di Dziga Cacace
126-Alcuni spezzoni di Geni, Rompipalle, Fascisti e Mestatori Vari
In una settimana soffocata da un caldo palustre e sfregiata da lavori estenuanti, non riesco a vedere neanche un film intero. Siccome l’astinenza da monitor è troppo forte, allora commento i brevi spezzoni che hanno punteggiato le mie serate. La prima, su RaiUno c’è la diretta di Italia-Brasile. Non è un film, okay, ma se una partita di calcio come Italia-Brasile del 1982 v’è rimasta talmente impressa da poterla raccontare per filo e per segno, se il suo svolgimento ha assunto contorni mitici, se quel leggendario incontro ha segnato la vostra infanzia e gli anni a venire, se ancora avete il cuore in gola quando Eder batte l’ultimo corner a due minuti dalla fine e Oscar schiaccia il pallone di testa con Zoff che para miracolosamente sulla linea e se ancora v’indignate quando l’arbitro annulla il gol di Antognoni per un inesistente fuorigioco… Beh, se tutti questi ricordi s’innescano non appena vedete una maglietta verde-oro, allora sí, Italia-Brasile è sempre come un film.
Per la precisione: Italia-Brasile 3-2 del 1982 è il film originale, mentre gli altri incontri sono i sequel (o prequel, vedi Italia-Brasile 1-4, all’Azteca nel 1970), alcuni riusciti, altri meno. Questo Italia-Brasile è stato, per l’appunto, un sequel assolutamente straordinario. La recitazione è stata incredibile: i ventidue in campo hanno onorato impegno e copione e nel caso di alcune primedonne (Del Piero, Dennilsson, il Maldini del primo tempo, il Romario del gol) s’è raggiunto un livello interpretativo forse gigione, ma comunque strepitoso. La regia dei due commissari tecnici s’è dimostrata fin da subito azzeccata, impostando una partita vibrante e spettacolare. Meno godibile, ma importava proprio poco, l’apparato tecnico: il commento sonoro di Pizzul era un po’ paludato, mentre i movimenti di camera nulla aggiungevano all’avvincente plot. Conclusione: un film eccezionale che m’ha riconciliato col calcio. Più tardi RaiTre ha mandato in onda Confortorio, film di Benvenuti (già regista del temibile Tiburzi) tenuto in grande considerazione dalla critica. Ne ho visto cinque minuti: composto, essenziale, rigoroso, arricchito da una fotografia morbida e caravaggesca e tante altre chiacchiere. Per istinto di autoconservazione animale ho spento subito il video, considerando che avevo avuto una dura giornata, parzialmente mitigata dalla deliziosa visione della partita di cui ho appena detto, e non mi meritavo una così austera picconata sull’apparato genitale. La sera dopo, complice il padre di Barbara, ci siamo sorbettati il secondo tempo di Delta Force di Menahem Golan. Chuck Norris interpreta con fascista convinzione il comandante di una spedizione che deve salvare un gruppo di americani, ostaggi di un commando di fanatici islamici. La pellicola è risibile e, quindi, molto divertente. Gli arabi sono barbuti, isterici, sporchi e, invariabilmente, coglioni. Norris è di poche parole e molti calci e, con l’aiuto di un manipolo di incursori guidati da Lee Marvin, mette a ferro e fuoco Beirut, dove gli ostaggi sono trattenuti. Con un’azione precisa e spietata i rapitori vengono annientati e infine i nostri riescono a fuggire dall’aeroporto della capitale libanese, in barba ai furiosi cannoneggiamenti che li bersagliano. Attendibilità pari a zero, assunto politico ripugnante e dialoghi che neanche John Wayne in acido. Il virile prodotto, della Golan-Globus, è veramente emblematico: che nessuno si stupisca se poi gli integralisti dicono che siamo guerrafondai razzisti. Martedì sera, soltanto cinque minuti dell’immortale Il tempo delle mele di Pinoteau: tentiamo di far credere al padre di Barbara che si tratti di un film di Chabrol, ma l’inganno regge poco e così del film rimane solo il ricordo, vecchio quindici anni, di una visione nell’allora Cinema Lido. E i ricordi s’inseguono: oltre a questo culto della mia generazione, al Lido ho visto anche, con il conforto di nonna Denina, il Gesù di Nazareth di Zeffirelli, cinque ore secche che, avevo nove anni, m’ero sfangato con ammirevole spirito di sacrificio. E poi… beh, Excalibur e, boh, sicuramente qualcos’altro che, però, non riesco a ricordare. Sicuramente ho visto un film durante l’estate, perché ricordo perfettamente che avevano aperto il tetto della sala… oggi c’è un comodo supermarket. Torniamo agli spezzoni: infine giovedì sera vedo un pezzettino de I tartassati di Steno, film che vedo sempre iniziare ma che, vuoi o non vuoi, non riesco mai a seguire sino in fondo. E lo dico con rammarico, perché la partenza del film è fulminante, con Totò bottegaio evasore che tenta di corrompere il ligio finanziere Fabrizi. Il duetto sembra estremamente godibile, ma per l’ennesima volta ne rimando la visione al prossimo passaggio televisivo: Raffa m’attendeva per scrivere. Qui, o si fa il cinema, o si muore. (Dirette tv; dall’8/6/97 al 12/6/97)
127-Gli uccelli di Alfred Hitchcock, USA 1963
Gli uccelli sono animali schifosi che portano malattie e sporcizia e ci costano un sacco di miliardi perché hanno la deprecabile abitudine di cagare sui nostri millenari monumenti. Questo per mettere le cose in chiaro, perché tra le tante cose dette su questo film, m’è pure capitato di leggere che Hitchcock aveva scelto un animale puro e innocente per rappresentare il male. ‘Sto cazzo! A parte poi che il soggetto è di Daphne du Maurier, trattato da Evan Hunter, meglio conosciuto come Ed McBain. Comunque: siamo a San Francisco e la bella Tippi Hedren entra in un negozio di animali domestici per comprare un pappagallo. Fingendosi una commessa conosce l’avvocato Mitch Brenner – il roccioso Don Taylor – che la smaschera. L’incontro non promette nulla di buono, ma abbiamo già tutti capito che invece i due finiranno per piacersi. E infatti: Melanie Daniels (la Hedren) è un’ereditiera ricca e viziata che di uccellate se ne deve essere già prese tante e non si spaventa certo per la virile aggressività dell’avvocato, anzi ne è affascinata. E allora raggiunge Bodega Bay, un posto triste e sfigato dove Mitch vive con la madre e la sorella, portando in regalo alla piccola due pappagallini “inseparabili”. Conosce la madre di Brenner (vedova nervosetta che, di uccellate, invece, non ne prende da un pezzo) e pernotta dalla maestra del paese, vecchio amore irrisolto del solito Brenner. Ed è passata circa una mezz’ora: il sornione Hitchcock ha già fatto la sua breve comparsata (prima scena), ha dispensato il suo humour (i pappagallini che, in macchina, assecondano le curve) e ci ha presentato tutti i personaggi della sinistra vicenda. Fino ad adesso c’è solo una palpabile tensione: ci si chiede come mai ci siano tutti ‘sti schifosi pennuti che, talvolta, attaccano l’uomo. La cosa non desta preoccupazione, finché l’attacco non è compiuto in forze e iniziano morti strazianti, con i malefici uccellacci che cavano gli occhi alle loro vittime. I conflitti tra gli uomini sembrano acquietarsi, dopo le prevedibili scene d’isteria collettiva e la classica ricerca di un capro espiatorio (ovviamente la Hedren, ricca e dal passato peccaminoso). Di fronte all’inspiegabile fenomeno vengono finalmente messe da parte le incomprensioni e le meschinità: ora il problema è abbandonare la zona. In un inquietante finale, i protagonisti lasciano la casa in cui erano assediati e fuggono lentamente lontano, in un campo lungo agghiacciante, passando in mezzo a una distesa di assortiti volatili, minacciosi e silenziosi. Fine. A differenza dei tanti film catastrofici che avrebbero seguito questo illustre e involontario capostipite (e che avrebbero abusato del tema della rivolta della natura, fornendo sempre strampalate spiegazioni) qui, il Sir preferisce non spiegarci un bel niente: chi sono tutte ‘ste benedette bestiacce? Cosa rappresentano, da dove vengono e perché? E chi lo sa. Beh, bello, misterioso e teso. Per la mia gioia, profusione di carrelli ed effetti speciali che non hanno nulla da invidiare a quelli di Spielberg di trent’anni dopo. Unica pecca alcune luci un po’ artificiali. Ma va a finire che mi convertirò anch’io al culto del “più popolare tra i registi autori e il più autore tra i registi popolari”, mia (o no?) originale definizione di Hitchcock che mi ha guadagnato un coro di scomuniche da parte di Enrico, Claudio e Aldo Padovano. (Vhs; 13/6/97)
128-Salto nel buio di Joe Dante, USA 1987 e Caramelle di Una Francamente Inspiegabile Regista, Italia 1997
Quale potrebbe essere una delle genialate per salvare il pianeta dal sovrappopolamento e dalla conseguente mancanza di spazi vitali? Ma certo: rimpicciolire gli uomini! E così, con un audace esperimento di miniaturizzazione inizia questo divertente filmetto di Joe Dante. Tuck Pendelton (Dennis Quaid) è un esagitato pilota dell’esercito americano che s’è appena lasciato con la sua ragazza (Meg Ryan). È lui il prescelto per la rischiosa missione: diventato piccolo come un granello di sabbia verrà iniettato, a bordo di un sottomarino su misura, dentro un coniglio. Ma dei cattivoni, guidati da una provocante scienziata, entrano nel laboratorio durante l’esperimento e il professore che dirige le operazioni è costretto a una precipitosa fuga, con il nostro eroe contenuto dentro una siringa. Inseguito da un killer con un arto meccanico, lo scienziato soccombe, non prima però di avere iniettato Pendelton nella chiappa di un ignaro passante. Si tratta di un esaurito e ipocondriaco inserviente di un supermarket che stava giusto giusto prendendosi una sana vacanza per potersi finalmente riprendere dalle sue troppe fobie e disturbi. Da qui si dipanano gli esilaranti svolgimenti della vicenda: il timido Putter (Martin Short) si farà forza grazie all’aiuto del Pendelton che si porta dentro, Pendelton riconquisterà la sua ex e, più o meno, le cose si rimetteranno a posto. Dico più o meno perché la scena finale autorizza a pronosticare un sequel. E invece da dieci anni a questa parte non se n’è fatto nulla, dal che si desume che questo Salto nel buio non abbia ottenuto grande successo. Peccato, perché invece è un film ben costruito, con un ritmo (specialmente nel primo tempo) sostenuto e con una trama complicata e divertente. E anche maliziosa. Allo spettatore adulto vengono lanciati inequivocabili ammiccanti messaggi: cosa fa la bella e cattiva scienziata a letto con il killer che armeggia con il suo arto meccanico? Poi, a un certo punto, Putter bacia la Ryan e, com’è, come non è, il minuscolo sommergibile di Pendelton viene catapultato direttamente nell’utero della donna. Potrei lanciarmi in ardite ipotesi su questo strano passaggio, ma preferisco soprassedere. Concludendo: divertente, con ottimi effetti speciali (un Oscar) e simpatici attori, specialmente il camaleontico Martin Short. E Dennis Quaid cita il fratello Randy de L’ultima corvée, recitando l’indimenticabile mantra buddista che dava forza e convinzione al povero cleptomane del film di Hashby. Non ho ancora finito: non meritandosi assolutamente l’onore di un giudizio ad hoc, infilo in questa scheda anche due brevi considerazioni su Caramelle, supposto corto erotico a firma della supposta regista Cinzia Th. Torrini che alimenta il suo mistero professionale anche grazie a quella “Th.” tra nome e cognome. La Sandrelli, veramente coraggiosa e impudica, interpreta una donna insoddisfatta che riesce a sedurre il suo refrattario uomo solo con l’aiuto di magiche caramelle. Si vede qualche centimetro quadrato di pelle nuda e qualche capezzolo che il gessoso Citran sugge con convinzione, ma mai un totale che inquadri la Sandrelli a figura intera (sospetto molto forte di controfigura, avendo constatato sul set di Io ballo da sola che la simpatica attrice aveva le tette addirittura sulla schiena). Per cui ci si deprime, ci si sente presi per i fondelli e la breve vicenda trova anche una squallida conclusione. Una bella cagata che Minoli aveva timore a mandare in onda, chiaramente per il tenore hard del prodotto, mica perché era una schifezza. (Diretta TV; 14/6/97)
129-Rendez-vous di André Téchiné, Francia 1985
Nina, a Parigi, è un’aspirante attrice che, per il momento, si guadagna il pane con una particina in una commedia teatrale leggera. Ha però grandi aspirazioni e decide di lasciare la casa che divide con il suo compagno. Conosce così, in un’agenzia immobiliare, il timido Paulot che, subito, s’invaghisce di lei. Ma lei, invece, rimane affascinata dalla tormentata figura del compagno di casa di Paulot, Quentin. Aspirante suicida, ex-attore “regolare”, si dedica ora a una particolare interpretazione di Romeo e Giulietta: una rilettura pornografica che viene eseguita live sul palco di un teatrino frequentato da intellettuali erotomani. Dopo che la loro unione si concretizza, Quentin si suicida, gettando Nina nella prostrazione, anche perché lui, da morto, continua a farsi vivo. Interviene a questo punto Trintignant, che interpreta il mentore di Quentin, colui che lo aveva lanciato nel teatro proprio con un Romeo e Giulietta che, adesso, vuole riportare in scena. Il regista sceglie Nina per la parte di Giulietta (e io non ho mica capito chi, invece, venga scelto per il nuovo Romeo) e la sera della prima se ne va, lasciando la giovane attrice e gli spettatori tutti, un po’ spiazzati. Strano film. Lo spettatore distratto che, facendo zapping, s’imbattesse in alcune delle sequenze più bollenti, potrebbe credere di trovarsi di fronte a un bel pornazzo: André Téchiné indaga con rigore anatomico il corpo dell’acerba Binoche, la quale, peraltro, oltre a queste ispezioni ginecologiche, deve prendersi anche una bella razione di sputi in faccia durante un coito consumato per le scale. Boh. È interessante il parallelismo tra vita e finzione teatrale, con Quentin che ricalca in modo tragico il plot di Romeo e Giulietta; sono bravi gli attori e il film ha alcuni apici drammatici sostenuti da regia e recitazione. Però… non so, troppo di testa… Dài: una bella rottura, a dirla tutta, che ha pure vinto la Palma d’oro per la migliore regia (Cannes ’85). (Vhs; 14/6/97)
130-Sotto il cielo di Parigi di Michel Béna, Francia 1991
Come ideale continuazione di Rendez-vous vedo l’unico film di Michel Béna, che di Téchiné è stato operatore ed è morto prematuramente. E il suo film m’è piaciuto molto di più, intimo e intenso. Al contrario di Rendez-vous i personaggi (e la regia) rifuggono una sessualità esplicita e un intellettualismo distante: i loro sentimenti sono così celati che solo verso la fine capiremo la sottile trama di rapporti affettivi che divide e lega i tre personaggi della vicenda. Suzanne (la Bonnaire) e Marc convivono, ma non stanno assieme. Un bel giorno conoscono Lucien e inizia una contrastata amicizia a tre. In una Parigi quotidiana e anonima scorre la vita dei tre personaggi: sono incerti, non riescono a palesare i loro sentimenti e anche lo spettatore vive con trepidazione gli sguardi affettuosi e gli impacciati tentativi di comunicare. Com’è logico A ama B, che ama C, che ama A: il cerchio si chiude, per la frustrazione generale. Convincente, delicato e partecipe, possiede anche qualche bella sequenza, come quella che vede Suzanne e Marc ballare sulle note di Strauss. (Vhs; 15/6/97)
131-Verso il sole di Un Vero Rincoglionito, USA 1996
Ha voglia il pessimo Michael Cimino a fare lo sciopero della fame perché il suo ultimo film viene snobbato da critica, distribuzione e pubblico. Verso il sole è un’incredibile porcata che fa venire seri dubbi anche sui lavori precedenti del regista: e se fossero stati un abbaglio? Voglio dire: capita di fare un gran film; il confine tra l’opera onesta, ben concepita e prodotta e il capolavoro tout court, talvolta è molto sottile e non è detto che Il cacciatore non sia stata una paurosa botta di culo, frutto di imponderabili coincidenze… Eh sí, perché qua siamo a livelli strazianti. Un chirurgo oncologo si trova in cura un carcerato sedicenne di sangue navajo. Questo ha i giorni contati a causa di un sarcoma e, perso per perso, fugge dall’ospedale dove si sottopone alla chemioterapia, con il medico come ostaggio. Scontato confronto tra due vite completamente diverse con il povero Harrelson (sembra il mio amico Sitia coi baffi) che, prima riluttante, poi convinto, porta il mezzosangue (che invece sembra Ronaldo) a morire su una montagna sacra agli indiani. Il tutto in una cornice visiva grandiosa ma assolutamente sprecata. O.K.: sembra di vedere una versione new age di Sentieri selvaggi, ma la regia abusa disordinatamente di movimenti di camera, i dialoghi mettono i brividi e la sceneggiatura sembra scritta da un incapace. Quello che potrebbe essere un bel road movie diventa un palloso viaggio dove, più che i protagonisti, sono gli spettatori a sperare che si arrivi all’agognata meta. La way of life perseguita dal dott. Reynolds è banalmente razionale, perbenista e yuppie; la figura dell’indiano è invece – nonostante abbia già mandato qualcuno nei verdi pascoli con delle belle pistolettate – una visione dolciastra e poetica che fa venire i brividi. La nazione Navajo dovrebbe fare un collettivo sciopero della fame per impedire che questo film continui a rimanere in commercio. E poi la Bancroft… ma cosa le è accaduto? Com’è che si sceglie sempre film orrendi per i suoi sporadici cameo? Qui è una mezza matta che confonde la spiritualità con l’astrologia e straparla in libertà, in un ruolo che potrebbe sembrare satirico. Retorico, per niente credibile, scarsamente avvincente, commentato da musiche che sembrano tirate fuori da un western di serie z, ideologicamente confuso e infantile e con un coerente finale, Verso il sole è disastroso. (Vhs; 15/6/97)
132-Febbre da cavallo di Steno, Italia 1976
Per curiosità e dovere mi guardo questo bel prodotto del glorioso Steno. Febbre da cavallo è un comprensibile oggetto di culto nell’Urbe millenaria. È abbastanza divertente e discretamente costruito, ma soprattutto possiede caratterizzazioni veramente azzeccate, in cui il burino popolo romano si sarà rispecchiato felice e divertito. Il film parte con un commento off: siamo in un’aula di tribunale e chi racconta i fatti è Bruno (Proietti), detto Mandrake. Lui e i suoi due amici – er Pomata (Montesano) e Felice – sono in società in sfortunatissime scommesse sui cavalli. I tre fanatici del gioco sono puntualmente smentiti dagli arrivi alle corse e perdono di continuo i soldi che si procacciano con mezzi leciti e illeciti. Mandrake è un attore/indossatore che può solo sfoderare un gagliardo sorriso, perché quando parla è un disastro: famosa la scena in cui deve fare pubblicità al whisky Vat 69 (ampiamente reclamizzato in modo subdolo, peraltro, anche in altri momenti) e non riesce a dire “Whisky maschio senza rischio”, mentre il regista si dispera ricordandogli che “la battuta va consumata chiara, precisa”. Er Pomata è invece uno scanzonato scansafatiche che vive alle spalle di una sorella dall’alito fetente (“Ti spunta un fiore in bocca…”) e di una nonnina compiacente nel fingersi morta per evitargli le fraccate di pugni che gli vogliono rifilare i creditori. C’è poi Felice, semplice e insipida spalla dei due mattatori sopra citati. Tra gli altri gustosi comprimari impossibile non citare er Ventresca, che s’esprime semplicemente scrocchiando le dita, reprimendosi a fatica dal caricare di botte il Pomata; il taurino Manzotin, impersonato da Ennio Antonelli che poi in Fantozzi contro tutti sarà il clamoroso panettiere Antunello, zio di Abatantuono; e infine l’avvocato De Marchi, interpretato da Carotenuto, padrone di un ronzino imbarazzante che gareggia con scarsi risultati a Tor di Valle. La futura moglie di Mandrake, Gabriella (una florida Spaak), ottiene da una cartomante una tris vincente e, lei che mena il marito ogni volta che gioca (perché perde e poi non riesce a fare l’amore), invita il suo compagno a giocarsi trentamila lire sull’incredibile terzetto: Soldatino (“Il cavallo più rincoglionito d’Europa”), King e D’Artagnan. Chiaramente Mandrake, sobillato da Felice e dal Pomata, gioca su un altro cavallo e perde. Disperazione, perché la moglie, credendosi vincitrice di venti milioni fa grandi progetti per il futuro: matrimonio e ristrutturazione del bar che gestisce. I tre, per recuperare i soldi, devono mettere a segno un colpo risolutore ma, chiaramente, va tutto all’aria con imprevedibile finale in tribunale. Tra le cose notevoli le varie truffe (quelle ai danni del farmacista e del macellaio), i frequenti strafalcioni (“il kakemir…”, “dobbiamo andare a Lurdese” e “Caligola è un nome da omo, come Agrippina”) e la splendida arringa difensiva di Proietti, che chiede l’assoluzione per sé e i suoi compari per seminfermità mentale da giocatore di cavalli. Il tutto è poi impreziosito dalla gioiosa colonna sonora a firma Bixio-Frizzi-Tempera, ritmate arie musicali a metà strada tra Disco Samba e le future intuizioni strumentali dei fratelli La Bionda. Insomma, nonostante lo scetticismo iniziale e la partenza un po’ lenta del film, alla fine mi sono divertito. Giustamente culto, quindi. (Vhs; 16/6/97)
133-The Kingdom di Lars von Trier, Danimarca/Svezia 1994
Il Lumière chiude in bellezza. Quasi a esaudire una mia richiesta autografa sul librone alla cassa che registra commenti, preghiere e quant’altro, eccomi premiato: The Kingdom del genietto Von Trier. Si tratta di una miniserie televisiva prodotta dall’emittente nazionale danese e non si può pensare, sconsolati, che da noi la Rai produce Il maresciallo Rocca. Il Regno è un ospedale di Copenaghen dove si consumano drammi ed esistenze personali e dove aleggiano spiriti irrequieti. L’idea di partenza è molto buona: quale luogo materializza gli incubi meglio dell’asettico clima dell’ospedale? Qui si vive la sofferenza fisica della malattia, si auspica (e/o si teme) il rassicurante abbraccio della medicina e le angosce e le speranze dei pazienti si mescolano a quelle dei parenti, degli studenti e dei medici. Von Trier, intelligentemente, non costruisce un banale horror: la vita di un ospedale è scandita dalle esistenze dei singoli che ci lavorano e di quelli che, loro malgrado, ci soffrono; a questa rete di rapporti la regia sovrappone una dimensione soprannaturale, stemperata da un felicissimo humour nero. I corridoi vuoti, la serie di cunicoli, scale e passaggi fanno il resto, conferendo alle vicende narrate una bella suspense. Non ve lo racconto per pigrizia, per densità della trama e perché in fondo se dovete vederlo, e dovete vederlo, è meglio gustarsi il tutto senza sapere come va a finire. Vabbeh: l’impeto declamatorio è insopprimibile e almeno vi racconto chi sono i personaggi di quest’opera straordinaria. C’è Stig Helmer, un primario svedese che odia i danesi e che ha sulla coscienza uno sciagurato intervento chirurgico sul cervello di una povera bimba; c’è l’altro primario Moesgaard, un imbecille di portata mondiale, e suo figlio, Mogge, studente svogliato e macabro burlone; c’è la signora Drusse, una sensitiva che riesce a farsi ricoverare solo per raggiungere il contatto con le anime che vagano all’interno dell’ospedale; e poi Bondo, un chirurgo che s’impianta un sarcoma epatico per vederlo crescere; c’è un anticonformista medico, Krukskoy, innamorato di Judith, incinta di un feto un po’ troppo intraprendente… E non vi parlo dei vari personaggi di contorno, se no non finiamo più. Il racconto è suddiviso in quattro episodi che al Lumière sono stati proiettati in due serate. Ma si può vedere al cinema un prodotto per il famigerato tubo catodico? Sí, si può, perché Von Trier mica si scompone e paga con naturalezza il dovuto pegno al medium televisivo, ma, allo stesso tempo inventa un nuovo modo di fare cinema. Il feuilleton televisivo esige precise convenzioni e il fobico regista si adegua: ogni episodio (da un’ora e dieci circa) presenta nel finale un potente climax con conseguente colpo di scena che rimanda lo spettatore alla puntata ventura. Ma ci sono anche tanti moderati crescendo che culminano in inquietanti stacchi generici a inquadrare l’ospedale – forse per le classiche pause pubblicitarie. Ma Von Trier, assolti questi doveri commerciali che, anche al cinema, comunque, regalano una bell’alternarsi di tensione e risoluzione, poi si concentra su un linguaggio assolutamente autoriale, completamente inedito per quel che riguarda le serie televisive. Twin Peaks, per me era una rottura di palle per babbei, dove l’inconcludenza della trama veniva confusa con la presunta genialità di Lynch; X Files alterna qualche episodio interessante a tanto ciarpame pseudo scientifico-misterico-esoterico, in un bailamme culturale disordinato e diseducativo (massì, lo confesso: mi sta proprio sul cazzo). The Kingdom, invece, unisce la sana voglia di storie più o meno fantastiche con una qualità formale esaltante. Ora, non tutti potranno apprezzare come Von Trier gira e monta il suo materiale, ma trovo che la sua opera di destabilizzazione della grammatica cinematografica (e televisiva) sia assolutamente geniale. Il lavoro sul colore, la fotografia sgranata, gli ondeggiamenti della cinepresa e i raccordi di montaggi felicemente incoerenti sono sì esercizio di ricerca formale ma anche narrazione emotiva, con lo spettatore continuamente messo alla prova. E anche la scrittura presenta un’inedita ricerca psicologica sui personaggi. Un salutare sovversivo ceffone a chi vuole il suo rassicurante serial televisivo per stravaccarsi in poltrona e subire. Veramente grande, Von Trier: il mio calice trabocca. (Cineclub Lumière; 16 e 17/6/97)
134-Message to Love: The Isle of Wight Festival di Uno Goffo, USA 1997
Prendete le cose meno riuscite di Woodstock e trasportatele in terra inglese. Immaginatele filmate con l’esilarante humour britannico, aggiungete il cielo sempre grigio e avrete, più o meno, idea di quello che accade in Message to Love, il film di Murray Lerner che documenta il festival dell’isola di Wight del 1970. Ricalcando la struttura del capolavoro Woodstock, anche qui si racconta, attraverso interviste e musica, come è stato vissuto quest’ennesimo evento oceanico. C’erano seicentomila persone e il biglietto lo avevano pagato solo sessantamila persone e così, fin dall’apertura del festival, la litania ripetuta instancabilmente dagli organizzatori è: non abbiamo soldi. Il master of ceremonies (Rikki Farr) invita il pubblico, dal palco, a pagare il biglietto, a non sfondare le patetiche recinzioni in lamiera, a comportarsi bene, a consegnare le droghe alla polizia… È conciliante, poi minaccioso; infine, nervoso, accusa i musicisti di essere esosi e si discolpa, tutto in un interessante crescendo, finché non chiude il festival annunciando che dei soldi, a lui, non gliene fregava niente e che l’importante erano la musica e la pace. Finale strappalacrime con il pubblico invitato a stringersi la mano. Caro Farr, te, come i tuoi degni patetici compari in affari, non siete minimamente credibili. Parola mia. E il film risente di tutta ‘sta farsa: la musica intervalla questo estenuante piagnisteo per la mancanza del cash che gli artisti pretendono prima di salire sul palco. La folla, aizzata ad arte, si mangia vivo Kristofferson e porta alle lacrime la povera Joni Mitchell che però ha il coraggio di rispondere e zittire il pessimo pubblico inglese in cappotto. Sí, avete capito bene: se uno hippie americano è colorato, forse pittoresco, ma allegro, uno hippie inglese è soltanto uno squallido disadattato che, visto il clima, va al festival in cappottone. La musica è molto bella, ma le riprese non sono particolarmente inventive. Luce sul palco: zero. Movimenti di camera: zero. Solo stolidi zoom, montati mica male però, sui diversi artisti. Ma di nuovo, altro grosso difetto, le performance sono riprese parzialmente. C’è Gallagher con i suoi Taste, che infiamma la platea con un robustissimo heavy blues (e sotto l’improvviso pallido sole, una bianchiccia albionica completamente nuda si rotola davanti al palco, in preda a comprensibile orgasmo, visto l’esecutore). Si vedono poi, tra i tanti, Miles Davis (con Jarrett al pianoforte elettrico), gli stupendi ed energetici Who, Alvin Lee e i suoi Ten Years After, i potenti Free e il toccante Leonard Cohen. Meno entusiasmanti i Doors (con un Morrison gonfio come un fusto di birra), i circensi Emerson, Lake and Palmer, uno sfiatato Hendrix o l’inconsistente Donovan. I discorsi sulla mistica della droga e sulle aspirazioni politiche convincono molto poco: tutti gli intervistati (dagli hippie ai poliziotti) sembrano prezzolati. Certo, rispetto a Woodstock, dove il trip collettivo aveva obnubilato le coscienze dei convenuti, qui ci sono anche considerazioni sul ruolo del business e sulle ambigue figure dei musicisti, ma, tolto lo straordinario interesse che Message to Love può ricoprire per un fanatico di hard rock e blues come me, non so a quant’altra gente possa piacere questo grigio clone del solare e libero film di Mike Wadleigh (vedi Lo sguardo mutilo, recensione n° 268). (Vhs; 18/6/97)
135-Yol di Yilmaz Güney, Svizzera/Francia 1982, guest star Gabriele La Porta
Solito discorso: Barbara mi chiama, voce supplicante, e mi chiede di registrare assolutamente un film che poi avremo agio di vedere assieme. È successo già tante volte e chissà quante volte accadrà ancora. Solo che poi, questi film non li vediamo mai e la mia videoteca è intasata da una marea di titoli che vorrei vedere e poi cancellare per registrare altra roba. Yol mi guarda dallo scaffale da quaranta giorni e ho un fottuto bisogno di almeno tre ore di nastro magnetico, perché stanotte c’è Fanny e Alexander. Mi serve la videocassetta. Libera. Stasera. S’impone la fruizione single. Praticamente Oblique visioni sta andando in stampa e Barbara, tra qualche mese (mi legge con molta calma, dovendomi già sorbire live), scoprirà da queste pagine che Yol non c’è più. Eeeh, è la vita. Tra l’altro i vari Videociak, Blockbuster et similia devono pullulare di film di questo Güney… Vabbeh, passiamo al film. Yol, nonostante il titolo e il soggetto ostili, non è un masso anatolico sui testicoli. È un film altamente drammatico, forse non per tutti i gusti, ma altamente digeribile. Dopo queste divagazioni vagamente gastriche: ma t’è piaciuto o no? Starete pensando: s’è rotto immensamente le palle, ma non ha il coraggio di dirlo. No, non è vero. Il film scorre bene, anche perché la trama è gestita con un ottimo montaggio e accompagnata a una notevole fotografia del paesaggio. Yol racconta la settimana di permesso di cinque detenuti in semi-libertà. Il più sfigato, appena libero, perde i documenti e viene subito rimesso in cella. Uno raggiunge la famiglia in Kurdistan e, dopo aver visto la cruenta repressione dell’esercito turco, decide di non tornare in carcere per unirsi alla guerriglia curda. Un altro, invece, scopre che in sua assenza la moglie s’è comportata un po’ da sgualdrina. Suo malgrado, ma costretto da ancestrali usanze e dalla famiglia disonorata, la porta alla morte facendole attraversare un passo montano innevato dove l’adultera rimane secca come un surgelato. Degli altri due, uno si sposa, mentre l’altro viene ripudiato dalla famiglia della moglie perché non ha impedito l’uccisione del genero. Scappa con la consorte e i figli, ma la vendetta li raggiunge: un bel massacro in treno. Il film è asciutto e toccante. Il paese è stretto dalla morsa del regime militare e qualunque emancipazione (politica, religiosa, anche sessuale) è impossibile. In maniera affatto compiaciuta la regia sfiora il tema della sessualità a lungo repressa (l’immediata visita al bordello di quello che poi si sposerà, l’impossibilità a concludere – nella latrina del treno – della coppia in fuga, il desiderio – di carne e d’amore – del marito dell’adultera condannata a morte dalla comunità) e illustra l’umiliante condizione della donna in un paese in bilico tra modernità e tradizione, tra dittatura e libertà. E lo spettatore occidentale, tra l’altro, trova evidente conferma nel detto “fumare come un turco”: dai cinque ai novant’anni sono tutti perennemente con grasse sigarette senza filtro tra le labbra. E allora? Un bel film che, tuttavia non incontra il mio preciso gusto cinematografico, ma Güney non l’ha fatto per me, ma precisamente per sé e per raccontare al mondo intero la dura repressione militare che investì il suo paese all’inizio degli anni Ottanta. Lo stesso regista, come ci informa la didascalia finale, venne incarcerato e, per reati d’opinione, condannato a oltre cent’anni di reclusione. Il film venne girato “per interposta persona”, l’operatore Serif Gören, e poi montato da Güney all’estero, dove tuttora vive in esilio. Torniamo al 9 maggio, alla richiesta di videoregistrazione di Barbara, richiesta senza la quale (colpevolmente) mai avrei visto il film: l’ho aspettato fino all’una e cinquanta, avendo a disposizione una cassetta che lo avrebbe contenuto appena. Il film è all’interno di un contenitore televisivo gestito da Gabriele La Porta. Questo La Porta è un curioso e lisergico esempio d’intellettuale che ogni sera lancia un patetico appello nell’etere affinché i telespettatori gli mandino materiale (“video8, mi raccomando!”, ma che cazzo sono i Video8?!?) di modo che lui possa realizzare qualcosa da mandare in onda, diverso dal suo faccione implorante. Questa sera niente lacrimevole e paternalistico appello (“Questa televisione dovete farla voi!”: eh no! Troppo comodo!); in compenso l’ebbrezza di vedere La Porta che finalmente lavora senza vampirizzare gli spettatori che gli spediscono “fotografie, storie, testimonianze e soprattutto video8, mi raccomando!”. Per presentare Yol ha portato due ospiti in studio, che, in preoccupante sintonia con lui, hanno iniziato a raccontarci cos’era successo in Italia nel 1981. Scusate, ma che cazzo c’entra tutto ciò con Yol? Niente! E invece questo figuro (dall’abbronzatura isterica con segno degli occhialoni, come se fosse appena sceso dalla seggiovia) ha continuato imperterrito in un orrendo blob di reminiscenze. Nessuno dei convenuti in studio ha parlato del golpe militare in Turchia e sul film, oltre a una serie di considerazioni da pelle d’oca, La Porta ha aggiunto che ha vinto la Palma d’oro ex-aequo con Missing, film, secondo lui, allora sopravvalutato e oggi dimenticato. Forse non lo ha mai visto e non sa chi sia Costa-Gavras. Arriviamo al finale di questi trenta minuti sconcertanti e La Porta, per congedarsi, guarda fisso in telecamera e snocciola due dati, premettendo di non volerli commentare, come se fossero emblematici in maniera lampante: la retribuzione degli operai della Fiat e dei contadini nel 1961 e nel 1981. A questo punto, stordito e incredulo, penso che il supplizio sia finito… NO! Sguardo intenso nell’obbiettivo, si leva gli occhiali con aria tragica e annuncia, serissimo, che vuole lasciarci con un interrogativo sul quale ragionare: “A cosa è servito il terrorismo?”. Chiude e parte il film. Non so, sarà stata l’ora, ma forse ho avuto un’allucinazione. (Vhs; 18/6/97)
136-Una scelta d’amore di Terry George, Gran Bretagna/Irlanda/USA 1996
Venerdi 20 giugno: il Lumière chiude la stagione regalando tre film ai suoi soci. S’inizia con questo bel film irlandese il cui assurdo titolo italiano risulta parecchio fuorviante. M’aspettavo una pallata romantica e invece Some Mother’s Son racconta il calvario di Bobby Sands e dei suoi compagni nell’inferno del carcere di Maze. Ma la regia decide di raccontarci l’episodio da una prospettiva un po’ diversa. Infatti, lontanissimi dall’ottusità di Michael Collins, protagonista è il dolore delle madri che, fuori dal carcere, assistevano alla morte dei figli, fermissimi a protestare contro le misure disumane che l’invasore inglese aveva preso nei loro confronti. Kathleen è una borghese disinteressata dalla politica. Quando suo figlio Gerald viene arrestato e condannato come terrorista dell’I.R.A. si trova a dover prendere posizione, prima riluttante, poi convinta. Nei primissimi anni Ottanta la repressione militare in Ulster era particolarmente dura, secondo le intenzioni di quella lurida stronza della Thatcher, e le direttive erano chiare: isolare, criminalizzare e umiliare la rivolta. Nel carcere di Maze iniziò un’epocale serie di proteste che culminò nello sciopero della fame (10 militanti morti), finché alcune madri decisero di utilizzare il loro diritto ad autorizzare la nutrizione dei figli, non appena perdessero conoscenza. Lo sciopero cessò e le richieste dei prigionieri, per un trattamento più equo, vennero finalmente accettate. Il film è vibrante e, in molti momenti, commovente. Al di là di alcuni schematismi di fondo (giustificabili narrativamente), la vicenda è ben raccontata e coinvolgente, gli attori sono molto bravi e le musiche sono stupende. Certo, nessuno nel 1980 vestiva come si veste oggi, ma la forza del racconto fa passare sopra queste sottigliezze. Una sorpresa: bel film. (Cineclub Lumière; 20/6/97)
137-Cosa fare a Denver quando sei morto di Gary Fleder, USA 1995
Secondo film della serata: tocca a quello che è stato preannunciato come il piatto forte. Johnny “il Santo” è debitore nei confronti di un boss immobilizzato su una sedia a rotelle, il cattivissimo Walken. Per sdebitarsi deve semplicemente spaventare un tizio, ma, radunati tutti i vecchi amici, la missione va a farsi benedire e il boss non la prende niente bene. Il verdetto è “brutta fine” che significa morte tra atroci dolori e sofferenze. E così Johnny avverte gli amici che per loro è finita; lui è dispensato dalla suddetta “brutta fine”, ma deve lasciare Denver entro quarantott’ore. Nessuno ha intenzione di scappare (con motivazioni diverse: paura, follia, impossibilità a fuggire abbastanza lontano) e Johnny, innamoratosi di una giovane ragazza, aspetta anch’egli, con dolorosa ma consapevole rassegnazione, il destino. Il film è tutto giocato su questo senso d’accettazione dell’ineluttabile fato. Come a pagare un peccato originale, Johnny aspetta la morte, così come, per onorare il sacro patto dell’amicizia, aveva organizzato il colpo esclusivamente con i vecchi compagni di carcere, nonostante fosse evidente quali rischi si corressero con una tale accozzaglia di personaggi. Ed è questa però la parte in cui la narrazione è più debole. Il tragico senso dell’onore ricorda quello di Carlito Brigante (Carlito’s Way di De Palma) ma i vari dialoghi tra i personaggi sul loro destino fanno un po’ storcere la bocca. Ben altra solfa, invece, nei tarantinismi della regia: la violenza è gestita senza risparmio e con brillante ironia. Non so, il difetto del film è proprio rimanere in bilico tra una visione grottesca e una troppo seriosa della vicenda. Detto questo, il film si fa vedere piacevolmente: gli attori sono molto bravi (e bellissima è Gabrielle Anwar), fotografia e montaggio sono notevoli e il potente blues di Buddy Guy è… appunto, potente. E Cosa fare a Denver quando sei morto possiede una delle migliori battute dell’anno: Treat Williams impersona uno dei condannati della banda di amici. Essendo completamente pazzo furioso, attende il killer (il fantastico Buscemi), rintanato in un appartamento e, quando lo accoglie degnamente con una pallottola in corpo, preparandosi a massacrarlo si presenta così. “Sono Godzilla, tu sei il Giappone!”. (Cineclub Lumière; 20/6/97)
138-Beautiful Thing di Hettie McDonald, Gran Bretagna 1996
Dopo lo spuntino e il brindisi di mezzanotte, si chiude con l’ultimo film della stagione. Si tratta di un altro buon film: la storia di due quindicenni e della presa di coscienza della loro omosessualità. Il racconto non è compiaciuto e la narrazione, con alti e bassi, è tutto sommato partecipe e delicata. Jamie ha problemi a scuola: è maltrattato e insultato. L’amico Steven è invece puntualmente pestato come una bistecca in famiglia. A poco a poco i due si rendono conto che l’affetto che li lega va oltre la semplice amicizia e coronano la loro storia d’amore, tra lo stupore e, finalmente, l’accettazione generale. Il film non si propone particolari ambizioni e il finale (dolciastro, sulle note di Dream a Little Dream of Me) alterna intensi momenti drammatici a parti in cui prevale la commedia (talvolta soddisfacenti, talvolta un po’ così; si sa, lo humour inglese), ma il ritratto delle famiglie che vivono nei palazzoni della periferia di Londra è gradevole, affettuosamente sarcastico senza essere pedante. Bella la fotografia dai colori molto intensi e nostalgica la musica (con l’originale recupero delle canzoni di Mama Cass). Insomma, un po’ come gli altri due film: con qualche difettuccio, ma godibile. E poi è venuto lo straziante momento degli addii: il Lumière chiude, inizia l’estate e si conclude anche questa mia pregevole iniziativa editoriale. L’idea di aspettare fino a ottobre è dura da mandar giù ma lunedì c’è Altrimenti ci arrabbiamo in tivù e non vedo modo migliore per iniziare Les Vacances de Monsieur Cacace, la vostra futura strenna natalizia. (Cineclub Lumière; 20/6/97)
(Fine? — 9)