di Dziga Cacace
77-Fantozzi di Luciano Salce, Italia 1975
È una serata moscia: al Lumière c’è Surviving Picasso di Ivory e la voglia di vederlo è pari a zero. Inizia allora la solita discussione su cosa guardare, finché la famiglia tutta si trova concorde nel rivedere l’immortale capolavoro di Luciano Salce. Già visto e rivisto, ma la tentazione è troppo forte. La mia prima volta è stata al parrocchiale di Champoluc nel 1979, la prima proiezione cui ho assistito assieme a Pier Paolo: ricordo soprattutto che mia sorella pianse come un vitello vedendo tutte le disavventure del povero Villaggio (non che oggi, peraltro, goda della visione in assoluta serenità). Ma andiamo con ordine. Il primo fotogramma inquadra un dito malfermo che compone un numero telefonico su uno di quei vecchi apparecchi neri a parete. Il polpastrello a contatto con la bachelite produce un angoscioso rumore, siamo già al dramma. “Parlo con lo spettabile centralino della illustre Italpetrolcementermotessilfarmometalchimica? Sono la signora Fantozzi Pina, moglie del ragionier Fantozzi Ugo, vostro impiegato…”. Ed ecco che scatta la ricerca della matricola 7820/8bis, che inspiegabilmente non fa ritorno a casa da 18 giorni. È in un’ala dell’immensa sede dell’impresa statale in cui lavora, rinchiuso nei bagni prossimi alla demolizione. Una squadra di operai inizia ad abbattere la parete che lo ha murato vivo e il nostro eroe non fa a tempo a venire alla luce che viene centrato da una mazzata in piena fronte, ma, attenzione!, il sordo clangore metallico ci fa già capire due cose: Fantozzi ha la testa quasi vuota. E durissima.
È stato appena partorito da un cesso e battezzato (come Jumpin’ Jack Flash) con una picconata in testa, ma lui controlla che l’orologio, questo sí fragile, non si sia rotto. Accusa un leggero appetito e sviene. E ditemi voi se questa non è una delle più magistrali entrate in scena di tutta la storia del cinema. Provate a contraddirmi, dài. Scena seguente: il risveglio di ogni mattina e la corsa contro il tempo per arrivare a timbrare il cartellino prima delle nove. La vestizione, i lavaggi, la barba, il rito del caffè e della pettinata sono scanditi da un implacabile cronometro. All’improvviso, l’imprevisto: salta la stringa di una scarpa. Fantozzi rimedia con un pezzo di nastro adesivo isolante, ma ormai il pullman che lo deve portare al lavoro è già visibile all’orizzonte. Impossibile fare le scale e raggiungere la fermata: Fantozzi deve calarsi dal terrazzino e, alla moglie che gli ricorda che non l’ha mai fatto e non ha il fisico, sopraggiunge una tra le più belle battute cinematografiche di tutti i tempi: “Non l’ho mai fatto, ma l’ho sempre sognato!”. Pura e autentica poesia. Fantozzi provoca la defenestrazione di tutti i passeggeri del bus e, inseguito dagli inferociti compagni di viaggio, raggiunge finalmente il quotidiano luogo di lavoro. Gli ultimi cento metri sono degni di un maestro del thrilling, fotografati con un grandangolo angosciante. Ce la farà o no, il nostro eroe, cartellino in mano, ad arrivare in tempo alla timbratrice? Alcuni colleghi tentano di aiutarlo ma, beffardo, arriva l’ordine di lasciarlo stare: deve farcela da solo, se no non vale, citando esplicitamente il drammatico arrivo di Dorando Petri alla maratona di Londra del 1900. Indistruttibile, Fantozzi ce la fa! Stacco e scena seguente: l’invito dell’orrenda signorina Silvani a cena. Anche qui una gag dopo l’altra, con l’apice della citazione di Primavera di bellezza che si fugge tuttavia…, che Fantozzi spaccia per suoi versi giovanili. Insomma, è passato un quarto d’ora e Salce ci ha presentato perfettamente i personaggi (la moglie, la figlia Mariangela, il pernicioso Filini, l’odioso Calboni etc.) che circondano il nostro eroe e l’ambiente lavorativo che è riuscito a produrre un tale mostro: Fantozzi guida una Bianchina, beve Prunella Ballor e vuole portare la Silvani a mangiare da Giggi er trojone. Il suo tempo si divide tra il lavoro, lo sport – praticato con penosi risultati (l’incontro di calcio che, dopo due autoreti compositivamente straordinarie, si conclude con l’apparizione di San Pietro sulla traversa; l’incontro di tennis o, ancora, la tragica esperienza di camping e pesca, con ulteriore apparizione mistica) – e improbabili tentazioni consumistiche e piccolo-borghesi (l’allucinante festa di capodanno). Fantozzi vuole l’amante, vuole elevarsi socialmente (la gita a Courmayeur) e, soprattutto, vuole salire i gradini del potere. Tutte le occasioni sono buone per farsi notare dai padroni: alla vigilia di Natale, in occasione del rito dei doni ai figli dei dipendenti, manda la piccola Mariangela a recitare una poesiola davanti al plenipotenziario aziendale. Siamo ai piani alti, gli ambienti non sono squallidi come il sottoscala in cui Fantozzi lavora: le pareti sono ricoperte di velluto cardinalizio e risuonano allegre nenie natalizie. Un bambino ha appena recitato “Gioite tutti, Gesù è nato e tanti auguri al consigliere delegato”. Tocca a Mariangela che, però, viene trattata come una scimmia. Composto dolore di Fantozzi che congeda i potenti con gli auguri per “un distinto Natale e uno spettabile anno nuovo” e spiega alla figlia che la chiamavano Cheetah come Cheetah Hayworth, “una donna bellissima”. Una nuova opportunità per ottenere una promozione gli si presenta quando può giocare a stecca – a perdere – con il nuovo direttore del personale, il volgarissimo Cavalier Catellani. Costui è un bauscia maleducato che continua a ricordare che s’è fatto da sè (come qualche altro Cavaliere, del resto) e premia il servilismo dei suoi sottoposti. Fantozzi si umilia in una memorabile partita a biliardo cui assiste tutto il suo ufficio. Quando sta perdendo 49 a 2 ed è vilipeso a botte di “coglionazzo”, davanti alla moglie ormai in lacrime, insopprimibile e prepotente emergono la suddetta indistruttibilità dell’impiegato e la voglia di riscatto: una serie di colpi magistrali, che culminano in un “triplo filotto reale ritornato con pallina”, regalano a Fantozzi la vittoria, ma lo costringono alla fuga con la madre del Catellani come ostaggio. Catturato, Fantozzi viene degradato e conosce Folagra, un triste intellettuale marxista che gli apre gli occhi sui rapporti tra padronato e proletariato. Dopo serate digiune, immerso in letture maledette, Fantozzi vede la luce e capisce di quale inganno sia stato vittima per così tanto tempo. E allora, eskimo verde e sciarpa rossa d’ordinanza, raggiunge l’azienda con un bel cubo di porfido in mano. Al grido di “che v’ho fatto io?” lo scaglia e, purtroppo, scalfisce solo il Palazzo del Potere. È immediatamente prelevato e portato al cospetto delle massime autorità. In un clima allucinato, costruito magistralmente con deformanti grandangoli e grazie a un uso espressivo e angosciante della luce, Fantozzi giunge al tragico confronto finale, con l’ascetico Megadirettore Galattico. L’ultimo elemento della piramide aziendale viene perdonato da Sua Santità e reintegrato nei ranghi, nell’acquario dei dipendenti. Dal punto di vista della sceneggiatura tutte le sequenze sono concatenate con belle idee, a differenza di ciò che avverrà in quasi tutti gli episodi seguenti della saga, semplici accozzaglie di gag ripetitive e meno divertenti. Qui tutto funziona a meraviglia: le diverse scene punteggiano il passare delle stagioni (secondo il modello del libro Fantozzi) e sono costruite con pungente capacità satirica. C’è anche qualche caduta di stile, ma il rutto di Fantozzi che provoca una slavina è indubbiamente il più bello della lunga storia del cinema. A lungo represso, è conciso, secco, rotondo ed estremamente realistico e mi porta a notare una delle fondamentali caratteristiche di questo gran film. Se, talvolta, le immagini non sono all’altezza delle situazioni, sicuramente un ottimo lavoro è stato fatto, invece, per il sonoro. Come la migliore comicità di Tati, anche qui tutto è sottolineato da un sapiente uso dei rumori più imprevedibili. Altro da dichiarare? Beh, e tutto l’intreccio teologico? Non solo allucinazioni a sfondo mistico: anche l’inaspettata apparizione di Gesù Cristo che Fantozzi chiama Dottore o il tentativo di moltiplicare i pani e pesci nel ristorante giapponese… Per me questo è un autentico capolavoro. (Vhs; 16/4/97)
78-Nirvana di Gabriele Salvatores, Italia 1997
Un programmatore di videogiochi, in crisi per la scomparsa della sua donna, scopre a tre giorni dall’uscita sul mercato della sua ultima creazione che un virus s’è insinuato nel software da lui creato e che il personaggio del gioco ha preso coscienza della sua virtualità. S’instaura così, tra programmatore e programmato, un surreale dialogo: Abatantuono (il Mario Bros in questione) vuole essere “terminato” perché non sopporta il continuo ciclo di nascite e morti cui è sottoposto, la continua reincarnazione impostagli dal ritmo e dall’esito delle partite. Il Nirvana dell’anima verrà raggiunto solo quando verrà inizializzato il “gioco” Nirvana, cosa che richiede a Lambert (il creativo) un avventuroso viaggio, speculare tra realtà e Rete. Il software viene cancellato dopo tante, troppe peripezie condivise con due hacker: uno, un Rubini trafficone e quasi cieco, l’altra, un’affascinante navigatrice dai capelli blu. Lo spunto del film è esile (e non credo troppo originale) ed è denunciato anche troppo apertamente, nonostante Salvatores si diverta, all’inizio del film, a mescolare reale e virtuale per confondere lo spettatore. Al contrario la vicenda si complica a tal punto da risultare di difficile digestione e il regista eccede decisamente nel lavorare per aggiunte piuttosto che per sottrazioni. Il copione risulta farraginoso e inutilmente complicato: c’era bisogno di questa marea di rimandi e di omaggi che inevitabilmente hanno un po’ il sapore del plagio? Salvatores passa dalla letteratura cyberpunk a quella vedica, dalla pop-art all’etica hacker al karma yoga: una furibonda urgenza citazionistica, quasi a cercare il consenso delle varie “comunità” che a queste esperienze culturali fanno riferimento. Comunque, alla fine, Lambert distrugge Nirvana (il gioco) cliccando il tasto delete e interpretando le segrete fantasie di Raffa, che lo stesso tasto lo schiaccerebbe volentieri per Nirvana, il film. Girato con dispendio di dolly e steady-cam, anche dal punto di vista visivo lo sforzo è notevole e, per quanto le referenze a Blade Runner e Strange Days siano esplicitate in maniera tutt’altro che allusiva, le scenografie hanno una peculiare originalità. La città (l’Agglomerato Nord, con delle sopraelevate che ricordano molto le circonvallazioni milanesi) è presentata per spazi molto “europei”: non ci si vergogna a lasciare le insegne in italiano (o i festoni con la scritta Happy New Year con i lumini) in piazzette quasi da paese. Quasi un ironico prendere le distanze dagli illustri precedenti cinematografici. Certo, anche qui abbiamo un futuro spazialmente disordinato, ricco di influenze etniche diverse, zeppo di reminiscenze culturali del passato tutte caoticamente sovrapposte, ma, come gli altri europei Von Trier e Gilliam, Salvatores (sembra una bestemmia accomunarlo a questi registi, povera stellassa!) preferisce evitare il nitore del décor high-tech che di solito sfoggiano i nordamericani. Risulta una fantascienza che non sembra prendersi troppo sul serio: ecco tutti gli amici del regista che si prestano in piccoli cameo (alcuni divertenti, altri sinceramente inutili) con il risultato che il film non accantona il sapore della commedia. E, se posso essere sincero, dato merito al coraggioso sforzo produttivo, tant’è, sono le cose che Salvatores sa fare meglio. Raffa era incazzato come una bestia perché trovava le gag ripetitive. Boh, soltanto averle introdotte in questo contesto mi sembra un esperimento apprezzabile. Il dramma accade invece quando la regia si piglia troppo sul serio e vuole mostrare l’angoscia esistenziale dei personaggi o s’inerpica in fumose considerazioni ontologiche (in bocca a Lambert, poi). Insomma: qualche punto a favore, qualcun altro a sfavore e io non so decidere cosa prevalga: se la delusione o una parziale soddisfazione, visto che ero un po’ prevenuto date le numerose stroncature raccolte tra gli amici. Fuori dai denti, dài! È un film mediocre, ma in fondo coraggioso; superficiale, ma con alcune idee interessanti; nel complesso irrisolto, ma con parti ben costruite. Si fa vedere senza irritarsi troppo. A meno che non siate Raffa che deve ancora imparare la buona creanza della valutazione distaccata e non settaria che mi è chiaramente propria e che, fino a quando non vedrà Jancsò, Ejzentejn e Rocha, non potrà permettersi di parlare né di capolavori, né di mazzate nei testicoli. Però, caro Salvatores, si dice directory, non dairectory. (Cinema Ariosto, 19/4/97)
79-Big Night di Stanley Tucci e Campbell Scott, USA 1996
All’uscita newyorchese del film in questione si era potuto leggere, anche sulla stampa italiana, una serie di fuorvianti recensioni ottusamente entusiastiche (tra cui, se non ricordo male, un pezzo della Bignardi che sembrava avesse avuto un orgasmo multiplo durante la visione). Diciamocelo subito: il film è decente, niente di più, niente di meno. Siamo lontanissimi da qualcosa che assomigli a un capolavoro ma il ritratto proposto dei due immigrati di prima generazione sembra sostanzialmente accettabile. Sono molto meno riusciti, invece (e questo può irritare), i rapporti tra i due fratelli e il confronto della loro diversa tensione: uno proteso alla ricerca di un’arte culinaria (molto di fantasia), l’altro, più realistico, alla ricerca di un’integrazione sociale ed economica. Povera ma dignitosa la veste cinematografica del racconto, urbana la recitazione e carine le musiche. Alcuni momenti sono ben costruiti e divertenti, per esempio la lunga scena della cena (anche se Il pranzo di Babette riusciva molto meglio a solleticare l’appetito e suggerire la gioia dei sensi che una buona cucina può arrecare). Altre parti, invece, sono di un’esilità narrativa deprimente e mi hanno lasciato freddo come un surgelato, arrivando anche ad annoiarmi. Poi, diciamola tutta: già è poco credibile che un povero cristo appena immigrato (si suppone per indigenza) tenti di convertire gli americani a una cucina rispettosa della tradizione e non edulcorata, figuriamoci se si mette a disquisire sull’opportunità di mescolare amidi e carboidrati (tanto più se viene da una terra, l’Abruzzo, dove digeribilità e leggerezza delle vivande non sembrano requisiti fondamentali). Il colmo si raggiunge, dopo tanto disquisire sulla filologia gastronomica, quando in tavola arriva il risotto al pesto, autentica baggianata che potrebbe concepire giusto un americano. E il timballo, alla romana o alla napoletana, non si fa con la pasta sfoglia, ho controllato sull’Artusi. Comunque: dopo una cena che ottiene grandi consensi critici ma nulli effetti commerciali, arriviamo all’ultima scena: quasi a simboleggiare l’arrendersi alla cucina yankee assistiamo a quattro minuti quattro di uova al tegame preparate per colazione. La sequenza muta vorrebbe essere poetica: alza il tasso di colesterolo dei personaggi e fa impennare il tasso di scoglionamento negli spettatori. Dopo tanto scrivere, anche se per diversi motivi, mi ritrovo vicino a Raffa che, quando l’ha visto a Milano, era incazzato come una bestia. ‘Sto film sembra decente, se volete, ma a ben guardare è un bel pacco. (Cineclub Lumière; 21/4/97)
80-Cuore cattivo di Umberto Marino, Italia 1994
Quartiere di Centocelle, un’afosissima giornata d’agosto. La calma che prelude alla pennica viene interrotta da una rapina che, come subito s’intuisce, finisce a Patrasso. Uno degli esecutori del colpo scappa e si rifugia in un appartamento seminterrato dove vive una paraplegica. Inizia l’assedio della polizia, corrono voci incontrollate di stupro, piombano la televisione, i corpi speciali, il magistrato di turno etc., etc. E si dipana il dramma annunciato. Le figure del poliziotto inquirente e del giornalista che s’incarica, in cambio di scoop, di far da garante della vita del malvivente, sono piene di stereotipi e abbastanza scontate, ma l’intensa interpretazione di Kim Rossi Stuart (chi l’avrebbe mai detto: è bravissimo) e il buon lavoro di regia sul ritmo e sulla suspense, rendono il film godibile. Come detto Rossi Stuart regge una parte impegnativa, aiutato anche da un copione scritto decentemente. Oddio, nel soliloquio di Claudio Scalise, il reietto personaggio principale, ci sono un sacco di cadute di gusto ma, va detto, anche un sacco di intuizioni che si sollevano dalle classiche banalità sul degrado urbano e la regia, in modo molto meno smaccato di quanto non denunci genericamente il potere televisivo, mostra il tumore urbanistico dell’espansione periferica di Roma: le torri dormitorio crescono in mezzo a un deserto fisico e culturale in cui risuonano le musiche di Ambra e company e dove si fa vita di piazzetta, appollaiati sui motorini. Dipende un po’ dalla propria tolleranza, ma il confine tra retorica e buon gusto è estremamente sottile, anche perché Marino, sprezzante di ogni rischio di banalità, infila considerazioni sugli handicappati, sull’informazione manipolata, sulla giustizia ingiusta e quant’altro. E non si risparmia anche qualche momento di sincero spirito: la “cinque piotte” con le candele sporche che fa paventare una sparatoria, l’operatore televisivo che cerca la buona inquadratura mentre il principale gli ricorda che “non stiamo facendo Bergman”, la registrazione dei falsi piani d’ascolto, i presenti che preferiscono vedere l’assedio in televisione piuttosto che seguirlo live. Produttivamente siamo su livelli decenti, con la cinepresa più a suo agio nelle scene degli interni. Belle le musiche originali e illuminato (e doveroso, dopo tanti anni di onesto rock’n’roll) l’utilizzo di vecchi pezzi degli Aerosmith. Tanto quanto la paraplegica, anche lo spettatore è preda della sindrome di Stoccolma: il film non è, sinceramente, esente da difetti, ma è intossicante e non lo molli più. (Vhs; 21/4/97)
81-Orson Welles: the One Man Band di Vassili Silovic, Germania/ Francia/ Svizzera 1995
Documentario non particolarmente ispirato, impregnato com’è dalla prepotente presenza dell’ultima compagna di Welles, ma, a ogni modo, molto interessante perché consente di vedere tante rarità e molti brani delle numerose opere incompiute del Maestro. Tra le altre cose si vedono un divertente trailer di F for Fake (ma il film è ancora più fulminante) e brani dei mai completati The Deep, The Other Side of the Wind, Moby Dick e Il mercante di Venezia. Gli appassionati non saranno rimasti stupiti dal vedere quanto materiale avesse prodotto Welles, anche negli anni in cui sembrava lontano dal lavoro: per me è stata un’ulteriore scoperta di un autore già amato alla follia. Costantemente in viaggio con una moviola portatile e con l’intelaiatura di una finestra che gli consentiva di catturare ogni paesaggio, Orson non perdeva occasione per accumulare materiale o aggiungere nuove parti ai suoi progetti. Scopriamo il suo fallito incontro con la stimatissima Dinesen (alias Karen Blixen) o la sua passione per la pittura (bravissimo caricaturista) e ancora l’incoercibile volontà creatrice che lo spingeva a progettare sempre nuove meravigliose avventure cinematografiche. Nonostante tutta questa mole di ricordi passi attraverso il filtro (e l’immagine) di Oja Kodar, non si può che ammirare e rimpiangere l’amato Genio. (Vhs; 22/4/97)
82-Olympia, Fest der Völker di Leni Riefenstahl, Germania 1936
Dopo due anni rivedo qualcosa della discussa Riefenstahl. L’occasione me la concede una videocassetta fornita dall’altrimenti orrendo L’Espresso. La testata, in un’ipocrita par condicio che denuncia poco acume intellettuale, ha deciso di dedicare contemporaneamente due cicli di vhs a Leni e Sergej Michailovic, sfruttando anche il grande scalpore suscitato da una mostra di film e fotografie dedicata all’immarcescibile teutonica. Va detto che il Lumière aveva presentato gli stessi film (che a Roma sembrano arrivare dalla luna) già due anni fa e che, comunque, anche l’anno scorso il Comune di Milano aveva presentato una selezione dei lavori dell’artista (per inciso una mostra raccogliticcia con i film a rullo su dei miseri monitor da 15 pollici e con un costoso catalogo dove Irene Bignardi, se non erro, parlava tanto senza dir niente). A denti stretti ho subito il ricatto editoriale e, già che c’ero, mi sono divertito a seguire, sia su L’Espresso che su altre riviste, la sterile polemica sulla Leni nazista (con Kezich che, ormai, straparla). Per inciso, sono cresciuto – e si vede, dirà qualcuno – sulle recensioni della Bignardi e di Kezich e sono estremamente deluso dai commenti della prima, facili facili e da bella, ricca e annoiata signora che va al cinema al pomeriggio, e dal ripetitivo polemismo del secondo, spesso accompagnato da giudizi veramente discutibili. Tornando al film: è la prima parte del noto grandioso progetto ed è dedicata alle gare d’atletica. Francamente non è entusiasmante come la Festa dei popoli (cioè Olympia parte seconda, vedi più avanti, alla rec.n°93), ma in alcuni momenti il talento visivo della vecchia nazi si libra prepotente. “Giudica l’arte e non l’artista” l’avrà detto qualche geniaccio colpevole di nefandi crimini, ma mai come in questo caso si può essere d’accordo. (Vhs; 22/4/97)
83-Il pranzo onirico di Eros Puglielli, Italia 1996
Venti minuti di puro godimento. Sarà un caso, ma il formato corto sembra congeniale a tanti giovani autori ed è un peccato che sia una palestra ancora troppo poco frequentata dal cinema italiano. Comunque questo è il film che vorrei aver potuto girare io. Fotografato, finalmente, in modo originale e stilisticamente convincente, ben montato e recitato e sorretto da una pungente comicità surreale, Il pranzo onirico ci racconta di un povero studentello inconcludente e confuso, che si trova alle prese con i suoi incubi e con l’atroce famiglia della sua ragazza, una famiglia talmente de paura che, alla fine di un laocoontico pranzo, il protagonista preferirà avere come commensali i demoni che popolano i suoi estemporanei sonni, piuttosto che gli orrorifici burini. E Remo Remotti è sempre fantastico. (Vhs; 22/4/97)
84-F for Fake di Orson Welles, Francia/Iran 1975
Una preziosa videocassetta di Pier Paolo mi consente di rivedere questo accattivante saggio, licenziato da Welles a fine carriera, sull’arte e sulla (sua) falsificazione. Visto ormai tredici anni fa e perso nella rassegna del Lumière, me lo sono proprio goduto: il grande Orson ci racconta la storia di due grandi truffatori (il candido tracopiatore magiaro dei post-impressionisti, Elmyr de Hory, e il falso biografo del misterioso Howard Hughes, Clifford Irving) e mescola, alle vicende dei due personaggi, le tante illusioni e piacevoli falsità che ha saputo raccontare al pubblico, concedendosi anche una geniale beffa finale. Il lavoro di montaggio (tra spezzoni di repertorio, interviste, materiale fotografico, brani di film del regista o scippati ad altri) è sorprendente e dona al film un’unità stilistica notevole, non priva di una grinta narrativa che fa assolutamente dimenticare che questo è un semplice, anche se non convenzionale, documentario. Narrato con la consueta e sorniona complicità, F for Fake è un gran bell’esempio di cinema che dimostra con quale lucidità e intelligenza Welles avesse ancora tanto da dire, nonostante le delusioni e le avversità. Grande. (Vhs; 23/4/97)
85-Ascensore per il patibolo di Louis Malle, Francia 1957
Un ex parà progetta l’assassinio perfetto per eliminare il suo principale Carala (un rispettabile venditore di morte, un commerciante di armi) e vivere con la moglie, che è sua amante. Ma il piano va a farsi benedire fin da subito, per leggerezza dell’esecutore e per destino cinico e baro. Infatti Tavernier, questo è il nome dato al protagonista, appena s’allontana dagli uffici in cui ha compiuto l’assassinio, si rende conto di aver lasciato un compromettente indizio. Lascia la macchina accesa per strada e ritorna in ufficio, ma in quel momento il custode chiude il palazzo, staccando la corrente elettrica. E così l’assassino rimane imprigionato nell’ascensore, in una claustrofobica attesa del mattino seguente, mentre un teddy boy e la compagna gli fottono la macchina. L’intensa Moureau, la signora Carala, lo attende invano, rosa dal dubbio che lui abbia un’altra e l’abbia fin lì uccellata (in tutti i sensi). Parallelamente ai patetici tentativi dell’amante di liberarsi dall’ascensore bloccato, la donna intraprende una disperata e celebre passeggiata nella Parigi di notte. E affiora un’amara e ambigua umanità, insieme alla totale mancanza di rimorsi per la (presunta e, noi sappiamo, avvenuta) morte del marito. Nel frattempo il teddy boy uccide due turisti tedeschi e quando, il mattino dopo, Tavernier riesce a liberarsi, subito viene accusato di questo assassinio. Quello che poteva diventare un alibi si trasforma in un boomerang e… ho già detto troppo. Un gran film che sembra di genere ma non lo è, arricchito da tante sfumature e girato in maniera cool, come la straordinaria musica improvvisata da Miles Davis. So di averlo raccontato malissimo, motivo di più per vederlo. (Vhs; 23/4/97)
86-Go Now di Michael Winterbottom, Gran Bretagna 1996
Nick è un operaio edile e conduce una vita semplice, divisa tra la passione per il calcio, gli amici e i discorsi sulle donne. Una sera conosce Karen e la sua vita cambia: nasce un rapporto maturo e consapevole (perlomeno da parte di Karen, mentre Nick, come sapremo dopo, la prende molto più alla leggera). Sul lavoro e nella vita di tutti i giorni, però, Nick ha segnali strani: intorpidimento degli arti, difficoltà alla vista, insensibilità delle mani, poca coordinazione. Inizia una lunga trafila d’esami fino al terribile verdetto: sclerosi multipla. Se da un lato la malattia rafforza il legame da parte di Karen, d’altro canto lo indebolisce da parte di Nick, che si sente umiliato e non tollera l’amorevole assistenza che gli viene offerta. Cerca di allontanare da sé Karen, raccontandole quante volte l’abbia già tradita, e rinuncia a resistere alla malattia… e bla, bla. Insomma, se c’è qualche film che merita d’essere visto quest’anno – e non raccontato pessimamente come sto facendo io – è proprio questo. Un film che riesce a raccontare un amore non banale e che affronta il tema della malattia lontano da tutti gli stereotipi cinematografici, zeppi di patetismi strappalacrime e di edulcorati e rassicuranti finali. La narrazione è ben scandita e i personaggi hanno un bello spessore (grazie anche ai bravi attori). Sono azzeccate perfino le musiche (il soul di Joe Tex): cosa vogliamo di più? Una storia semplice, purtroppo quotidiana, raccontata senza sbavature e, soprattutto, con una palpabile sincerità, lontana da ogni ruffianeria. Bravissimo Winterbottom, che sa usare bene cervello e cinepresa, un po’ come vorrei che facesse anche Loach. (Cineclub Lumière; 24/4/97)
87-Larry Flint di Milos Forman, USA 1996
Robusto filmone. Non entusiasma particolarmente ma non delude neanche, complici le due belle interpretazioni dei personaggi principali: Woody Harrelson, già inoubliable protagonista dell’indecente Proposta indecente, e Courtney Love, sensualmente sfasciata come nella realtà. Affiora qualche dubbio: è un film che gioca sul soggetto pruriginoso? Tutto sommato no, ai limiti del moralismo: combattiamo assieme ai protagonisti per il diritto di Flint a stampare pubblicazioni erotiche, e, ahinoi, non ne abbiamo alcun saggio concreto. Un po’ come entrare in pasticceria e vedersi offrire un semolino (uno dei piatti che odio di più). Forman costruisce un racconto narrativamente classico, dal buon ritmo e dalla veste stilistica consona, né ammiccante, né dimessa. E alla fine ciò che viene fuori è un film credibilmente libertario, anche se non credo che il messaggio raggiungerà la moltitudine. A Pier non è piaciuto: sarebbero servite più donne nude. (Cineclub Lumière; 27/4/97)
(Continua – 5)