hai goduta!”) e si sfiora il ridicolo quando una cortigiana chiede a Neri di dimostrarle che non è pazzo mutando le espressioni del suo viso, richiesta che potrebbe sembrare una prece del regista allo statuario Nazzari per smuoverlo dalla sua fissità recitativa. (Vhs; 3/9/97)
48-El cochecito di Marco Ferreri, Spagna 1960
Serata d’onore al Nettuno, in memoria del grande regista recentemente scomparso e c’è uno dei suoi primi film, tratto da un romanzo di Azcona (cosceneggiatore di molti altri lavori di Ferreri) e vincitore del gran premio dello Humour Noir di Parigi del 1960. E questo premio rende bene l’idea, infatti El cochecito narra la grottesca storia di don Armando, invidioso dei suoi coetanei pensionati che, per disgrazie varie, hanno la fortuna (?) di possedere delle carrozzine motorizzate con cui scorrazzare per la città. Anche lui vuole un cochecito, lo pretende, e simula immaginarie malattie, ma, dal momento che la sua famiglia non pensa neanche lontanamente a soddisfare l’infantile desiderio, il diabolico vecchietto li stermina tutti. Ma la fuga, a bordo di una scoppiettante sedia a rotelle, non durerà molto. Cattivissimo e divertente, mostra già tutte le caratteristiche del futuro lavoro del corrosivo regista e, nei nostri educatissimi anni, è una salutare boccata di cinismo. (Cinema Nettuno; 5/9/97)
51-Il silenzio è d’oro di René Clair, Francia 1947 e Venezia 1997
Il silenzio è d’oro è l’atto d’amore che Clair dedicò al cinema muto degli esordi e io, francamente, mi sono rotto le palle di atti d’amore. Sono giornate insopportabilmente stracariche d’amore e non ne posso più: milionate di inglesi che compravano milionate di riviste, le quali compravano – a milionate – le foto che documentavano le love story di Lady Diana, sono a piangere dietro al feretro della principessa, senza realizzare che sono loro i mandanti e gli esecutori. E pure responsabili del fatto che un patetico cantante con il parrucchino ricicli al funerale una canzone già scritta per Marylin Monroe. In India è intanto passata a miglior vita anche Madre Teresa di Calcutta e, anche lì, tanto amore. Soltanto che gli indiani sono piccoli, scuri e pezzenti e allora la vicenda passa un po’ in secondo piano. E c’è tanto schifosissimo amore anche a Miss Italia: alla fiera del voyeurismo pantofolaio dell’italiano medio sfila una ragazza cieca, paradosso orgasmico che farà masturbare dalla gioia certi fissati (per chiarimenti vedi la recensione n°22). In tutta questa melassa diffusa, come posso essere buono? Clair cura molto la ricostruzione della Belle Epoque e non sfigurano gli attori, ma il ritmo è blandissimo e le situazioni ripetitive. Insomma: una gran rottura. E son nervoso perché, come se non bastasse, stasera c’è pure stata la premiazione di Venezia che è risultata come al solito squallidissima. Nessuno, a parte Virzì, aveva voglia di parlare e nessuno aveva voglia di fare domande o, peggio, era in grado. Presentava Simonetta Martone, visibilmente in difficoltà, accompagnata da una giornalista polacca (se non ho capito male). Come dire: una parla l’italiano, l’altra ci mette i contenuti. Quando poi la presentatrice ha provato a fare un po’ la spiritosa con Rosi, che a nome della giuria premiava Kitano, c’è stata una folata di gelo. L’ironia ha sfiorato l’anziano regista come un Pendolino in corsa. Kitano, da par suo, ha parlato un incomprensibile inglese che nessuno ha capito né tradotto e poi s’è messo a fare le boccacce. È pazzo. Per il resto? La migliore attrice sembrava in preda a un crisi di panico e ha dedicato il premio a Patricia Hearst; il mitico Shinya Tsukamoto è parso folle come i suoi film; la Rampling è sempre bellissima e Pontecorvo è sempre abbronzatissimo e ride senza motivo. Ed è andata fin bene, rispetto agli esordi di questo Festival. Settimana scorsa Michele Mirabella ha presentato la serata inaugurale e, dopo un imbarazzante siparietto con Willem Defoe (“You are german? Deutsch? English?”), ha veramente stracciato qualunque gaffe di Mike Bongiorno. Dunque: Antonioni e la Fico ritirano il Leone d’oro (periodicamente la casa del regista è svaligiata e gli fregano sempre i premi; secondo me è lui che vuole essere premiato di nuovo). Il presentatore porge alla coppia un microfono per i ringraziamenti di rito e la Fico si distingue per tatto: “Parlo io”. Mirabella non si scompone: “Lo credo!”. Povero Antonioni, manovrato come una marionetta, testimonial di borsette in una squallida pubblicità e infine costretto a subire anche queste umiliazioni pubbliche. Ossignur! Perché non gli hai reso la possibilità di favellare correttamente almeno un’altra volta, giusto per il tempo di mandarli a cagare in diretta televisiva? Giornataccia. (Vhs; 7/9/97)
52-Comizi d’amore di Pier Paolo Pasolini, Italia 1964
Come siamo nati? Pier Paolo Pasolini rivolge questa semplice domanda a dei bellissimi bambini del Sud e riceve fantasiose risposte: sotto le coperte, m’ha portato la cicogna, il classico cavolo… Bene: gli italiani, in materia di sessualità sono proprio come dei bambini: sanno poco e confusamente. Pasolini si mette in viaggio per ascoltare tutti, dalla saggia contadina che vede nella libertà sessuale un modo per non “lasciare figli per il mondo”, fino alle intellettuali e un po’ snob signore “milanesi” (la Cederna, la Fallaci). Pasolini ha una voce suadente e dolce e intervista con pazienza il bracciante meridionale che risponde sempre “Eeeh see, eeeh see…” o la bellissima Antonella Lualdi; non si scompone davanti al bauscia che definisce l’amore uno hobby da praticare quando rimane un po’ di tempo libero o alle parole della vigorosa signora toscana che dichiara che “lo farebbe a tutte le ore”. C’è pure Peppino Di Capri che sembra completamente scemo. Le donne sono tutte a favore del divorzio, gli uomini un po’ meno: “Perché è contro il divorzio?” chiede PPP: “Perché sono calabrese; perché, se sono cornuto e c’è il divorzio, rimango cornuto. Ma se non c’è il divorzio la uccido e salvo l’onore”. Tutti, maschi e femmine, condannano l’omosessualità e la legge Merlin che ha provocato “cose spaventevoli nelle campagne”. Grazie a Dio, da allora, forse qualcosa è cambiato, perché sembra un film girato nel Medio Evo. Pasolini lascia parlare molto e dà giudizi sfumati, se non nella ferma condanna della repressione cattolica. Il documentario è ben montato e costruito; forse i momenti più noiosi sono le pedanti osservazioni di Moravia e Musatti. Film dolcissimo. (Vhs; 7/9/97)
53-Castelporziano Ostia dei poeti di Andreas Andermann, Italia 1980 featuring Gabriele La Porta!
Sono in consueta attesa di un film notturno su RaiTre e, tra capo e collo, chiaramente non annunciato, m’arriva questo mediometraggio assolutamente sconosciuto ma molto stimolante. È il 31 maggio 1980 e a Castelporziano si tiene il “Primo festival internazionale dei poeti”. C’è un’immensa cagnara e il luogo è zeppo di gente venuta per ascoltare poesia. Ma è anche pieno di fricchettoni d’antologia, di profittatori interessati soltanto a scroccare un minestrone, di fumati, di nudisti, di chitarre, di chiloom enormi e di tutto l’armamentario per credere di essere a Woodstock. In un casino inaudito si arriva a contestazioni, prese di posizione, insulti, botte, gavettoni (giuro!), poi l’oooom placido di Allen Ginsberg riporta la calma (nella finzione cinematografica, non so nella realtà). Sul palco, semi distrutto, si alternano poeti riconosciuti e dilettanti che subiscono risate, ma anche applausi per il loro coraggio. E la poesia diventa coinvolgimento, ritmo declamatorio, musica: il grande Leroy Jones a.k.a. Amiri Baraka (autore del fondamentale Il popolo del blues), nell’entusiasmo generale, sembra che reciti un rap. Partecipano (tra quelli che conosco) Corso, Orlovski, Burroughs, Evtuenko e Bellezza; gli altri, sorry, mi risultano sconosciuti. Si conclude con le consuete note di harmonium di Ginsberg e le parole di Pasolini… stacco e… eccoti La Porta! Che ripete per la millesima volta che vuole i tuoi Super8. Mi sa che a Castelporziano c’era pure lui. E magari gli hanno menato. Magari. (Diretta TV; 8/9/97)
54-La presa del potere di Luigi XIV di un pesantissimo Roberto Rossellini, Francia 1966
L’Unità — il quotidiano allegato a delle videocassette — mette fine alle estenuanti ricerche di mio padre che, dopo tanto parlare, mi può finalmente far vedere questo benedetto film. Consulto libri, guide e almanacchi, e ovunque è un trionfo: il progetto di cinema didattico di Rossellini trova la sua più compiuta espressione nel racconto della presa del potere di Luigi XIV. Ed è un colossale cagamento di cazzo. S’inizia con la lunga agonia del Cardinale Mazzarino e non posso che osservare che il film funziona alla grande: infatti anche lo spettatore assapora l’alito della morte. Grazie a Dio, dopo un quarto d’ora, appare il personaggio principale che, per ammirevole dedizione alla verità storica, è un nano grasso e tronfio. La vita di corte è osservata senza compiacimento ma, di nuovo, con ferma adesione ai fatti. Il Re si sveglia, scende dal letto (ed è alto come quando sul letto era seduto), finge di lavarsi mentre la consorte fa sapere alla corte tutta che hanno nottetempo consumato. Poi lo vestono e iniziano le quotidiane occupazioni, che vanno dalla politica ai giochi di società, in una noia che pare mortale e che il film trasmette puntualmente. Luigi XIV, ora che Mazzarino è schiattato, decide di accentrare su di sé tutto il potere del regno: elimina gli avversari, promulga decreti, segue i lavori a Versailles, promuove la costruzione di palazzi e industrie… “L’État c’est moi!” e non solo: per indebitare e legare sempre più la nobiltà alla corte (evitandole la cattiva compagnia dei borghesi vieppiù incacchiati, come si vedrà circa un secolo dopo) impone un gusto nell’abbigliamento che potrebbe essere forse concepito soltanto dal sarto di Lenny Kravitz, in acido però. E si arriva alla fine del film, dopo un lunghissimo desinare (14 portate) che il panzone consuma con studiata lentezza. Ineccepibile ricostruzione, finissima scrittura, belle ambientazioni… lo so che mi attirerò addosso scomuniche, strali e insulti, ma che due coglioni. Ed è pure zeppo di luci sbagliate, tiè. (Vhs; 10/9/97)
57-Roger & Me di Michael Moore, USA 1989
Michael Moore è un figlio di Flint, Michigan, dove, sul finire degli anni Ottanta, la General Motors ha chiuso parecchi stabilimenti industriali mettendo 30mila persone su un marciapiede e condannando la città a un inesorabile declino. Moore racconta la sua storia: non aveva la stoffa per lavorare come tutti i suoi concittadini alla G.M., i suoi modelli erano i Grand Funk Railroad (viscerale e cafonissimo gruppo di hard rock dei primi anni Settanta). Allora se ne andò e fece fortuna come giornalista altrove. Oggi però ritorna nella città natale per raccontare la drammatica crisi di un posto che, già di suo, tanto ridente non doveva essere. Il documentario è scandito dagli inutili tentativi di poter intervistare quel geniaccio di Roger Smith, il capoccia della General Motors. Lo spettatore è frustrato tanto quanto il regista nell’impossibilità di sapere i motivi della dura politica aziendale; poi, verso la fine del film, sentiamo parlare Smith e abbiamo l’impressione di ascoltare un mentecatto. E questa rivelazione, più della semplice legge del profitto, spiega il perché di questa sorta di urbicidio (esiste, esiste: è un neologismo recente). Le premesse (lettura della trama, genere e argomento) facevano pensare a qualcosa di ammorbante, invece il documentario ha notevoli qualità narrative, un acre humour e un ottimo ritmo. I cittadini di Michigan sprofondano nell’indigenza e nessuno alza un dito, tanto ci penserà l’american dream a salvarli tutti. Disoccupazione, povertà, aumento vertiginoso della criminalità, disperazione: gli allegri yankee non manifestano, non protestano, non si oppongono. Tutto sommato non aiutano neanche lo scomodo regista che gli vorrebbe dare voce. Si accontentano di tante promesse, di idoli incartapecoriti come l’immarcescibile Pat Boone, ascoltano beati Joy to the World e si bevono pure le panzane di quel cereo minchione di Ronald Reagan. Si rimane attoniti davanti a ‘sti schiavi ignoranti che però, va detto, hanno dalla loro questa incrollabile fiducia nel futuro. Infatti domani è un altro giorno e nessuno s’abbatte, disposto in qualche maniera a ricominciare. Questa incredibile sintesi di forza primordiale, ingenuità, rozzezza, praticità e istinto di frontiera sono perfettamente illustrati dalla scena in cui viene intervistata una tizia, ormai senza lavoro, che si barcamena vendendo conigli da compagnia e da cena. Guardando disinvoltamente in camera ne piglia uno, se lo sbaciucchia, lo stringe come un peluche e poi, senza tradire nessuna emozione, pem!, lo stende con una bella mazzata sul cranio, lo scuoia e lo eviscera, continuando a raccontare della crisi e della menate che le ha fatto la USL locale per il suo poco ortodosso commercio. Che pensare di ‘sti americani? Da un lato c’è un’aderenza irritante al sistema che glielo sta mettendo in quel posto, dall’altro c’è la capacità di riflettere criticamente su questa situazione, tanto che il film ha pure avuto successo. Boh. (Vhs; 13/9/97)
61-Profundo carmesì di Un Cialtrone, Messico/Spagna/Francia 1996
Atteso con trepidazione, arriva finalmente al Lumière uno dei film più celebrati dell’anno passato, il pluripremiato a Venezia Profundo carmesì di Arturo Ripstein (allori per sceneggiatura, musica e scenografia). E questi premi, nell’edizione che ha consegnato il Leone d’oro a Michael Collins e la Coppa Volpi a Liam Neeson e a una mocciosa, beh, qualche insinuante piccolo dubbio potevano farlo venire… ma andiamo con ordine: Nicolas è un patetico pelato Mr. Verdoux messicano che vive alle spalle di vedove e donne sole. Un bel giorno incontra la fetente e obesa Coral che, capito l’inghippo, si lega a lui e lo aiuta, con molta più cattiveria, nella sua opera. Insomma: non sarà parso vero a tanta critica di poter mostrare i quarti di nobiltà acquisiti nelle disastrate facoltà di Lettere italiane, ma eccovi un tripudio di recensioni in cui non si fa che ripetere come dei pappagalli: eros e thanathos, eros e thanathos, eros e thanathos… E certo, un po’ di musica malinconica, tanto rosso carmesì ovunque e tutti che ululano: aaah, bellissimo! e poi eros e thanathos, eros e thanathos. Questo film è invece una rottura di palle mai vista. È lungo, lunghissimo, e vuole giocare ambiguamente tra grottesco e drammatico, sfumando i due registri l’uno nell’altro, rimanendo invece irrisolto. Le svisate più comiche e surreali si esauriscono nelle gag del parrucchino del protagonista o pel fatto che lavori a maglia o ancora nel turpiloquio dei protagonisti (niente di male, ma fa ridere le prime due volte, poi…). Il versante drammatico è gestito molto meglio, ma trova credibile compiutezza soltanto nelle inquadrature finali. Per il resto la coppia va avanti massacrando ingenue donne (ne vediamo schiattare tre), ma se di questi tre episodi ne avessimo visto solo uno o due non sarebbe cambiato nulla (intendo come comprensione; come sopportabilità, altroché). I personaggi non crescono, non si svelano: sono già. E allora il film diventa una tortura, palloso e ripetitivo e non basta la performance dei vari attori. Caro Ripstein: mai sentito parlare di ritmo, sintesi, crescendo, sviluppo? Com’è che per dirci che due mattocchi vanno ammazzando gente per il Messico perché sono due mediocri, ci metti due ore e ce lo racconti male? Ma perché sei un cane! Perché non basta aver lavorato per trent’anni, collaborando con Buñuel e Garcia Marquez e altri. E che cazzo significa “una storia vera”? Chi se ne frega! E poi, sul set, dormivi? Com’è che le ombre vanno verso sud? C’è mica un bel proiettore dietro la macchina da presa, eh? Chi ha bevuto troppa tequila: tu o il direttore della fotografia, eh? Filmaccio. (Cineclub Lumière; 18/9/97)
64-Hamlet di Kenneth Branagh, USA/Gran Bretagna 1997
A me, Branagh sta sulle palle, ma tanto tanto. Per cui sono andato al Lumière già bello cazzoso. Mi ero però preparato coscienziosamente per la maratona portando meco, previa poderosa tazzata di caffè forte, diversi generi di conforto: un provvidenziale cuscino imbottito per prevenire piaghe da decubito, una litrata di Coca Cola, una confezione familiare di stick alsaziani, molte caramelle al selz e sigarette per gli intervalli. Ma il vero segreto è nel cuscino: mai usarlo prima dell’effettivo bisogno. Sui titoli di testa arriva un’allegra famigliola con mocciosi al seguito. Il cinema è vuoto, ma mi si piazzano davanti e sono in preda ad attacchi di furore ipercinetico. In verità sono stoici a sopportare quattro ore di proiezione, molto meno io che cambio di posto dopo un’ora. La pellicola è in un formato grandioso che a malapena viene contenuto dallo schermo mignon dell’amato cineclub e, dopo pochi minuti, noto la straripante presenza di migliaia di attori, amici e amanti: ci manca Eduardo De Filippo giusto perché non è più tra noi. Kenneth Branagh si piglia molto sul serio e si riserva con generosità tante scene madri. Sopportata la sua invadente presenza bisogna anche rilevare l’indubbio talento visivo. C’è qualche caduta pacchiana, ma il film è soddisfacente: inizio ad avere problemi alle terga solo dopo tre ore. Hamlet (ho letto di una riproposizione integrale del testo) è ben recitato, notevolmente ambientato a Bleinheim Palace e girato con brio. Continuo ad avere dubbi sulla presunta genialità del britannico, che, a dirla tutta, considero un cretino, però mi sono ricreduto rispetto alla diffidenza iniziale. Certo, di questo passo Branagh prima o poi girerà La Bibbia, facendo semplicemente apparire un suo enorme occhio dentro un triangolo. Ma oggi è andata bene, lo ammetto. (Cineclub Lumière; 21/9/97)
65-Pomodori verdi fritti (alla fermata del treno) di Un Furbetto, USA 1991
Evitato ai tempi dell’uscita cinematografica, finalmente vedo questo mediocre filmetto di Jon Avnet che tanto ha fatto frignare le platee di tutto il mondo. Sarò sincero: è proprio una cagatina di film, bruttarello e girato con un insipido linguaggio televisivo. Ma in fondo inoffensivo. Cathy Bates è una cicciona insoddisfatta del suo matrimonio; diventa amica di un’arzilla vecchietta (l’immarcescibile Jessica Tandy) che inizia a raccontarle la storia dell’amicizia tra Idgie e Ruth, due anticonformiste ragazze nel profondo sud degli anni Trenta. Ho ridacchiato qua e là (perché le due attrici sono brave), non mi sono indignato per pigrizia e la visione è passata liscia. Per cui: dolciastro come una gollata di quel miele di cui vanno ghiotte le due protagoniste dei ricordi della Tandy, ma proprio elementare nei contenuti e banalissimo nella realizzazione. È uno dei film preferiti di Chicca: ciò significa che, quando abiterò a Milano a cento metri da casa sua, andremo molto poco al cinema assieme. Senza rancore e con tanto affetto, ma odio i ricatti emotivi, specialmente se sono girati pedestremente. (Diretta TV; 21/9/97)
66-Madonna che silenzio c’è stasera di Maurizio Ponzi, Italia 1982
Convinto anch’io che “chi tace sta zitto”, ritrovo questo tenero filmetto che vidi con mia madre all’uscita su grande schermo in un cinema che è diventato, nel frattempo, un supermercato. Francesco gironzola per Prato: cerca un lavoro, il padre, Maria – che l’ha lasciato – e fugge da sua madre che ancora non s’è rassegnata al fatto che viva da solo (nell’appartamento di fianco al suo). Passa la giornata provando a lavorare con un telaio omicida, vince un concorso per debuttanti con la canzone Tu c’ha le puppe a pera, bighellona con un bambino tremendo, prova a spostare la chiesa ed, infine, fallisce un incontro con una prostituta. Ma Maria lo chiama al telefono… Forse la nostalgia addolcisce la visione, ma trovo il film carino oggi come allora. Nuti non era ancora in preda a deliranti narcisismi e, va ammesso, era un mio idolo. Esiste un’imbarazzante lettera a Pier, opportunamente occultata, in cui mi sdilinquisco nel tessere le lodi dell’attore. E, scusate, non ritratto! Rimango dell’idea che è meglio un pessimo Nuti che un pessimo Benigni. E poi non capisco perché Nuti sia così odiato dalla critica: sempre lì a cronometrare i primi piani che si dedica, e poi, con l’imbarazzante OcchioPinocchio, tutti a dirgli che si crede Welles ne Il terzo uomo perché appare dopo cinquanta minuti… Decidetevi! Per conto mio, Francesco, ti aspetto. Molto critico ma semper fidelis. (Vhs; 22/9/97)
68-The Hot Spot di Dennis Hopper, USA 1990
Harry Madox giunge in una torrida cittadina del sud del Texas: trova lavoro come venditore di macchine usate e non gli bastano le grazie della sensuale moglie del principale. Compie allora una rapina che mette in moto una serie di imprevedibili reazioni. Certo, non è un film per tutti i gusti, ma è un gran film. A fianco della bella e virginale Jennifer Connelly c’è la diabolica e provocante Virginia Madsen. A completare il torbido triangolo l’immarcescibile Don Johnson cui, tra gli altri meriti, va ascritto il sapiente pestaggio di Melanie Griffith nella vita reale. È inespressivo e tozzo come richiede il ruolo; indimenticabile poi quando massacra di pugni un tipo che gli dice: “Tu sei un duro, eh?”. Al che, Johnson, impassibile: “No, sei tu il duro, io sono peggio” e giù una gragnuola di legnate. La regia è ammantata da una contagiante ironia (scena di seduzione, Johnson: “Tieni le mani a posto, se no te le spezzo”) e il tutto è condito da una straordinaria colonna sonora. Il Texas è la patria di tanti incandescenti bluesmen: si poteva scegliere facilmente tra Johnny Winter, Freddy King, Albert Collins, Stevie Ray Vaughan o i primi ZZ Top… invece no: ecco realizzato il magico incontro tra il ruvido sound di John Lee Hooker e l’algida tromba di Miles Davis. Fantastico. Dopo la visione incoccio nel Berlusca che straparla e apprendo che la Costituzione italiana è stata ricalcata da quella sovietica del 1936. L’affermazione, mi si consenta, mi pare un po’ esagerata. Vado a dormire ripetendomi Addavenì Baffone: a cosa ci si riduce. (Vhs; 23/9/97)
73-Stella solitaria di John Sayles, USA 1996
John Sayles merita riconoscenza eterna per quell’impreciso amabile video di Born in the U.S.A.: grezzo e asincrono eppure sincero, il perfetto contraltare visivo per una canzone spesso travisata… Che c’entra? Sayles mi sembra un regista generoso: non tutto funziona nelle sue cose, ci sono sempre qua e là difetti ed esitazioni, ma, alla fine, siamo sempre conquistati dalla forza civile dei suoi messaggi. Stella solitaria è un film onesto, non eccezionale, decisamente lento, ma gradevole. Sam Deeds, sceriffo di Rio County – profondissimo Texas al confine con il Mexico – deve indagare sul ritrovamento di un corpo. Deve lottare per vincere la diffidenza della popolazione e per guadagnarsi la stima e la fiducia che incondizionatamente andavano a suo padre, anche lui sceriffo. Come in una sorta di Strategia del ragno mariachi, Sam scopre verità buone e meno buone su suo padre, sulla sua vita e sui segreti che avvolgono la cittadina. Con un bel montaggio, Sayles lega passato e presente e ci parla della verità e del mito e della lotta per la dignità di neri, indiani e messicani di fronte alla prepotenza dell’uomo bianco. L’assunto limpidamente democratico è narrato con tono fermo e sommesso e risulta convincente. Lo so che m’è venuta un’altra recensione sciagurata, ma stasera sono un po’ traumatizzato perché dietro di me c’era un tizio che s’è palleggiato tra le mani una merendina impacchettata per dieci minuti. Poi l’ha aperta ed è iniziato il peggio, ciancicando a bocca rigorosamente aperta quello che si potrebbe supporre un “saccottino” del Mulino Bianco per altri cinque interminabili minuti. Stomachevole. (Cineclub Lumière; 29/9/97)
(Continua – 2)