Intervista di Stefania Ricciardi*
Bordeaux, 24 ottobre 2003. Incontro Cesare Battisti al bar dell’Hotel Etap in occasione della rassegna “Penser l’action” organizzata dall’associazione “Espaces Marx” (23-24-25 ottobre 2003).
STEFANIA RICCIARDI: Il tuo L’ultimo sparo, apparso in Italia nel 1998 da DeriveApprodi con l’illuminante prefazione di Valerio Evangelisti, contemporaneamente all’edizione francese Dernière cartouche, è un’opera importante perché rappresenta il primo vero romanzo sul terrorismo. Alberto Arbasino, in Un paese senza (1980), aveva scritto che non esistevano romanzi sul terrorismo. E in effetti c’era solo Il sipario ducale di Paolo Volponi del 1975, ambientato nel microcosmo di Urbino ma ispirato alla bomba di Piazza Fontana.
Bisogna aspettare una ventina d’anni per trovare un romanzo, in questo caso autobiografico come appunto il tuo, in cui l’autore ripercorre il suo passato di militante nella lotta armata. Ma prima di analizzare il rapporto tra i tuoi libri e gli anni di piombo, vorrei soffermarmi sul contesto culturale dell’epoca. Che ricordo hai dell’ambiente intellettuale italiano?
CESARE BATTISTI: Una volta un intellettuale francese mi ha chiesto: ma gli intellettuali italiani dove sono, perché non si sentono, non si esprimono? Io in effetti non sapevo che cosa rispondere, poi mi sono messo a pensare… e gli intellettuali italiani erano tutti in galera. Voglio dire tutti quelli che sono usciti dal PCI e che hanno fondato “Il Manifesto”, per me sono quelli gli intellettuali. Oggi, quando c’è un articolo decente, un saggio, un documento, una cosa onesta, viene da quella gente lì, che è gente che è stata in galera o ci è passata vicino.
SR: E gli scrittori?
CB: Ricordo soprattutto l’impegno di Sciascia. Poi ce n’erano altri. Alcuni che non sono mai venuti fuori. Alcuni anche morti, come Musatti. Ecco, Cesare Musatti non era un intellettuale?
SR: Che rapporti avevate voi terroristi con la letteratura? Se ne avvertiva l’esistenza?
CB: Altro che! Io, se ho cominciato a fare queste cose qui, è stato perché mi ci ha portato la lettura. Eravamo tutti dei pazzi furiosi di libri. C’erano le ondate, per esempio. Mi ricordo l’ondata di Bukowski: si doveva tutti quanti leggere Bukowski, che poi era anche un piacere. Grazie ai compagni, ho riscoperto Chandler.
SR: Quindi anche poesia e romanzo. Perché in genere si parla perlopiù di opere saggistiche di autori come Marcuse…
CB: Sì, perché è molto più facile parlare di questo, caratterizza molto di più il militante politico e aiuta la leggenda il fatto di dire che si leggeva Gramsci, per esempio, ma io questi cosiddetti mattoni non li ho mai letti. La nostra formazione era soprattutto la letteratura tra le due guerre. C’è stato un periodo di letteratura forte a livello mondiale e poi quello che stava venendo fuori dopo la seconda guerra, c’erano i tedeschi, e anche altri, tipo Kundera, per esempio.
SR: E Cent’anni di solitudine di García Márquez?
CB: Ah sì, senz’altro. Poi, quando sono andato in Messico, ho scoperto che le traduzioni erano schifose, certe volte è il contrario di quello che dice lui, è pazzesco! Cioè lui fa un deuxième degré, il traduttore non lo capisce e lo riporta al primo grado. Quando l’ho scoperto ci sono rimasto malissimo.
SR: A proposito di traduzione, in Dernière cartouche alcune soluzioni mi lasciano perplessa. Per esempio, la parte finale molto intensa in cui scrivi «non c’era bisogno di essere chiaroveggenti per indovinare che ormai era finita» e che termina con «Un giorno mi sedetti sulla soglia del limbo e provai a guardare lontano»…
CB: Sì, mi ricordo perfettamente.
SR: Ecco, nel testo francese si legge: «Un jour, je m’assis au seuil des limbes et portai mon regard au loin». Intanto è molto più letterario, e poi manca l’idea del tentativo, che secondo me è importante perché c’è dietro tutto il senso non dico di sconfitta, ma chiaramente di crollo.
CB: Già, proprio così. Ecco vedi, tutte queste nuances mi sfuggono perché io non scrivo in francese.
SR: E questo mi ha colpito, mi sono chiesta come mai non fossi intervenuto pur conoscendo bene il francese.
CB: Quando ho scritto L’ultimo sparo, be’… il francese lo capivo meno di adesso. È stato a partire da questo libro che ho cominciato a controllare la traduzione, prima non ci provavo neanche.
SR: Come dicevo, nella traduzione di Gérard Lecas, che ha tradotto anche altre tue opere, il registro è più letterario, mentre una peculiarità della tua scrittura mi era parsa proprio l’immediatezza, il fatto di sembrare poco preparata, almeno in apparenza.
CB: Sì, era quello che volevo. Il limbo è qualcosa che ti lascia tra parentesi, non sai ancora dove guardare, era questa l’idea. [Qualche secondo di pausa] Sì, è un «vediamo un po’»…
SR: Cos’è L’ultimo sparo? Un desiderio di liberarsi di qualcosa? Di raccontare?
CB: La voglia di raccontare questi anni perché in Italia sono ancora nascosti, cioè abbiamo un’immagine distorta, alle nuove generazioni viene data un’immagine diversa da quella che io ho vissuto.
SR: Ieri [Battisti ha partecipato a un dibattito seguito alla proiezione del film Ciao «Bella Ciao» (1998) di Jorge Amat, anch’egli presente] hai detto: «Quando qualcuno mi dà la possibilità d’intervenire in un dibattito voglio farlo perché voglio dare la mia testimonianza». Quindi L’ultimo sparo ha valore di testimonianza?
CB: L’ultimo sparo è una cosa che si è imposta da sola. Non l’ho cercata assolutamente e a un certo punto è diventata inevitabile, talmente inevitabile che l’abbiamo fatto in due, a capitoli alterni, io e Roberto Silvi, che pure ha vissuto quel periodo. Poi non ha funzionato, per cui abbiamo dovuto riseparare i due scritti. L’ultimo sparo cos’è? Nei primi romanzi comincio dal presente, comincio a scrivere quello che succede nel 1991-92 e senza accorgermene faccio marcia indietro, cioè ogni romanzo che scrivo è l’epoca precedente e così via, ma senza rendermene conto. A un certo punto è chiaro che mi trovo davanti agli anni ’70 e mi sento bloccato, perché tutti quelli che ci avevano provato si sono rotti la testa, si sono fatti massacrare. È un periodo difficile, non si è avuta abbastanza distanza per trattarlo con tutte le debolezze, le pacchianate, tutte quelle stronzate lì e quindi ho detto vabbe’, ci rinuncio, poi c’è stato quest’amico, Roberto Silvi che mi ha forzato… Probabilmente l’avrei fatto comunque, altrimenti non sarei più andato avanti, ma se l’ho cominciato lo devo a Roberto Silvi. È stato un libro che è durato moltissimo, mi ha preso due anni, come del resto Le cargo sentimental, perché toccano certe cose molto da vicino…
SR: Perché c’è più di te stesso?
CB: Sì, praticamente ero terrorizzato dal fatto di essere onesto, il più onesto possibile, e nello stesso tempo avevo anche la pretesa di ricostruire la storia, quindi tutto si gioca tra queste due esigenze. Ma chi fa la storia mente per forza… o allora deve ammettere subito che è parziale, che il punto di vista è parziale, che poi è stato quello che ho cercato di fare io. Adesso lo dico così, ma questo meccanismo è scattato dopo mesi e mesi di lavoro sul libro. Non riuscivo a trovare la prospettiva giusta, poi quando l’ho trovata mi sono detto: bene, non me ne frega niente, è il mio sguardo e lo racconto. E così sono partito. Però, per arrivare a quel punto lì… Lo sai che mi è costato pure una separazione? Quindi è stata dura dura dura, perché bisognava riuscire a ridere delle cose, perché in quel momento ci si divertiva molto, era un gran momento di festa, era questa l’aria che si respirava, non era il piombo…
SR: Infatti «anni di piombo» è un concetto retroattivo che abbiamo ripreso dall’omonimo film di Margarethe Von Trotta del 1981. In realtà appartiene a Wittgenstein, era stato lui a coniare l’espressione alludendo alla seconda guerra mondiale. Ma perché dici che per voi c’era un’atmosfera di festa in quel periodo?
CB: Noi siamo stati fortunati perché ereditavamo tutte le piccole conquiste dei soixante-huitards e, prima ancora, del movimento . Parlo degli anni ’60. Io nel ’68 ero un bambino, e quindi la mia generazione ha ricevuto in eredità tutto quello che è stato costruito negli anni ’60, e anche tutta la digestione di quello che non andava, tra cui la politica di gruppettari degli anni ’70.
SR: Anche l’americanizzazione della cultura?
CB: Sì, una grossa americanizzazione della cultura. La sinistra si libera dal tabù dell’Unione Sovietica. La rivoluzione non c’entrava più nulla, erano i nostri padri che semmai ci pensavano, quindi cominciavamo ad apprezzare le cose americane. Fino ad allora se tu eri di sinistra tutto ciò che veniva dall’America era merda. A partire da quegli anni lì si comincia a esplorare la letteratura americana, che poi invece in Francia era già un dato di fatto, invece in Italia mica tanto, a parte le stronzate pubblicate dai gialli Mondadori che poi spesso erano autori italiani che si firmavano coi nomi inglesi. Ribadisco il principio che la letteratura è stata una cosa determinante. Io ero sicuramente tra i più ignoranti di quelli che frequentavo, ero il più vagabondo, leggevo molto però in realtà non leggevamo le stesse cose. Io ero rimasto ai classici, a tutto quello che a scuola era una rottura di scatole e che poi ho cominciato a riprendere. Quando poi ho iniziato a incontrare i compagni, ma nella clandestinità, e quando dico clandestinità parlo di migliaia di persone, lì ho cominciato a scoprire la letteratura che in un senso o nell’altro veniva tacciata in un certo modo, di destra o di sinistra.
SR: L’ambiente qual era?
CB: Discutevamo di Nietzsche per esempio. Era di destra o no? Era nazista o no? O allora si faceva una fabbrica autogestita con la riduzione dell’orario di lavoro, si organizzavano atelier, laboratori di teatro, scrittura, danza, gastronomia. E non sto parlando di un’élite intellettuale, perché io sono la prova del contrario. Era proprio così. Se c’era quest’effervescenza ci veniva da quegli anni lì, dal sogno di libertà. C’era il benessere perché c’era la ricchezza, e anche se una buona parte della popolazione non la poteva toccare, c’era, la vedevi, non eravamo un paese del terzo mondo. Però c’era la situazione italiana. La gente che manifestava per strada, il 60, 70% di quelle centinaia di migliaia di persone che manifestavano non aveva nessuna ideologia precisa. Gli indiani-metropolitani non avevano nessuna ideologia precisa. Era gente che si era rotta le scatole e voleva vivere e basta.
SR: Ma gli indiani-metropolitani sono del ’77, mentre nel ’68 la situazione era diversa Ho letto un articolo sul Sud-Ouest [quotidiano di Bordeaux] in cui dici che il ’68 in Italia è durato dieci anni.
CB: Quello che voleva essere il ’68 penso che in Italia è durato fino al ’78, poi vabbe’, è continuato perché c’erano gruppi che ancora gestivano certe cose, che avevano aperto spazi di contropotere, però dopo la morte di Moro è finita.
SR: Perché dopo la morte di Moro?
CB: Perché è stata la più grande stronzata che abbiano potuto fare le Brigate Rosse. Tutti erano contenti quando hanno sequestrato Moro. Ma non che lo uccidessero.
SR: Credi ancora nella politica?
CB: Certo, e se no cosa ci resta? Se oggi c’è sfiducia è perché la gente confonde la politica con i politicanti, la polemica con i discorsi.
SR: Perché non si riesce a voltare pagina con gli «anni di piombo»?
CB: Perché c’è una frattura politica enorme che non si è mai risanata. L’Italia è un paese completamente artificiale, il partito fascista si è riciclato chiamandosi democrazia cristiana. Ha preso in mano l’Italia che è un paese satellite degli Stati Uniti, quindi è un paese costruito artificialmente. La frattura sociale in Italia esiste dagli anni ’20-’30 e non si è mai risanata. E non hanno avuto il coraggio di risanarla nemmeno adesso che lo potevano fare, con questa cosiddetta seconda repubblica. Cosa c’è di diverso in questa seconda repubblica?
SR: Tornando alla letteratura, com’è evoluta la tua scrittura? Come sei arrivato a Le cargo sentimental?
CB: Il Cargo è un Ultimo sparo inteso in maniera più ampia, anche più letteraria, perché sono passati anni, quindi c’è anche un’evoluzione e un discorso di generazioni. Dell’esistenza delle generazioni. Quello era il tema. Poi intorno a quel tema ci ho costruito una storia, sono praticamente tutti fatti reali però assemblati in un modo fittizio o dislocati nel tempo.
SR: Riguarda sempre l’esperienza del terrorismo?
CB: Ci sono tre generazioni. La generazione della Resistenza: c’è il padre, che ha fatto la Resistenza senza volerlo, per caso. Il figlio, che sarei io, e cioè la generazione di mezzo, degli anni ’70, e poi la terza generazione, che potrebbe essere quella di mia figlia, per esempio, dei ragazzi sui venti-venticinque anni. Quindi il libro parla dell’esistenza di tre generazioni all’interno di una famiglia. Ora gli anni ’70 non sono trattati quasi per niente, li ho praticamente sorvolati.
SR: Perché?
CB: Per due ragioni diverse. Primo, perché avevo paura di riscrivere L’ultimo sparo. E poi perché in questo romanzo c’è anche il tema dell’identità che è forte.
SR: Anche ne L’ultimo sparo era molto presente.
CB: Esatto. Ritorna, ritorna sempre. C’è un libro che è solo sull’identità: Avenida Revolucion, una storia mezza fantastica, mezza picaresca solo sull’identità. Sì, è un tema ricorrente in quello che faccio.[Alcuni secondi di pausa] Gli anni ’70 li ho sorvolati anche perché volevo che l’io narrante restasse in disparte, molto indietro, perché il narratore è un esiliato, cioè sono io, e un esiliato per me è un fantasma, è qualcuno che resta indietro e vede la vita che gli scorre davanti, compresa la sua, e che fa parte di un tutt’uno e questo tutt’uno è la Resistenza. E allora io vivo la parte di un bambino che racconta fino ad arrivare al momento in cui si passa dalla seconda guerra alla Resistenza. Si passa velocemente sugli anni 70, si fa giusto capire perché questo tizio si ritrova esiliato in Francia e poi comincia la storia della figlia. E siccome sono tre generazioni diverse è chiaro che il narratore racconta in modo diverso, cioè il linguaggio di cinquant’anni fa non è più quello di trent’anni fa, e quello di trent’anni fa non è più quello di oggi, per cui quando subentra la figlia lo stile cambia quasi. Ad alcuni questo passaggio è piaciuto molto, ad altri meno e hanno preferito la prima parte perché, con il bambino che racconta, è quasi una fiaba.
SR: Pensi di scrivere ancora sulla linea dell’identità, della testimonianza, dell’esperienza personale su quel periodo?
CB: No, non voglio continuare su quel periodo. Ma ci sarà sempre qualcosa nel fondo perché io faccio parte di quel periodo e ne farò parte fino a quando non mi permetteranno di voltarla questa pagina, quindi ci starò sempre dentro, secondo me. Le storie poi cambiano col tempo e la personalità del narratore viene fuori da sola. Ora sto scrivendo un thriller, il tema è l’enfermement, la reclusione. Quello dell’identità è un tema vero perché non lo scelgo io, è la parte che non controllo. Nella vera scrittura, non parlo di qualità o di stile, ma quella di sentimento, di emozioni, generosità, autenticità, nella vera scrittura c’è secondo me un 50% almeno che non si dovrebbe controllare.
SR: Come spieghi che in Francia sei un noto e apprezzato scrittore pubblicato da Gallimard, mentre in Italia i tuoi libri sono passati pressoché inosservati?
CB: Perché ci sono problemi legati alla mia situazione. Non posso andare in Italia e il mondo editoriale non funziona così, deve esserci la disponibilità dell’autore a intervenire e questa disponibilità io non ce l’ho. E poi c’è la mia situazione politica: se un editore in Italia tira fuori un mio libro si fa massacrare dalla stampa, e io un po’ lo capisco. Quando nel 1999 è uscito da Einaudi L’ombra rossa mi hanno fatto a pezzi. Praticamente quel libro è stato sabotato. Forse se oggi uscisse di nuovo L’ultimo sparo andrebbe bene. Ho una rassegna stampa enorme, ma nessun giornale di sinistra, quasi nessuno, tutta stampa liberale. Comunque, la prima settimana di novembre esce in Italia Avenida Revolucion, pubblicato da Nuovi Mondi Media, una casa editrice che finora ha fatto documenti. Sempre a novembre, uscirà in Francia Le cargo sentimental per Joëlle Losfeld.
SR: Un’ultima domanda. Hai mai avuto la tentazione di scrivere in francese, ora che lo conosci bene?
CB: No, ho scritto e scriverò sempre in italiano. Anche perché ho paura di dimenticarlo.
A registratore spento, mentre ci avviamo alla Machine à Lire, la libreria che ospita il prossimo dibattito, Cesare Battisti mi dice che oggi che ha una nuova vita, che si guadagna da vivere onestamente come scrittore e soprattutto come portiere di uno stabile parigino, la sua vera paura è quella di perdere l’italiano e la scrittura lo aiuta a mantenere il contatto con la sua lingua. Riflette qualche secondo e poi aggiunge che, a pensarci bene, forse è per questo che ha cominciato a scrivere e non si è più fermato.
[*] Stefania Ricciardi è traduttrice e dottore in Études italiennes. Dal 2007 è docente a contratto all’ISTI (Institut Supérieur de Traducteurs et Interprètes), Haute École di Bruxelles, dopo sette anni d’insegnamento e ricerca all’Université Michel-de-Montaigne-Bordeaux 3. È autrice del volume Gli artifici della non-fiction. La messinscena narrativa in Albinati, Franchini, Veronesi, di prossima pubblicazione da Franco Cesati Editore.