di Saverio Fattorifabbriche_big.jpg

Tutti i capitoli di “Cattedrale”

Nel pomeriggio il Fuoco Centrale arde come non mai, sono in forma perfetta, ho una buona sincronia, ma non basta. Non basta più. Le operaie stanno lavorando a ritmi infernali, non parlano, non disquisiscono su inutili drammi familiari, gastroenteriti o stitichezza. Fanno Prodotto Interno Lordo senza distrazioni. Ricomincio il giro che ho svolto velocissimo, con la coda dell’occhio mi accorgo che hanno già prelevato due dei quattro semigusci di ABS, il corpo esterno del manufatto. Il resto è formato da un intestino, la massa radiante, e dal sistema nervoso, il lay out del cablaggio elettrico.

Le scatole svuotate delle spugne del gruppo evaporante schizzano ovunque, devo recuperarle, tagliarle e andare al supermarket a prenderne di piene. Ho già avuto due capogiri, chiedo il cambio-pisciata e decido di non tornare in linea. Telefono alla Capo Reparto, tremo di rabbia, la voce è incerta, mi faccio schifo.

– Non torno.
– Dove?
– In linea.
– Nessun problema. Stai poco bene?
– Loro. Sono delle deficienti. Non c’è bisogno di ammazzarsi andando così forte. Siamo in recessione, il mercato dell’auto è finito. Kaput.
– Sì che c’è bisogno. Ci chiedono i numeri. Ma non c’è problema, domani porti la carta del dottore.

Armeggio senza lucidità nello zaino, la Capo Reparto è scesa dall’ufficio, mi guarda mentre perdo di vista cellulare, chiavi di casa, chiavi della macchina, mi batto i polsi su tutte le tasche come un matto.

– Calmati. Non c’è problema.
– Sì che c’è un problema. Siete delle maledette.

Altre due operaie stanno seguendo la scena, io tremo sempre di più, è rabbia, esaurimento nervoso, abbassamento dei livelli di testosterone, down da eroina. Ho la bocca rigida come quella di una carpa all’amo, cerco di parlare il meno possibile perché sbavo, le labbra sono cartilagini.

– Piantala di fare la vittima. Sei fortunato, ti hanno tenuto un posticino. È solo una possibilità che ti danno. L’ultima.

– ‘Fanculo.

w_class.jpgHo raccolto tutte le mie cose, mi avvio sghembo verso l’uscita dello stabilimento, vorrei passare inosservato, vorrei essere invisibile, invece alcuni operai chiedono conto di cose che non capisco, non colgo le domande. Uscito dall’ultima porta mi blocco con la tesserina in mano davanti al tornello. Non sono mai stato da solo in questa situazione, mi sembra un altro luogo, forestiero e minaccioso. Sia in entrata che in uscita si formano piccole code di operai starnazzanti o in silenzio da depressione. Non sono mai stato in intimità con il tornello, non sono mai uscito prima, ho sempre rigato dritto, nel gregge. Sono un buon soldato, io. L’ora pomeridiana ha svuotato la strada. Mi sembra di essere in un quadro di De Chirico, lo spazio atterrisce svuotato dell’umano. Tutti sono chiusi nei capannoni della zona industriale. E io non so che farmene di silenzio e libertà. Mi rendo conto di essere vecchio e ormai inadatto a ogni cambiamento. Oggi sono esattamente vent’anni dal giorno della mia assunzione. Il cielo manda un avvertimento, comincia a scendere una pioggia fitta e pesante, nevischio che graffia le guance. Le macchine nel parcheggio sono enormi insetti metallici disattivati. In giro solo extracomunitari e balordi, studenti che credono ancora nel futuro, professionisti con la faccia come il culo e buone competenze. Io non sono furbo. E non so fare un cazzo. Non sono attrezzato alla sopravvivenza. Mi si apre una voragine alla bocca dello stomaco. Se esco ora, se oltrepasso la recinzione, una carica diarroica invaderebbe le mutande.
Dietro front. Meglio tornare indietro, meglio lavorare a ritmi altissimi, meglio bestemmiare e tirare cazzotti a oggetti inanimati. Meglio avere contatti umani generici e conflittuali.

– E tu che fai?
– Torno al mio posto.
– Vai a casa e riposati, ne hai bisogno. Ho guardato i numeri, effettivamente dalle 13 alle 14 sono andate forte.
– Hanno fatto il loro dovere. Hanno fatto la cosa giusta. Che altro possono fare? Ora vado.
– Dove? Ti ho già fatto il permesso e ho mandato la mail all’ufficio personale.
– Torno a rifornire la linea.
– Ti ho già sostituito, ho fatto uscire una ragazza.
– Vado al mio posto. Quello è il mio posto. È mio. La ragazza torna dentro.
– Non ti voglio più vedere per un po’, fatti dare almeno una settimana di mutua. Da quanti anni non fai un giorno di malattia?
– Da quanti anni non faccio un giorno di malattia? Non lo so. Io sono confuso.
– Ecco, infatti. Ripigliati. Io adesso devo andare. Tu sparisci. Hanno ragione.
– Chi?
– Tutti.
– Tutti chi?
– Tutti quelli che dicono che sei pazzo.
– Chi dice che sono pazzo?
– Tutti.

Non ho ripreso il corridoio verso l’uscita. Ho fatto gli scalini di corsa, conosco un ripostiglio dove nessuno verrà mai a cercarmi, vi giacciono campionature e disegni tecnici cartacei che sono già archeologia industriale, è un luogo angusto che utilizzavo per i miei piccoli traffici, quando lavoravo all’Ufficio Qualità. Sono raccolto in posizione fetale, la polvere è sopportabile. A terra sistemo gli oggetti personali, il cutter, i guanti, telefonino, mp3 a batterie morte, una mela verde. Sarebbe stupendo vivere così, potrei andare alle cucine e trovare altri viveri. Sono un ebreo scampato al rastrellamento. Sono l’ultimo sopravvissuto del pianeta. Sono un terrorista kamikaze in azione. Sono Dio. Mi sto tranquillizzando, i battiti cardiaci rallentano, mi sento sicuro nel ventre della Cattedrale poi una scarica di adrenalina mi riaccende. Nel secondo ripiano dello scaffale c’è una scatola quadrata che riconosco. Dentro riposa il motorino ventilante di un fornitore scartato per ragioni di mafie aziendali. In un angolo della scatola eccolo lì, inviolato. Ecco la stagnola. Il grammo di pakistana dimenticato. Dio esiste. La vita è una favola che sa stupire. L’amaro in gola arriva puntuale, vomito nel cesso, in pochi minuti passo a un sonno soffice.
Quando mi sveglio sono le otto di sera, la Cattedrale è finalmente deserta. Dal finestrone che dà sull’acquario delle linee di assemblaggio la vista toglie il fiato. È un panorama finalmente incontaminato, privo della materia umana. Il buio non è totale, le spie nella zona degli interruttori a punteggiano l’oscurità. Tutto è riconoscibile, rivestito di un alone che viene da un’altra dimensione.
È una situazione di torpore cosmico che mi svuota di ogni cattiveria. Dovrei scendere di sotto e prendere a mazzate il nucleo dell’intelligenza meccanica della Cattedrale. Questo dovrei fare. Questo volevo fare. Basterebbe danneggiare le centraline di collaudo per creare un maremoto di entità solo in parte prevedibile. Produzione dei condizionatori bloccata, linee ferme presso i clienti Alfa Romeo e Ferrari Maserati. All’Alfa di Pomigliano le auto uscirebbero dalla catena di assemblaggio incomplete della parte da noi fornita, migliaia di scatole di metallo parcheggiate in enormi piazzali, ritardi sulle consegne ai concessionari, filiera di denaro interrotta.
Una fortuna inaspettata, gli ordini sono colati a picco negli ultimi mesi, nessun incentivo statale può salvare il mercato in collasso. Telefonate febbrili tra tecnici e dirigenti. Sanzioni pecuniarie che piegherebbero a morte la Cattedrale. Carabinieri in perlustrazione nei nostri capannoni, indagini, scarsa competenza tecnica degli inquirenti, domande idiote, fuori luogo, poi sempre più a fuoco. Le deposizioni frastornate, l’incredulità, la paura per il futuro che accomuna schiavi di linea e Alti Porporati. Forse la farei franca. Forse no. Qualche video camera mi sta inquadrando anche in questo momento. Immagino l’odio dell’intera comunità della Cittadella nei miei confronti. Un tentativo di linciaggio all’esterno della nuova caserma dei carabinieri dopo la confessione. La Cattedrale tra sede centrale e indotto di piccoli cantinari elargisce circa 400 buste paga. Le mie giustificazioni filosofiche, il redattore del giornale locale incapace di tradurne la complessità. Le interviste ai miei colleghi. Era un tipo tranquillo. Lavoratore. Maledetti idioti. Fuori da una fiction non riconoscereste un assassino nemmeno mentre vi taglia la gola. Avete bisogno di filtri, avete bisogno di un video. Solo allora riconoscete la vita.

Distruggere le attrezzature o falciare gli esseri viventi che infestano questo luogo? Gli uomini passano, tutti sono sostituibili. Le macchine e gli standard work resistono. Hanno solo bisogno di manutenzione e revisioni. Avessi imparato a guidare il muletto ora potrei usarlo contro i totem giù di sotto, spaccare tutto tenendo le pale alte, come le zanne di un moderno mammut impazzito. Ma stasera tutto è bontà, l’eroina pakistana fa il suo dovere, sale con una botta leggera e si assesta, il mio umore è ottimo, sono in pace con l’universo. Gli omuncoli che lavorano in Cattedrale devono essere riconoscenti alla Pakistana, Dea di cui ignorano l’esistenza. Le strutture della linea rimarranno integre. Le macchine non sono cattive. Adesso sono accucciate, in attesa che una crisi economica definitiva, una recessione mortale, le renda inutili. Non sono demoni. Sono fantasmi buoni, non mettono paura. Il passato non esiste, esiste solo lo stato d’animo presente. Che ne è stasera di tutto il mio odio messo a macerare per anni? Potrei accanirmi, potrei entrare negli uffici, sfondare porte, distruggere pc, dare fuoco al cartaceo, resettare la memoria storica di clienti e fornitori. Posso essere un Dio bastardo e vendicativo, incarnare l’Apocalisse. In realtà sarebbe un atto d’amore estremo. Eutanasia industriale. Non voglio vedere questo posto in lenta agonia, non voglio ascoltare muto i bollettini di guerra, non voglio morire di dissenteria in trincea senza l’onore di una pallottola. I periodi di cassa integrazione saranno sempre più lunghi. Linee di produzione attive e spente a macchia di leopardo. Migrazione a rotazione dei greggi verso linee reparti attivi seppur rallentati. Inaridimento progressivo delle pozze di mercato. Mancato rinnovo dei contratti a termine. Assemblee sindacali straordinarie. Messa in mobilità. Volantini formali e definitivi affissi in bacheca. I commenti dei condannati, inevitabili e prevedibili. Lo sguardo scuro dei Porporati usciti da estenuanti unità di crisi. Organismo che si abbandona alle infezioni, fantoccio senza sistema nervoso. La profezia sta per compiersi.

Nella notte non ho distrutto nessuna attrezzatura nella notte, nessun sabotaggio, tutti i pc in azienda stamattina sono integri e funzionanti. Mi sono limitato a forzare la serratura dell’ufficio di Marani. Mi ero sbagliato, non l’ho trovato riverso sulla sedia imbottita, però ho trovato i roditori, sono usciti, ho sentito le loro zampette sul collo delle caviglie, poi, pur abbagliato dai neon ospedalieri, mi sono girato a guardare quelle macchie scure mobili nel candore dei pavimenti bianchi. Un incubo travestito da performance di teatro d’avanguardia.
La mattina le donne notano l’anomalia, in fila una all’altra dicono la stessa cosa. Tutte fanno l’identico commento. Non temono l’omologazione, mai, ne ho contate quindici a pronunciare la stessa frase. Già arrivato stamattina? In genere sono tra gli ultimi a passare il badge magnetico della prima marcatura. Rispondo.

– Ho dormito qua dentro. Di sopra, in uno sgabuzzino.
– Il solito deficiente. Non sei mai serio.

La Capo Reparto è leggermente meno idiota della media. Una parte del suo cervello considera questa assurdità verosimile e la esamina. Deve aver discusso con qualche superiore del mio disordine mentale, della mia a-socialità aziendale tanto sottile quanto innocua. Non ci sono gli estremi per il licenziamento. Non ho mai fatto gravi atti di insubordinazione, nessun giorno di malattia. Sono una minaccia che serpeggia, un cobra che aspetta di colpire spandendo veleno o che soccomberà tenendoselo dentro. Maledetto contratto a tempo indeterminato. Questo sta pensando la Capo Reparto. I tratti del viso sono rigidi, poi alza gli occhi al cielo, verso gli uffici dove avrei passato la notte, sale le scale, cerca indizi. Troverà la mia tana, la coperta in polimerici espansi fornita da una azienda campana. Spero di aver nascosto bene la siringa. Non ho nascosto bene la siringa. Un flash visivo me la consegna candida, appena rosata di sangue, appoggiata alla scatola dello sciacquone del cesso. Sto commettendo errori a ripetizione. Non ho ancora visto sfilare il Frank alla timbratura, dovrei essere felice di non vedere quella faccia di cazzo. Stamattina no. Interrogo la spia meglio informata, mi rivolgo a lei solo per disperazione, vorrei non usufruire di suoi servigi, in genere evito il suo sguardo e non la saluto.

– È tornato a scuola.
– Improvvisamente?
– No, si sapeva. Aveva un contratto di due mesi. Ieri era il suo ultimo giorno.

Piccolo bastardo. Azioni dimostrative, armi automatiche, strage con sottofondo musicale, vie di uscita bloccate. Videocamere piazzate nei punti strategici a riprendere il panico e il sangue. Quante balle. E’ tornato a prendere il pezzo di carta necessario alla pratica dell’esercizio del potere. È destinato da mille generazioni a questo ruolo. Farà Medicina o Giurisprudenza. Racconterà a pari requisiti di un mondo disperato, figli di nessuno in catena di montaggio, ne riderà con giovani studentesse taglia quaranta e terza di reggiseno. Le fichette fingeranno etica, faranno qualche considerazione socio economica, lui continuerà con il tono brillante. Aneddoti grotteschi che gli faciliteranno la seduzione e loro si scioglieranno. Descriverà donne rese scimmie dalla reiterazione dei movimenti e da un’esistenza priva di variabili. Responsabili di produzione risputati fuori da secoli passati. Poi c’era quel tipo bizzarro, uno davvero fuori di testa, era alle superiori con suo padre. Un rognoso che faceva il duro e tirava un carretto come un somaro. A quarant’anni usava eroina.

Vorrei averlo tra le mani in questo momento. Vorrei stracciargli i piercing a sberle. Vorrei asportargli i tatuaggi con il cutter. Vorrei castrarlo per interrompere la genia che infetta la Cittadella da secoli. Gente come lui non verrà sfiorata dalla recessione economica, le persone che ha frequentato in questi due mesi saranno spazzate via dalla corrente. Lui no. Lui e la sua famiglia regneranno ancora più potenti. Sulle macerie della Cittadella.
Mi ficco in bagno, cerco la traccia audio, la registrazione della sua confessione per il sabotaggio della stazione di collaudo. Non la trovo, cioè la trovo, è l’unica che ho, ma sento solo le mie parole, non ci posso credere, forse era troppo lontano, eppure sento distintamente tutti i rumori di sottofondo. Maledetto bastardo. Cos’è un piccolo Harry Potter della malora?
Suona la sirena, comincia la giostra, la spia mi si avvicina. Non avrei dovuto darle confidenza.

– Ha lasciato due chiavi del suo armadietto. Dice che devi tenerle tu.

È scesa la Capo Reparto in officina, il blu glaciale dei suoi occhi si è fatto grigio. Si muove come un husky siberiano, aggira contenitori metallici e strutture che sono scheletri, la polpa, la carne è all’interno. L’husky è nervoso, si arrabbia per un dettaglio trascurabile con il primo pezzo di carne vivente che incontra sulla sua strada. Non ha mai visto una siringa, deve averla presa come un affronto personale. Alla pausa comune delle 10 concentrerà l’attenzione di tutti su quell’oggetto indossando dei guanti e serrandolo con una pinza. Chiederà conto del ritrovamento, al suo fianco comparirà Marani, silenzioso e informato dei fatti, già sconvolto per la faccenda del suo allevamento. Gli strilli delle segretarie arriveranno fino all’officina, solo io immagino la causa. Marani fisserà tutti. Uno per uno. Tutti, fuori che me. I fissati mi fisseranno. Sarà un momento bellissimo. Potrei inventarmi una favola molto articolata per guadagnare tempo. Potrei improvvisare un piccolo spettacolo di narrazione. Non ne posso più, queste bestie non meritano la mia fantasia. Non sono un Giamburrasca. Nelle mie marachelle non c’è leggerezza né abbandono, di certo nessuna traccia di allegria.
Anticipo la pausa- pisciata e mi precipito all’armadietto del Frank. Non avevo mai notato la foto tessera incollata sulla lamiera e le due date che definiscono il limite temporale del suo contratto. Apprezzo l’effetto tombale. Una delle due chiavi funziona, dentro c’è una busta e una scritta in stampatello. APOCALYPSE PLEASE. Le indicazioni riportate nel foglio sono chiare. Il tempo stringe. O leggo o piscio. Leggo.

apocalyp.jpgScusa Vecchio, non giudicarmi male. Io non ti servo, credimi. Puoi fare da solo. Devi fare da solo. Le chiavi avrai notato che sono due, con una hai aperto questo loculo. L’altra chiave apre il ripostiglio delle donne delle pulizie, quello vecchio e inutilizzato. C’è una mitraglietta molto leggera, è carica e non è difficile trovare la sicura. Ti risparmio i dettagli tecnici. I vecchi coglioni come te sono allergici a questi particolari. I vecchi coglioni come te sono mezzi froci e mezzi pacifisti. Comunque anche uno come te può far danno con un giochino così. Papà non sarà affatto felice, ho preso a prestito il pezzo migliore della collezione, l’unico non denunciato. Appoggi il ditino al grilletto e quello spara a ripetizione, il rinculo è poco più che un massaggio con vibratore. Stacchi il ditino un attimo, ti godi lo scompiglio, il sangue, le grida. Alcuni chiederanno pietà. Nessuna pietà. Ricordati le umiliazioni, lo schifo. Poi riappoggi il ditino. Su una mensola c’è un telecomando, ho messo quattro casse nel corridoio della mensa. Ti sembrerà assurdo ma non se ne è accorto nessuno, l’ho fatto in orario di lavoro. Noi carrellisti abbiamo un sacco di tempo libero. Alle 12.45 spingi PLAY, hai due minuti per raggiungere la mensa nell’ora di punta.
Le 12.47, parte Apocalypse Please dei Muse. Ho fatto una statistica, due mesi sono stati sufficienti. Ai coglioni come te non piace la matematica. Per quello oggi tiri un carretto. Le 12.47. E’ l’orario di massima concentrazione in mensa. Un groviglio di operai, dirigenti e altri mostri. Poi ci sono le stagiste giovani e carine. Ho visto come le guardi. Morirai di rancore. Con più pus che sangue in circolo. Se non ti spari in bocca prima. Dopo i fuochi di artificio. Non avere pietà delle stagiste, saranno figlie di qualche vecchia carogna aziendale. Poi c’è la signorina Silvani alle 12.47, la segretaria di Marani. Non posso riferirti cosa pensa di te. Ma te lo puoi immaginare, solo vagamente però, non puoi capire la sua ferocia. Ho cercato di farle cambiare idea. Mi ha fatto un pompino in una stradina vicino al ponte della ferrovia. Non ci credi? Quelli come te hanno sempre scopato poco. Non gli pare vero che ad altri maschi tutto riesca così facile. Credici. Quattro ore prima mi aveva fatto vedere le foto dei figli. Al mare. Capisci? Non avere pietà. Se non ti hanno ancora immobilizzato fermati e godi ancora. Apocalypse Please dura 4 minuti e 14 secondi.

Possono essere lunghissimi. Lunedì aspetterò le agenzie di stampa. Non deludermi. Non deluderti.

Apocalypse please, Vecchio.

Quello era pazzo, l’ho sempre detto io, per lo più lo vedevo a pranzo, borbottava tutto il tempo da solo, nessuno si sedeva vicino a lui, pare non avesse un buon odore. Erano le 12.52, dovevo salire in mensa prima, in genere salgo verso le 12.34, meno male che il camionista russo ha voluto subito la bolla, che non c’è stato verso di farlo ragionare, mi ha salvato la vita il camionista della Uaz, lei sa che auto è la Uaz? Ne ha mai vista una? Io no. Penso sia una specie di monovolume. Poi bisogna capirli i camionisti, poveretti, tredici giorni di viaggio, potrei avere il telefono, l’indirizzo del camionista russo, devo ringraziarlo, gli mando dei soldi, un regalo per i figli, avrà dei figli, sul momento mi ha fatto paura, sono un po’ ruvidi nei modi bisogna capirli. Mi scusi maresciallo, vado avanti. Dicevo che io non mi sono meravigliata, mi ha sempre fatto paura quello lì, preferivo stargli alla larga, sembrava drogato, sempre, non è vero come diceva la mia collega che era uno tranquillo e innocuo, la mia collega è sempre troppo buona, era salita prima, non so che fine ha fatto, lei lo sa? Può darmi sue notizie? Ha due figli sa la signorina Medri, non so il marito come se la potrebbe cavare, non sa dirmi niente, non c’è una liste dei feriti e… degli altri. Ha presente il marito… no, capisco, glielo dico io, non sa allacciarsi le scarpe. Mi scusi se divago, ma sarebbe troppo crudele. Parlava sempre da solo quello lì, non so io non lo capivo. Vabbe’. Non so perché sono salita lo stesso, l’ingegner Finetti mi aveva urtato scendendo dalle scale, gli ingegneri sono tutti strani, hanno reazioni esagerate, poi ha continuato a correre, non mi ha avvertito di nulla, cioè non so, qualcosa ha gridato ma era già lontano. Mica si è comportato bene l’ingegner Finetti, non è che è un reato… non avvertire di un pericolo, qualcosa tipo omissione di soccorso… a_rampi.jpgNo, non ho visto il sangue sulla ringhiera, la ringhiera è verniciata di rosso, capitano. Sono salita, sarà la fame, la curiosità per la musica che arrivava anche giù e Finetti che non ha detto nulla. Ho pensato a una festa per un collega pre-pensionato, non ho pensato a nulla brigadiere, forse avevo intuito che c’era qualcosa di brutto e che potevo dare una mano, beh, potevano essere colpi, poteva essere la musica. Fuochi d’artificio? No, dice che era improbabile? Le cose come queste succedono in America, non era così facile immaginarsi il macello in mensa, capitano, la prego mi dica, quanti sono i feriti e… gli altri? I telegiornali hanno già dato la notizia? È una cosa abbastanza grande per un’edizione straordinaria? Mi ricordo ancora la diretta del bambino caduto nel buco, ero bambina, si ricorda che disgrazia? Mi scusi parlo troppo, sono nervosa, lei mi comprende maresciallo. Insomma salgo le scale apro la porta che dà sul corridoio e sento subito miagolare, sembravano gatti, gatti in amore, erano alcuni operai del turno del pomeriggio, arrivano da casa e pranzano in mensa prima di iniziare, mi pare almeno tre, vicini tra loro, appoggiati al muro, come se qualcuno avesse fatto una vera e propria esecuzione, come se li avessero sparati in fila, maledetto bastardo, uno non si muoveva, un paio piangevano con il braccio piegato sullo stomaco, irriconoscibili, dico che erano operai per i pantaloni blu con le tasche sulle cosce e le scarpe antinfortunistica, la faccia e i capelli pasticciati di sangue, non erano feriti in testa, ma continuavano a tamponarsi le ferite e a portarsi le mani in faccia e a grattarsi la testa, sì, mi dava fastidio, era insopportabile, sembrava si grattassero delle croste fino a farle sanguinare, a uno gli ho detto basta, non grattarti che è peggio, non l’ho riconosciuto il sangue gli era calato sulla faccia, a quel punto potevo richiudere la porta, rinchiudermi nei cessi o nell’ufficio degli Informatici che sono sul piano della mensa, ma una forza misteriosa mi ha fatto continuare, poi ripensandoci a mente fredda non era una bella idea rintanarsi così senza una via d’uscita. Poteva essere una banda, potevano esserci altri matti come lui armati, ci sono parecchie persone disturbate in azienda, lui poteva essere lì, altri a presidiare le vie di fuga così che nessuno potesse fuggire. Se c’era la musica altissima come facevo a sentire miagolare? Non so. Forse gridavano ma la musica maledetta attutiva, ma anche il cantante miagolava, non so, musica strana. Che differenza fa? Lui era sulla porta, lo vedevo di spalle, di tre quarti, vedevo un gomito e un pezzo dell’arma, certo che era lui, non lo avete preso poi? Spero si sia ammazzato quel disgraziato. Si è ammazzato? Capitano? È morto quel maledetto? Si è girato e mi ha vista. Mi sono bloccata. Mi ha offesa. Che importanza ha l’esatta espressione? Certo che me la ricordo. È così importante? Dire quella parola a un mamma… maledetto. Di colpo è finita la musica. E i colpi. No, le ripeto che non so nulla di questo Frank, mi sembra strano, che io sappia non abbiamo assunto nessuno con queste caratteristiche negli ultimi anni. Sono assolutamente certa di questo, lavoro all’Ufficio Risorse Umane, nessun Frank, o Franco, o Francesco ha lavorato come carrellista in questa azienda, non facciamo contratti a due mesi per studenti. Ha sentito parlare di recessione alla televisione? Questa azienda sta per chiudere, il pomeriggio della strage era prevista una riunione del sindacato. La direzione aveva annunciato la messa in mobilità per ottanta persone. In attesa di altri provvedimenti. Questa azienda è finita.

Io ho già mandato via un sacco di curriculum.

Finita. Questa fabbrica è finita.