di Vittorio Catani
Aprii e, stupefatto, la vidi sulla soglia. Rigida, ma come se nulla fosse mai accaduto. Esclamai con un tremito: – Lorna… sei tu! – Avrei voluto caderle ai piedi, abbracciarle le ginocchia, fare salti di gioia, piangere, ridere, ma restavo immobile. Nonostante i dubbi e i costi avevo infine acconsentito, pressato da agenti pubblicitari del Centro e solleticato dalla travolgente novità. Ma non credevo che sarebbe tornata così presto, con le sue gambe.
Entrò lentamente in casa e disse con una voce un po’ soffiante: – Ora mi chiamerai Lazzarella –. Non capii il perché di quel cambio di nome. Si accostò per posarmi sulla guancia un bacio leggerissimo, che sentii freddo. D’istinto mi ritrassi appena, con una specie di pelle d’oca. Pensai che fosse una reazione ipocrita. Dissi: – Vieni… stavo mangiando qualcosa e…
Camminò in silenzio verso il tavolino in stile. L’avevamo acquistato insieme anni prima. Ricordai quel giorno luminoso, ricordai la nostra spensieratezza.
Sul ripiano c’erano una grande fotografia in una semplice cornice d’argento, e il vaso di cristallo ricco dei fiori che tanto le piacevano: rose d’un rosso sanguigno e crisantemi rosa, con molti boccioli. Mi avvicinai: – Scusa… avessi saputo per tempo avrei… – No – soffiò come ipnotizzata, – lascia così –. Rimase a lungo dinanzi al tavolino. Entrando in cucina scrutò l’ambiente quasi lo vedesse la prima volta, le centinaia di giorni che aveva trascorso lì dentro sembravano spariti. I resti del mio pasto: fette biscottate, succo di frutta, sushi, un’insalata di fiori di crisantemo.
Da quel momento Lorna – meglio Lazzarella – rientrò nella mia vita. Ne era uscita appena venti giorni prima in modo traumatico. Anche per me. La corsa affannosa in ambulanza con lei in una situazione disperata, l’inutile arrivo all’ospedale. Un embolo aveva concluso l’evento in modo molto sbrigativo, quasi “pulito”: pareva semplicemente che dormisse. C’era un leggero sorriso sulle labbra, appena sghembo. Come se nonostante la sua condizione, sapesse cosa probabilmente l’aspettava.
Lazzarella era uno dei primi esempi di Rianimati. Oggi non fanno meraviglia, ma a quel tempo eravamo ai primordi. Non era facile che il trattamento riuscisse, il decesso doveva avvenire in modo tale da permetterlo. La tecnologia della resurrezione si era appena trasferita dai laboratori sperimentali alle cliniche specializzate. Nel corpo di Lazzarella una piccola pompa aveva sostituito i polmoni collassati per permetterle di “parlare”. Oltre ai numerosi congegni interni, i catalizzatori della rivitalizzazione erano miliardi di liposomi. Microscopiche capsule di medicinali, nel surrogato della circolazione sanguigna, ridavano energia alle cellule e le proteggevano dai detriti dei danni ischemici. Nei liposomi c’erano enzimi che utilizzavano le estreme risorse delle cellule morenti, per prolungare uno “stato probabilistico di esistenza”. Oggi queste tecniche si sono molto evolute, ma sulla faccenda non saprei dirvi altro. Da quel giorno anche per me incominciò una nuova vita.
Lazzarella era pallida eppure scura. Era opaca, silenziosa, inesplicabile. Da ignari avreste potuto scambiarla per una persona normale, a parte la pelle più fredda, o più fresca, e lo strano colore della sua carne che denunciava una violenza dalla natura. Sedevamo sul divano a fissarci, nella penombra di pomeriggi senza tempo. Lei non seguiva la tv, mi pareva non s’interessasse a nulla, eppure assorbiva ogni dettaglio di me, del mio viso, delle mie poche parole. Non sapevo se gioire o pentirmi d’aver acconsentito a farne una Rianimata. Certo che a guardarla mi struggevo. Era ancora lei, era davvero Lorna?
Fu in uno di quei lenti, polverosi pomeriggi – non era trascorso un mese dal suo ritorno – che Lazzarella mi chiese di baciarla. Sentivo che prima o poi il nodo sarebbe giunto. E sapevo che non avrei potuto rifiutare: significava vanificare tutto. Acconsentii. Volli baciarla come ai vecchi tempi, ma posai le mie labbra sulle sue con timore. Non erano fredde ma solo fresche, e scoprii che il suo alito profumava di gigli.
Poco tempo dopo mi svegliò di notte. Lei aveva un sonno breve, estremamente leggero. Vegliava silenziosa, forse pensierosa (chissà su che) fino al mattino. Erano circa le tre e mi fissava con iridi azzurre come un riflesso di ghiacciai, ma sempre leggermente offuscate. – Facciamo l’amore – sussurrò. Anche stavolta fui combattuto, ma non seppi rifiutarmi. L’avevo voluta Rianimata e dovevo accontentarla in ogni suo desiderio. Lorna era stata la donna della mia vita, non avrei guastato tutto proprio ora. Far l’amore con lei, con il suo corpo che stentava a non restare rigido e a darmi un po’ di calore, che aveva movimenti strani, quasi convulsi, mi sconvolse per settimane. Pure non mi dispiaceva. Ne ero spaventato e ne ero felice. Mi gratificava soprattutto pensare che fossi io a dar calore a lei. Lazzarella incominciò a uscire. Io non le chiedevo dove andasse. Ma sapevo che la resurrezione si stava diffondendo, si vociferava che nascessero gruppi spontanei di Rianimati. Si incontravano in grandi stanze scure, lontani dal mondo dei vivi. I luoghi preferiti erano case semidiroccate alla periferia della città o casolari di campagna. Sedevano per terra, in cerchio, e in qualche modo misterioso comunicavano intensamente fra loro.
Incominciò ad assentarsi. Usciva verso l’imbrunire. – Dove vai? – le chiedevo. Lei mi guardava a lungo, ma non rispondeva mai. Lenta, silenziosa, richiudeva dietro di sé la porta. Agli inizi le sue assenze duravano al più un paio d’ore, ma pian piano i tempi si dilatarono. Una sera uscì; l’attesi fino a mezzanotte, poi innervosito decisi di andare a dormire. Non chiusi occhio. Udii la porta di casa aprirsi e richiudersi alle sei di mattina. Venne direttamente in camera da letto. Dove sei stata, sei impazzita? – le urlai contro. – Se avessi tardato ancora avrei dovuto denunciare la tua scomparsa! Perché mi tratti così? –Come al solito non rispondeva. Ora aveva preso l’abitudine di contestarmi con una specie di broncio fissandomi con insistenza, quasi con impudenza, finché non abbassavo gli occhi.
Lazzarella “visse” con me circa sei mesi. Capii che la stavo perdendo quando si allontanò per due giorni. Fu una sera in cui si vestì e vidi che preparava un vecchio borsone malridotto. – Dove vai? – chiesi brusco. – Cos’hai là dentro? – Non fiatava. Mi avvicinai infuriato e le strappai la borsa di mano. L’aprii. Dentro c’erano vestiti smessi da anni. Gli stessi che a volte indossava in casa o se usciva. Ignorava sempre il suo guardaroba più recente. Indispettito, gettai il borsone per terra andandomene in un’altra stanza. Quasi subito udii la porta che si apriva per richiudersi.
Dopo i primi tempi non mi chiedeva più di far l’amore, e se mi accostavo per baciarla non rifiutava ma restava immobile, allontanandomi solo con le sue labbra gelide.
Una sera si vestì. Vidi che non aveva con sé il borsone ma un trolley. Mi sentii male. – Che vuol dire? – chiesi, tendendo un indice accusatore verso il bagaglio. – Ciao, Piero – disse. Mi avvicinai a lei. – Ti prego – sussurrai, quasi con le lacrime agli occhi. – Non mi abbandonare. Non resisterò mai senza te, lo sai –. Per tutta risposta Lazzarella aprì la porta. – Ingrata! – urlai fuori di me. – Avrei dovuto lasciarti marcire con i vermi! Con quelle migliaia di euro avrei potuto fare un viaggio intorno al mondo in compagnia di qualcuno migliore di te! – Il “te!” coincise col botto della porta che si serrava. Immediatamente mi pentii per ciò che avevo detto. Ma correrle dietro sarebbe stato sciocco. Anzi, mi stavo già comportando da sciocco. Rianimata o non Rianimata, una persona restava padrona di se stessa. Ero stato un ingenuo a credere di ritrovarla identica, sperare di trattenerla sempre per me.
Tornò dopo una settimana, ma per prelevare altri oggetti personali. Era sera. Capii che l’avevo persa per sempre. Prese vestiti e vari oggetti mentre con insistenza io la fissavo e ne seguivo i movimenti. Andò via dopo una mezz’ora e in tutto quel tempo non scambiammo parola. Decisi di pedinarla. A piedi, arrivò fino all’estremo limite della città, per entrare in un caseggiato buio e deserto. Mentre imboccava l’ingresso vidi uscire un Rianimato. Ormai li riconoscevo. Poco dopo ne entrarono altri. Rimasi appostato almeno due ore. Il caseggiato restava sempre buio. Mi venne un pensiero: che amasse, a suo modo, qualcuno dei Rianimati suoi amici. A suo modo, ma sarebbe stato sempre amore per qualcun altro. Tornai a casa inebetito.
Una sera sedevo davanti alla tv senza guardarla. La solitudine pesava come un macigno. Mi crebbe una rabbia sorda, una fiammata incontenibile. Uscii che era circa mezzanotte. Quasi corsi per la via, finché non giunsi a quella che era diventata la sua nuova residenza. Presi la mia torcia. Facendomi luce entrai nel caseggiato. I Rianimati della città non erano poi tanti. Si erano radunati al primo piano. Se ne stavano seduti per terra a gruppetti, nel buio praticamente totale d’una stanza disadorna senza vetri alle finestre. Individuai subito Lazzarella accanto a un Rianimato. Non ci vidi più. Corsi verso di lei. Mi fissò. I suoi occhi erano impenetrabili. In quel momento sentii in me dolore, solitudine, desiderio di vendetta, disperazione assoluta e non so cos’altro. Mi ero illuso di colmare con le tecniche traditrici la distanza che separa la vita dalla morte; scoprivo che questo errore aveva trasformato la crepa in una voragine che rischiava di inghiottirmi. Lazzarella non poteva più vivere con me, eravamo troppo lontani. Abitanti di due mondi alieni. In un raptus l’afferrai, la denudai e le strappai il cordone ombelicale che alimentava il flusso vitale di liposomi. Cadde a terra in un lago d’un liquido viscido e indefinibile che continuava a defluire.
Lazzarella morì definitivamente pochi minuti dopo, sul pavimento lercio e scrostato, in preda a lente convulsioni. Non c’è modo di rivitalizzare chi sia stato già rianimato, se le cellule hanno subìto un grave deterioramento. Non fu un delitto: tuttora non esiste legge che punisca un gesto come il mio. Per definizione non si può uccidere una persona già morta. Rimpianti? Non so. Forse. Dopo averla uccisa, non ho ricordi del mio ritorno a casa. Rammento uno sciocco dettaglio. Aperta la porta, mi fermai dinanzi alla foto e ai fiori: i boccioli si erano trasformati in grossi, carnosi crisantemi rosa o in rose sanguigne; colori urlanti e un profumo stordente. Scaraventai tutto per terra.
Ma che nessuno mi parli più di rianimazione.