di Carlo Loiodice
«[…] Dopo lunghe trattative i signorotti di Cerignola dovettero accettare un accordo secondo il quale dove venivano ingaggiati lavoratori di altri paesi dovevano trovare occupazione, in uguale numero, i braccianti locali, a condizione, però, che la tariffa di Cerignola fosse applicata per tutti. Non tutti valutarono subito la grande importanza di quell’accordo, di quel contratto diretto tra i braccianti protetti da contratti di lavoro e braccianti esposti all’avidità padronale. Ancora una volta, dopo aver sottoscritto l’accordo, qualche proprietario tentò di sottrarsi all’applicazione di esso. E questa volta il tentativo fu compiuto dall’agrario Giulio Caradonna, padre di quel Giuseppe Caradonna che dirigerà più tardi il movimento fascista pugliese.
Quando alla Lega si seppe che Caradonna aveva ingaggiato a zappare in una sua vigna sita ad appena due chilometri da Cerignola un buon numero di braccianti del vicino paese di Canosa fu presa la decisione di andare nella stessa vigna, la mattina seguente, con un numero uguale di braccianti di Cerignola. E la mattina seguente infatti Giuseppe Di Vittorio si pose alla testa d’una squadra di lavoratori e si recò con quelli a zappare la vigna di Caradonna. Quando già il lavoro durava da un paio d’ore, ecco giungere sul posto i due figli dell’agrario, Giuseppe e suo fratello, che più tardi sarà questore fascista di Alessandria e di altre città italiane, entrambe armati di fucile. «Fuori dalla vigna!» gridarono i giovani Caradonna agitando le loro armi. Ma la squadra di braccianti, capeggiata da Giuseppe Di Vittorio, era formata di proletari decisi e il giovane rivoluzionario si portò di faccia ai signorotti e disse loro, press’a poco: «Sentite, abbassate quei fucili e discutiamo. Se proprio volete sparare, sparate pure. Poi vedremo che cosa accadrà. Io credo che sia meglio ragionare». Di fronte all’atteggiamento deciso e calmo dei lavoratori, fra i due giovani Caradonna e il giovane Di Vittorio si svolse un lungo colloquio al termine del quale i due «padroncini» si trovarono completamente privi di argomenti. «Va bene, per oggi lavorate ma domani non fatevi vedere» disse il più grande dei due fratelli. «No, noi verremo anche domani e fino a quando lavoreranno in questa vigna i braccianti di un altro paese, secondo l’accordo sottoscritto» fu la risposta di Giuseppe Di Vittorio. […]»
Questo si legge nella biografia di Giuseppe Di Vittorio scritta da Felice Chilanti; ed è nozione comune per chiunque sappia qualcosa delle lotte contadine in Puglia agli inizi del ‘900. L’episodio, televisivamente drammatizzato, si è visto nella prima puntata della fiction “Pane e libertà” messa in onda in prima serata da Rai 1 domenica 15 e lunedì 16 marzo 2008, con la sponsorizzazione pubblicitaria di una banca barese.
Per quanto la RAI abbia presentato il lavoro come «fiction», e non come documentario di ricostruzione storica, «Pane e libertà» si presenta come una storia vera: la biografia di un importante personaggio della nostra storia sociale. Nel film, Giuseppe Di Vittorio si chiama Giuseppe Di Vittorio, Giacomo Matteotti si chiama Giacomo Matteotti, e, analogamente, alla realtà corrispondono i nomi di tutti gli altri personaggi storicamente documentabili: Giuseppe Di Vagno, Bruno Buozzi, Palmiro Togliatti, Achille Grandi, ecc.
Fa clamorosamente eccezione il caso dei Caradonna, il padre Giulio e il figlio Giuseppe, latifondisti agrari di Cerignola (Foggia), piuttosto fascisti e un tantino criminali. In effetti la loro carognaggine nello sceneggiato non viene taciuta: loro e i loro sgherri prendono a fucilate i braccianti che protestano, tentano di far fuori Di Vittorio — appena eletto in parlamento — e non ce la fanno perché lui li affronta pistola in pugno. Guidano l’assalto alla Camera del lavoro di bari difesa dai compagni… Tutto vero nella sostanza anche se nella forma e nei particolari, oltre che nella visione d’insieme, ci sarebbe parecchio da eccepire in questo tipo di narrazione. Ma il nome dei Caradonna non si sente mai. A far soffrire i braccianti del Tavoliere, a maneggiare armi contro la povera gente, a tramare nell’ombra per ottenere dalle autorità statali provvedimenti repressivi nei confronti di Di Vittorio, a tentare di impedire con le armi che la gente voti per lui alle elezioni del 1921, a tentare l’assalto alla Camera del Lavoro di Bari ecc, sarebbero stati i baroni Rubino, padre e figlio; senonché di baroni Rubino nella storia di Giuseppe Di Vittorio non c’è traccia. C’è invece traccia di Giulio Caradonna il vecchio, il barone Rubino che tiene la scena nella prima parte dello sceneggiato, e di Giuseppe Caradonna, capomazziere e fondatore dei Fasci di Combattimento di Cerignola, prima di partecipare alla «marcia su Roma» come comandante della colonna meridionale.
Cosa può aver indotto gli autori a questa, chiamiamola così, prudenza nei confronti della famiglia Caradonna? Oggi è vero che gli eredi di quelli lì sono al governo; ma è anche vero che qualche atto di “sganciamento” dai loro illiberali progenitori hanno pur tentato di farlo o almeno di inscenarlo. Infondo non mancano paradigmi storiografici improntati alla “revisione” storica, utilizzando i quali qualcuno avrebbe potuto tentare di assegnare pari dignità alle fazioni combattenti. Ma evidentemente quando è troppo è troppo. E i Caradonna il fascismo ce l’hanno dentro come patrimonio genetico. Giuseppe Caradonna è morto nel 1963, ma nel 1927 gli era nato un figlio, chiamato Giulio come il nonno. Costui aderì giovanissimo alla RSI. Nel 1958 fu eletto deputato per il Movimento Sociale Italiano, il partito postfascista di Michelini e Almirante. Il 16 marzo 1968 guidò assieme a Giorgio Almirante e Massimo Anderson i circa 200 militanti di MSI e di Volontari Nazionali che attaccarono L’ Università di Roma “La Sapienza” per fermare l’occupazione del movimento studentesco. Tranne una parentesi dal 1976 al 1979, è stato in Parlamento fino al 1994. Non ha aderito ad Alleanza Nazionale e nel tempo si è avvicinato a Forza Nuova. Ma per le elezioni del 2008 ha invitato a votare per il Popolo delle Libertà. In tutto questo tempo non si è fatto mancare nulla, come collaborare in affari con Ciarrapico ed essere iscritto alla loggia P2, come un altro tale che non nomino per eccessiva notorietà.
Da quando nel 1995 sul Corsera Dario Fertilio lo definì «ex picchiatore per antonomasia», è uscito sempre perdente da controversie giornalistiche e giudiziarie quando ha cercato di difendersi smentendo.
Possiamo immaginare che un figuro simile abbia potuto mettere in moto una catena di pressioni? Immaginiamolo e vediamo che succede. Succede che, finita lunedì la seconda puntata con la morte di Di Vittorio, con un Togliatti descritto come un dio di stronzo (per dirla alla napoletana), entra in scena Bruno Vespa. Questa volta la puntata di «porca a porca» è dedicata ai sessant’anni della «destra storica del dopoguerra» (sic), che sarebbe quella cosa che va da Almirante a Fini. Ospiti in studio: sei esponenti di AN, dal più vecchio, Altero Matteoli, alla più giovane, Giorgia Meloni. L’occasione sarebbe lo scioglimento di AN che confluirà nel PDL. Non c’era un giornalista. Non c’era uno storico. Non c’era un cazzo! Solo Vespa e sei postfascisti che han detto quello che han voluto. Chissà come se la rideva il vecchio Giulio Caradonna junior! Pardon: il nipote del barone Rubino…