Ernesto è un pepenador dell’isola di Hikako o Caye Caulker, un rettangolo turistico e sabbioso di poche miglia quadrate al largo della costa di Belize City, situato alcune decine di chilometri sotto la punta finale dello stato messicano del Quintana Roo, quel pezzo di Yucatan dove fioriscono alcuni celebri paradisi plastificati come Cancun, Playa del Carmen, Chichen Itza e Tulum.
Ernesto si dedica a raccogliere la spazzatura in modo autonomo con il suo carretto e la sua bicicletta senza freni, per poi dividere questi scarti del sistema e riusare magicamente tutto, dalle marcite assi di legno di qualche palafitta abbandonata al cuoio bucato delle scarpe di un pescatore, dai ferri vecchi, rivendibili sul mercato, ai pezzi di lavatrici, televisori e automobili: un esempio estremo di ingegno e fantasia per il riciclaggio.
Si avvicina l’inverno nei paesi ricchi del Nord e sull’isola, parte del territorio del Belize, c’è molto lavoro visto che giungono orde di americani, inglesi e francesi infreddoliti in cerca di tepore caraibico e alternative sensazioni, a partire da novembre fino a marzo per le vacanze della temporada alta. Durante il resto dell’anno, invece, sembra ricominciare la solita vita sorniona, con le visite al contagocce dei viaggiatori più “sensibili” all’etnicità e al valore umano della povertà, muniti di backpack firmato e alla ricerca costante di informazioni con l’I- Pod e la guida Lonely Planet alla mano, immersi in fumi di dolce marijuana 100% naturale e malinconiche ballate di reggae romantico e dub music, suonate per le strade e nei pochi locali notturni, proprio come succede nei migliori racconti stereotipati provenienti dall’amata e vicina Giamaica, quella dei rasta men Bob Marley, dei figli Ziggy e Damian, dei cantanti Buju Banton, Gregory Isaac e Barrington Levy.
Certamente la vita di Ernesto laggiù in discarica, dove abita in una baracca fatiscente insieme a sua moglie Mary, esce dagli stereotipi e dall’idillio di palme sorridenti e spiagge bianche, per adattarsi ai ritmi del turismo e del consumo, non un giorno di vacanza altrimenti non si mangia e la sua signora, che saltuariamente fa le pulizie in alcuni uffici del Comune, inizia a lamentarsi col suo incomprensibile inglese creolo, una specie di “dialetto nazionale” derivato dall’inglese, suscitando le ire del marito. Mi accoglie il pepenador con un minaccioso machete in mano e le mani consunte più nere dell’anima dei sacchi buttati, dato che è tutto il giorno che divide spazzatura in cerca di tesori che solo lui può trovare e, inoltre, sta cercando di riparare i tubi metallici della sua bici, senza la quale gli è impossibile continuare la giornata, la strada, la vita. Mi mostra il suo regno, la sua discarica o, come lo chiama lui senza cenni d’ironia, “il suo paradiso”, una fossa grande scavata lì, affianco al minuscolo aeroporto dell’isola e lontano dalla vista e dal naso dei visitatori, intimiditi dai fumi della monnezza in fiamme e dal lezzo della sporcizia da essi stessi regalata allo scaltro Ernesto che, l’altro giorno, è stato impegnato da una lotta contro un caimano entrato nel suo territorio selvaggio. “Ha staccato un pezzo d’orecchio a uno dei miei cani ma ci siamo salvati!” mi dice ridendo di sottecchi. Com’è strana e curiosa la pubblicità che ci regala paradisi perduti e tesori in ogni dove, anche se poi, in ciascuno di noi questi sogni, questi edenici ricordi caraibici si materializzano in ben diverse aspettative e condizioni materiali. Ernesto vede il paradiso da un’altra prospettiva.
Senza età e senza giovinezza alle spalle, il Nostro comunica in inglese, più o meno, ma conosce benissimo anche lo spagnolo, la lingua più parlata in Belize nonostante l’ufficialità e la legge prescrivano d’usare l’idioma della ex madrepatria e della regina, sorridente icona stampata sulle banconote d’ogni taglio e valore. Pare immenso il desiderio di don Ernesto, dueño del basurero fiammante, d’incontrare persone che, come me, vengono dal Messico e gli possono raccontare ciò che succede in terra azteca, visto che sua madre era dell’isola ma il suo compianto padre era messicano, cento per cento cabrón, mi dice, dato che dopo alcuni anni li ha abbandonati con infinita maleza. ¡Aquí la vida cuesta cara carnal! – mi grida dall’alto di una bombola del gas arrugginita, sfoderando il machete e richiamando i suoi quattro cani da discarica all’ordine. Il pepenador dell’isola guadagna al massimo ottanta dollari BZN, la moneta locale, cioè 40 dollari USA, che sono appena sufficienti in un paese stranamente molto più caro rispetto al Messico e alla riviera maya dei grandi hotel. Da vent’anni il tasso di cambio viene mantenuto artificiosamente fisso a 2 dollari del Belize per uno americano dalle autorità monetarie, il che favorisce le importazioni e non i dinamici settori agricoli esportatori, oltre a danneggiare la popolazione che deve sopportare un sistema di prezzi adulterato.
Probabilmente il nome del Belize, un paese grande come il Galles incastonato sulla costa dei Caraibi tra lo Yucatan messicano, il Guatemala e l’Honduras, ci ricorda semplicemente qualche programma televisivo dai facili costumi in cui si cerca d’ingannare il concorrente chiedendogli la capitale di un paese esotico la cui risposta sembra essere ovvia: Belize City, per analogia con Guatemala City o Mexico City, ben più note megalopoli centroamericane.
In realtà la “Città del Belize” ha smesso di essere la capitale di questa ex—colonia britannica nel 1961 a causa delle distruzioni causate dall’uragano Hattie, uno dei tanti che periodicamente spazzano via le casacce di legno, eternamente ricostruite, e le labili speranze, mai spente, della popolazione, proprio come hanno fatto il devastante Mitch nel 1998 e il più recente Dean, passato tre anni fa e particolarmente ricordato quanto dannoso nel Chiapas di Marcos e compagni. Quindi, un po’ com’è successo in Brasile con la costruzione dell’attuale capitale Brasilia, anche in Belize si decise di spostare nel centro del paese il nucleo amministrativo e politico con la fondazione di Belmopan, una cittadella fortino di soli 4000 abitanti che ospita tutti gli edifici governativi, questi sì, di cemento, e che rappresenta solo un hub stradale verso tutte le località, un centro simbolico senza cuore. Il Belize è il più giovane Stato dell’America Latina, meno di trent’anni d’età visto che è nato il 21 settembre del 1981, e deve ancora scoprire la sua identità suggellata idealmente dalla bandiera blu coi bordi rossi e con le immagini in cui un uomo di colore e un bianco sembrano recitare il lemma nazionale “sub umbra floreo”, e si reggono in piedi sotto l’albero del mogano, la pianta pregiata simbolo del paese, anche se ormai è estinta in quanto sfruttata dagli inglesi fino alla concessione dell’indipendenza e al contemporaneo esaurimento della riserva naturale.
In effetti, è difficile la definizione di un’identità quando non esiste integrazione tra le diverse etnie presenti sul territorio e il razzismo è il sentimento dominante. I discendenti di colore degli schiavi africani impiantati nell’Honduras britannico, oggi Belize, costituiscono la parte maggioritaria ma non hanno mai dominato politicamente né mai hanno avuto un presidente proveniente dalle loro file. Alfred Jr, un rasta pittore che vende le sue opere ai turisti delle isolette turistiche come la famosa San Pedro, la “isla bonita” cantata da Madonna negli anni Ottanta, predica pace e amore ma odia gli artigiani e le donne guatemalteche che gli fanno concorrenza coi loro “travestimenti”, come li chiama lui, e che hanno più successo coi turisti, europei soprattutto. Mi dice che il razzismo di noi occidentali è tale che preferiamo un artigianato etnico ma modaiolo o “finto maya” alle sue opere originali e puramente artistiche che sono, però, fatte da un “negro” e, quindi, cortesemente snobbate dai passanti intimoriti dal suo colore e dalla sua mole. Meglio un guatemalteco travestito da antico combattente maya dietro a una bancarella di bracciali e stoffe cinesi che un brother nero con i suoi dipinti. Di fatto si nota in alcuni turisti una componente di astio e repulsione nei confronti di Alfred Jr., forse perché, con una mentalità molto etnocentrica, si associa il nero al migrante clandestino, in una tragica e distorta equazione in cui Africa significa minaccia e fastidio, aggressività e illegalità e, inoltre, l’idea che nei paesi europei il migrante sarebbe un delinquente che cerca di vendere di tutto o rubare per sopravvivere. Anche l’amico rasta, che da due giorni non vende un quadro, sposa questa teoria mentre rolla una canna e cerca di piazzare un po’ di erba a un paio di francesi, per “una decina di euro a pugno”.
Qui una serie di foto del Belize.
(1-CONTINUA)