di Danilo Arona
In un classico fantahorror degli anni ’50, The Fly di Kurt Newmann, da noi conosciuto come L’esperimento del dottor K (forse per un omaggio a Kafka e all’orrida metamorfosi di Gregor Samsa), c’è un passaggio altamente suggestivo che già in tenera età non mi convinceva affatto sul piano della logica narrativa (ammesso e non concesso che ce ne fosse bisogno…): quello in cui lo scienziato scombiccherato André Delambre destinava la sua gatta Isabelle a divenire la prima vittima delle imperfezioni della macchina che trasmetteva la materia vivente, perché la bestiola non riappariva nel secondo contenitore di reintegrazione degli atomi. Al che la micia si dimostrava di far udire il suo disperato miagolio proveniente da chissà dove e André si giustificava con la moglie dicendo che Isabelle era divenuta “ormai una corrente di atomi di gatto”.
Lo spunto era notevole e, con il senno del poi, degno di un adeguato sviluppo. Ma va pure sottolineato che il passaggio proveniva direttamente dal racconto originale di George Langelaan – là il gatto era un maschietto bianco di nome Dandelo al posto della femminuccia pelosa Isabelle – e la battuta umoristica e “sdrammatizzante” di André echeggiava quanto scritto da Langelaan, ovvero “Dandelo non esiste più, ci sono solo gli atomi di un gatto erranti. Dio sa dove, nell’universo”.
A me, per quanto piccolino, la faccenda non convinceva affatto. Perché, pur non essendo in grado di comprendere in pieno il concetto di atomizzazione riferito a un essere vivente, il miagolio ultraterreno della gatta Isabelle non mi pareva affatto logico. Se non si era rimaterializzata nel secondo contenitore di Delambre, significava che non esisteva proprio più in quanto smaterializzata. Interrogai più volte mio padre al proposito: come fa a miagolare se è smaterializzata? Giungendo a sospettare: ma, se sta miagolando, non è che è si è rimaterializzata in un altro posto così vicino al mondo visibile da poter essere udita, ma invisibile a chi la sente?
Mio padre alzava le spalle con rassegnazione oppure diceva “può darsi”. Il mio dubbio restò tale ma in qualche modo mi giunse una parziale risposta quando poco tempo dopo vidi in televisione un episodio di Ai confini della realtà che si intitolava La bambina perduta, scritto dall’immortale Richard Matheson e piuttosto famoso per essere stato “citato” in Poltergeist di Hooper/Spielberg. Lo ricorderete (se l’avete visto): un tale viene svegliato dal pianto della figlioletta e corre in camera sua per vedere che succede. Ma la bimba è scomparsa nel nulla, anche se si riesce a udire la sua flebile voce che sembra provenire da qualche imprecisabile direzione. I genitori sono disperati e, pensando che un aiuto concreto potrebbe arrivare da un amico che fa il fisico di mestiere, lo chiamano in soccorso. Costui arriva e, giunto nella camera della piccola, esamina la situazione e, sconcertato, trae l’unica conclusione possibile: nella stanza si è aperto un varco verso la quarta dimensione. Poi ci sono le ovvie manovre per far tornare la bambina nel mondo degli esseri solidi.
Matheson ammise di aver scritto il racconto ispirandosi a un fatto a lui realmente accaduto. Una notte aveva sentito la sua bambina piangere, ma una volta giunto in camera non l’aveva trovata perché la piccola si era infilata sotto il letto, appiattendosi completamente contro il muro. Quella vicenda lo turbò al punto da scrivere la storia, mantenendo il nome di sua moglie Ruth e di sua figlia Bettina.
Al di là delle tecniche fantascientifiche per far tornare la bambina nell’Aldiqua, la similitudine con la gatta Isabelle a me pareva evidente. E, se l’amico fisico di Matheson fosse transitato per la sceneggiatura di James Clavell approntata per The Fly, ne avrebbe tratto la conseguenza: esiste una Zona Quantica in cui si può entrare per caso e nella quale accidentali “atomizzazioni” possono andare a ridefinirsi. La Carol Anne di Poltergeist, rimasta sola nella sua cameretta, viene risucchiata da un vortice luminoso apparso dal nulla e scompare senza lasciare traccia. Quando ormai i familiari disperano di trovarla, la sua voce si fa sentire appena percettibile attraverso l’audio del televisore, soffocata dai rumori di fondo. La mitica medium Tangina, chiamata in aiuto, fa il paio con il fisico amico del padre della “bambina perduta” in Ai confini della realtà: Carol Anne è prigioniera in una zona invisibile, un invisibile limbo interfacciato, collocato a metà strada tra il mondo concreto dei vivi e uno che definiamo per capirci Aldilà. In questa sorta di territorio intermedio si raccoglierebbero, secondo Tangina e secondo anche numerose scuole di pensiero non necessariamente cattoliche, pure le anime dei trapassati che non sono ancora tanto convinte di non essere più vive e che vagano inquiete senza rassegnarsi a imboccare il famoso “sentiero di luce” che li porterebbe verso un nuovo stadio dell’esistenza. Non entro nel merito perché sono un felice agnostico, però l’ipotesi di una zona intermedia esistente accanto alla nostra con le caratteristiche di “quarta dimensione” è affascinante. C’è ad esempio chi sostiene che in questo “luogo”, definito anche “basso astrale”, le entità errabonde siano in grado di collegarsi al subconscio di una persona “vivente” influenzandone i processi mentali, le emozioni, il comportamento e anche il corpo fisico. In questo modo l’entità diventa un parassita nella mente e nello spirito dell’ospite, una sorta di versione laica e fantasmatica della possessione. E i parassiti possono anche essere più di uno, addirittura molti, il che spiegherebbe perché di tanto in tanto si sente dire da certi esorcisti che hanno liberato persone possedute da una moltitudine di spiriti.
Il discorso a questo punto rischia di farci scantonare perché le implicazioni sono troppe non ultime quelle alla David Icke che identifica il basso astrale come la zona in cui risiedono abitualmente spiriti vaganti e non meglio precisati demoni. Certo è che le intuizioni alla Langelaan partorite negli anni ’50 sembrano rifarsi più alla teoria delle stringhe e al multiverso, il che renderebbe un po’ più stabile la mia infantile logica di allora (perché Isabelle miagola se è stata smaterializzata?). La gatta e le bambine scomparse avevano dunque effettuato un casuale “salto di confine”, finendo in una dimensione parallela che, per convenzione letteraria o filmica, sarebbe la succitata “quarta dimensione”, come accadeva anche per il film del ’59 4D Man, in italiano Delitto in quarta dimensione. Le loro disavventure, per la gatta non a lieto fine (ma chissà se dell’altra parte avesse trovato nuovi padroni?…), più che a una zona diversamente dimensionale evocano la teoria del mondo-Brana – dove le “Brane” sono membrane n-dimensionali che vanno a costituire un’infinità di universi paralleli immersi nell’iperspazio. A dirla semplice, Isabelle e Dandelo sono (sarebbero) finiti in un universo a noi contiguo, collocato a fianco del nostro all’interno di un “Bulk”(alla lettera, “Massa”) che farebbe da contenitore alle varie rispettive estensioni, aventi tutte proprietà metriche tridimensionali (quadridimensionali, comprendendo anche la dimensione tempo). Gli universi paralleli sarebbero allora posizionati l’uno accanto all’altro, come i fogli racchiusi in un libro: composto da pagine bidimensionali ma che nel loro insieme sono inserite in un contenitore (il libro) con tre dimensioni, il che significherebbe che all’interno d’un ampio vuoto iper-spaziale, tanti universi non dissimili dal nostro siano così contigui da sfiorarci ma senza noi poterli percepire direttamente, tranne in rari casi di “straniamento” o eventi bizzarri, in quanto le forze naturali (come quella elettromagnetica) captabili da apparati sensoriali e/o tecnologici, restano confinate nelle dimensioni del loro luogo cosmico originario. I piani su cui materialmente risiederebbero tali universi sono appunto le “membrane” o le “Brane” di cui sopra.
Pensate, pochi secondi di un film universalmente ricordato per il finale della mosca con la testa di un uomo (lo scienziato Delambre) imprigionato nella tela di un ragno (Aiuto! Aiuto!), a quanti impliciti spunti di riflessione possono condurre con lo strumentale senno del poi. Molto cinema di fantascienza degli anni ’50 e ’60 abbonda di tali inconsapevoli suggerimenti. Come dice l’amico Giovanni Mongini, età dell’oro non a caso.