Rileggendo pipe-line di Toni Negri
di Girolamo De Michele
[Pubblichiamo la postfazione di Girolamo De Michele alla riedizione del libro di Toni Negri pipe-line. Lettere da Rebibbia (Roma, Derive e Approdi, Biblioteca dell’operaismo, pp. 212, € 17.00). Le immagini che la accompagnano sono opere grafiche di Nanni Balestrini: per ingrandirle basta cliccarci sopra]
«Direi che non è necessaria la rivoluzione nel senso che ci rimproverano i reazionari pensando che noi siamo assetati di sangue. Ma è importante ricordarsi il senso che aveva, e cioè ricostruire obiettivamente il significato di cambiamento radicale».
Enzo Melandri, Il paradigma di un calogerema (1983)
Quando viene pubblicato per la prima volta questo pipe-line, l’Italia è stretta nella morsa di quegli interminabili giorni della Merla che preannunciavano l’inverno delle coscienza più lungo del secondo Novecento.
Giulio Einaudi aveva chiesto a un filosofo imprigionato nelle patrie galere un esercizio di memoria, una testimonianza di una lunga avventura intellettuale e politica: quasi presentisse che stava arrivando il tempo in cui raccogliere, proteggere, sedimentare i ricordi era già sovversione dello stato di cose esistente. Di un paese che si avviava verso le sbornie dolciastre delle metropoli da bere, preparandosi alle abiure pronunciate, prima ancora che davanti a qualche zelante giudice istruttore, sorseggiando un Campari in galleria col gomito appoggiato al banco del bar, l’ora scandita dall’orologio sul polsino. Non è stato, questo pipe-line, un libro di successo: altri più urgenti cimenti culturali avvincevano l’intellettualità italiana in quel lustro che inaugurava la lunga durata degli anni Ottanta. Con uno sforzo di memoria e qualche scheda Buffetti possiamo ricostruire la superficie di quegli intensi dibattiti, ripensando a un’epoca nella quale i libri erano, per lo più, bibliografie commentate. I pensieri deboli e le categorie della modernità. Le categorie dell’impolitico e le nuove scienze politiche. La seria apocalisse viennese e gli angeli necessari. Gli squisiti gnostici heideggeriani e le mistiche col bollino blu. Schopenhauer a Beyreuth e la camolatura dell’essere. Destra e sinistra si univano come parti di un Centauro, mentre qualunque Carneade, meglio ancora se teologo-politico, era argomento bastevole per un convegno di studi nel quale, mentre i relatori stranieri parlavano alle sedie vuote, gli accademici si spartivano amabilmente cattedre e concorsi. E davvero col poeta non resta che cantare:
And the forest will echo with laughter / there’s anybody who remembers a laughter? (Led Zeppelin, Starway to Heaven).
Dove sono questi libri solo chiacchiere e congiuntivo, ora che pipe-line ritorna dall’esilio? Vai a Milano, sui muriccioli dei Navigli; li troverai là dove dovevano finire: accanto ai tomi della biblioteca di don Ferrante.
Eppure, al di là del valore monitorio che assume questa riedizione, qualcosa l’Accademia italiana avrebbe da imparare da questo romanzo di formazione. C’è, in queste lettere, una vicenda intellettuale che sembrerebbe straordinaria a chi non sapesse che l’apprendistato storico-filosofico del giovane Negri era una volta la norma. Incrocia questo testo con le pagine autobiografiche di Macchina-tempo, e avrai il ritratto, a pennellate impressionistiche, di un tempo in cui la severità e la durezza dei percorsi di studi erano contrappuntati da grandi nomi — i Bobbio, i Paci, i Preti, i Garin — che imponevano la dura e lenta fatica del concetto senza richiedere l’untuoso elogio dell’allievo verso il maestro. E vai a cercarne conferma nelle altezze, teoriche e bibliografiche, di quello scritto negriano del ’64 sui problemi dello Stato francese nel Cinquecento, per capire cos’erano un tempo le riviste e gli esordi accademici. E potresti, già in quelle pagine, dire con ragione che la vicenda intellettuale del giovane Negri è la storia di un tradimento, come sarebbe giusto che accadesse ogni volta: dell’allievo che si ribella al maestro e conquista la propria autonomia. Un tradimento al quale ne segue un secondo: tradire la teoria con la prassi, rovesciare l’altezza speculativa nella militanza, nel concreto, nel frastagliato e brulicante mondo nel quale i maestri sono anche compagni ed hanno nomi come Romano, Rodolfo, Jürgen, Souzy. Le lettere quarta e quinta contengono il racconto di come ci si possa illudere «che la dialettica fosse capace di contenere e sviluppare una matrice utopica» [p. 37], cedendo alle sirene dello storicismo e del bell’umanesimo progressivo, per poi scoprire che «la tendenza progressiva, tipica della cultura italiana di sinistra, […] si rivelava letteraria e retorica quando si incrociava con la presa sistemica sul mondo, in quanto rapporto capitalistico, in quanto alienazione» [p. 49]. Un severo maestro, caduto nella perplessità sulla questione dell’essere, intimò un giorno al giovane Günther Anders di «non disertare nella prassi». Non so se Anders abbia guardato il distintivo nazista al bavero della giacca del maestro, prima di giurare a se stesso che per tutta la vita altro non avrebbe fatto che disertare nella prassi. Il secondo tradimento del giovane Negri è di questa stoffa etica: una continua diserzione. Ma, di nuovo: non dovrebbe accadere così ogni volta? L’idiota accusa di essere un cattivo maestro, di aver traviato con i suoi libri un’intera generazione svela già in queste prime pagine la pochezza culturale ed umana di chi ha fabbricato una simile stupidaggine: la vicenda umana che in queste pagine si racconta e si espone al giudizio, e la vicenda epocale delle generazioni che hanno popolato quegli anni affollati, non è vicenda libresca. Non è nelle carte, ma nelle strade, coi cieli plumbei che le sovrastano e i liquami fogneschi che le sottendono, che si dispiega la narrazione. Ed è solo lì che autore e lettori potranno ritrovarsi e riconoscersi come simili.
Romanzo di formazione, dunque. Ed esercizio di memoria. Eppure l’autore, con giusta ragione, ne diffida: «temo la memoria, troppo spesso è una vanità e sostituisce il reale piuttosto che intingersi in esso. È ideologia e autocompiacimento» [p. 9]. Diffida dalla memoria sin dalla prima citazione in esergo: nel ricordo, avverte l’autore dell’Origine del dramma barocco tedesco, «si deposita la crescente autoestraneazione dell’uomo, che cataloga il suo passato come morto possesso». Il ricordo è complementare, connaturato all’Erlebnis, all’esperienza vissuta: alla riduzione dell’umana potenza vitale, dell’Erfahrung, al solo vissuto. La narrazione, avverte ancora Benjamin, è in stretta relazione con questa potenza vitale che eccede l’esperienza vissuta, il quotidiano. Quante sciocchezze sulla perdita d’esperienza nell’età della rappresentazione mediatica sarebbero evitate se la lingua italiana distinguesse con la nettezza di quella tedesca il potenziale d’esperienza che si annida nel gesto quotidiano — l’Erfahrung — dalla mera registrazione del vissuto — l’Erlebnis: «perché in grado di portare la decisione è solo quell’Erfahrung che, al di là di ogni successivo accadere e confronto, si rivela al soggetto una volta e unicamente essenziale, mentre ogni tentativo di fondare la decisione sull’Erlebnis, sull’esperienza vissuta finisce prima o poi per fallire» (Walter Benjamin, Le affinità elettive, in Angelus Novus, Torino, Einaudi, 1962, pp. 231). Quale facoltà, allora, si intreccia alla potenza vitale che rifugge la morta spoglia cadaverica del mero ricordo? Qui il gesto filosofico è immediatamente dichiarato, in tutta la sua materialistica genealogia: «animus, e non anima, chiama Lucrezio quel nucleo di sottilissima materia in quo consilium vitae regimen locatum est. Eccoci: non la pura sensibilità vitale né la memoria delle sue illusioni — l’animus deve invece parlare, contro e oltre la trivialità della memoria. Il nome ce lo troviamo assegnato — vien fuori lento da una sorta di grande indifferenza nella quale ci si riconosce immersi. L’immaginazione rompe, allora ed ora, questa indifferenza — ed è un nucleo duro di razionalità e passione e ci costituisce per quel che siamo — segni di una relazione fra passato e futuro e i molti sensi del tempo — e segni di un rapporto collettivo» [p. 10]. È questa cupiditas spinoziana e lucreziana che nutre l’immaginazione collettiva: il lungo percorso che ha portato Negri a incrociare la linea rossa dell’insurrezione materialistica, da Machiavelli a Marx, con la fondazione anomala e selvaggia di un materialismo che scarta dal meccanicismo e dell’immaginazione si nutre — da Lucrezio a Spinoza, fino a Leopardi — trova la sua giustificazione nel predisporsi a ripercorrere una storia nella quale la singolarità è sempre immersa nel comune. Un ripercorrere che, anche oggi, nella stampa di questa riedizione, non è, non deve essere occasione di nostalgia antiquaria o monumentale, ma apertura all’avvenire.
Alcune parole-chiave ripercorrono in ogni direzione il verso e il retto dell’ordito di questa narrazione. Due, in particolare: “corpo” e “amore”. Parole che emergono da quell’intreccio di povertà e carità che costituiscono la sostanza viva dell’esperienza cattolica di Negri negli anni dell’adolescenza veneta. Parole che trovano una congiunzione, al di là dell’antitesi, spesso fuorviante, tra fede e ateismo, nel riconoscimento che: «la spinta propulsiva del Cristo non si è esaurita» [p. 17]. Quante volte abbiamo ritrovato — a Genova, nei giorni della mattanza, e l’anno dopo, quando ci siamo riappropriati della città, e nella fase alta, produttiva, dei Social Forum — questo ideale cristiano accanto a noi, nelle stesse lotte, nella stessa rivendicazione di dignità e giustizia. Ed oggi che la carità cristiana è ripiegata e incatenata ai tristi diktat di un tetro parroco bavarese, queste pagine spingono a chiederci dove sono quei fratelli cristiani, e quando torneranno a riempire con noi le strade.
Corpo e amore, dunque. «Il corpo è fragile. Ma può molto — riproduce la vita e riproduce il mondo. Il corpo è fragile — ma l’estrema povertà è una forza straordinaria» [p. 190]. Ma vai ora a vedere dove sono queste parole, da dove scaturisce questo Pascal en materialiste: dal Ferocius Alphabets del macello di Trani, da quel capodanno del 1980. «I pochi mezzi della riproduzione del tuo corpo, i libri ed i quaderni di riflessione, le lettere dell’amante e le cartoline dei figli, tutto strappano, cancellano ed annegano nel piscio. Ti precipitano dalle scale, spaccano le teste, s’accaniscono con martelli di legno grezzo sulle nocche delle dita e sui ginocchi, frustano le costole. Lo Stato scatena il Lumpen» [p. 188]. Di questa notte infame anche Nanni Balestrini e Sergio Bianchi ci danno testimonianza, ne Gli invisibili. La tradizione degli oppressi ci insegna che lo stato di eccezione è la regola, chioserebbe ancora Benjamin: da Trani a Bolzaneto. L’odio verso il corpo rimanda al gelido linguaggio delle sentenze che ci dicono che in Italia la tortura è prassi non normata. Ma non far nulla per impedire, avverte ancora il linguaggio del giurista, equivale a consentire. Eppure i corpi non si spezzano, resistono: «venite ora, poliziotti dell’alta cultura, Arbasini indecenti, diplomatici in rosa, angeliche pantegane, a ridacchiare sulla calda comunità: talora con il passamontagna, ora con le pezze al culo, sempre, nelle fabbriche e nella società, a costruire, a riprodurre — condizione negata al vostro privilegio improduttivo, di baldracche, giudici, guardoni» [pp. 189-190].
Il corpo, se ci pensi bene, è tutto: non c’è altro che questo mio corpo potente, qui ed ora, su quest’unica terra. È nel corpo che s’innervano le capacità nelle quali trovano legittimità i diritti: il Filosofo le chiamava, forse a giusta ragione, virtù, queste potenze del corpo virtuoso che aprono la potenza del Bios al futuro e legittimano la mia umana autoaffermazione, la mia ragionevole autonomia. La potenza del corpo limita la pretesa di onnipotenza del potere, confuta la pretesa del Triste Babbano Vaticano di negare la vita stessa svilendola come “bene indisponibile”.
E se pure, per un attimo, accettassimo questo terreno di confronto — se la vita non è un bene disponibile, di cosa posso disporre? Se la ragione non si radica nel corpo, se è facoltà di un’anima che mi è stata concessa, octroyée, da un dio triste, sabaudo, un rentier che concede in usufrutto ciò che dovrebbe cedere amorevolmente — non diventa allora la mia stessa ragione un “bene indisponibile”? Non retrocedo, privato della parte razionale dell’anima, a quell’indistinta condizione animale che si esaurisce nella riproduzione e nella ripetizione del gesto? Non diventa la vita stessa una catena di montaggio?
Questo divertissement filosofico — non è nell’empireo delle astrazioni che si determinano i rapporti di potere — svela una figura del dominio nell’epoca in cui, con la finanziarizzazione dell’esistenza, lo sfruttamento delle esistenze, del comune assume le forme della rendita finanziaria, con la sussunzione del futuro all’interno di un eterno presente (la favola dei fondi pensione): la mostruosa alleanza tra il Tecnocrate che pretende di immettere ordine nel caos imponendo la risoluzione tecnica dei rapporti sociali al ritmo delle pretese capacità di governare; e il Teologo che pretende di padroneggiare la totalizzazione del significabile e del conosciuto secondo i tempi della totalità sociale che crede di sovradeterminare attraverso una malcompresa e maldigerita muffa filosofica.
La genealogia materialistica dell’amore, espressione del corpo e dei corpi che s’intrecciano, potenza creatrice, cupiditas, è l’argine alla tristezza di questo mostro biopolitico. L’eccedere del caos rispetto alla doppia presa della totalizzazione dal basso e dall’alto. «Non v’è astuzia provvidenziale in ciò, non v’è neppure cieca fortuità: ci muoviamo sempre dentro un insieme di possibilità, questo sì precostituito, e il caso è la condizione che ritarda o accelera gli effetti della nostra libertà. Caso o miracolo della libertà nel mezzo del mondo dei fenomeni» [p. 29]. Il comando capitalistico è pianificazione, progetto, calcolo: nel dipinto di Quentin Metsys [qui], la moglie del saggiatore che distoglie lo sguardo dal libro per sorvegliare l’esatta misura, sull’esquisita, dell’oro. È su questo piano che si misura, se mai fosse necessario ricordarlo, l’abisso tra il movimento radicale degli anni Settanta e la paranoica razionalità brigatista. Poche volte tale incommensurabilità è stata rappresentata con fulminee pennellate come nell’analogia del terrorismo con la ratio del lavoro produttivo: «il loro logistico è una fabbrichetta, la loro organizzazione è una piccola e rapace impresa capitalistica, la loro ideologia è un progetto di accumulazione, la clandestinità un mezzo per diminuire i rischi d’impresa. Le loro coscienze sono funzioni di un calcolo di profitto» [p. 175]. È stata citata, per spiegare la logica del gruppo brigatista, la dialettica sartriana del gruppo in fusione: ma a maggior ragione vanno ricordate le pagine in cui Sartre svela il paradosso dell’uomo che lega la propria vita al progetto per reintrodurre, invano, quel dio che è stato in altro modo negato. Eppure è accaduto che nella stretta solidale tra quel dio in terra che è lo Stato hobbesiano delle leggi d’emergenza e della dissoluzione delle garanzie giuridiche, e quei zelanti pianificatori che si credevano dèi — tra il Grande Paranoico e i piccoli paranoidi — il movimento antagonista è rimasto schiacciato: ridotto a fantasma. «Con un certo masochismo ci rendevamo conto che quella posizione di duplice scontro, con il terrorismo di entrambe le parti, era non solo insostenibile tatticamente ma anche strategicamente immatura. Ma che fare? […] Con svogliatezza e disgusto guardammo concludersi quello che non avevamo la forza di bloccare. E chi non ha forza ha spesso torto» [p. 181]. Ma, mi chiedo: svogliatezza e disgusto non sono figure del risentimento? Non sono espressioni di un patire passivo, dunque triste: di una limitazione d’essere? L’operaio sociale non era attrezzato a queste pratiche, o le rifiutava perché estranee alla sua natura?
C’è, nella quattordicesima lettera, un’apparizione: la riproduzione di uno dei capolavori di Velázquez, Las Hilanderas, appiccicata al muro della cella. Questo grande dipinto, lascito postumo del grande pittore spagnolo, paga l’ingiusto torto di essere oscurato dall’altra grande tela della maturità, Las Meniñas: di non aver avuto un Foucault che ne svelasse gli orditi e gli arcani. Eppure quest’opera pone una grande quantità di problemi. Non è qui in questione lo statuto della rappresentazione del soggetto, ma l’essere umano messo al lavoro. Che il mondo fosse produzione umana, forza lavoro all’opera e non creazione divina, Velázquez lo aveva già mostrato nell’Officina di Vulcano. Che anche l’intelletto sia messo all’opera, che il mito sia esso stesso non semplice favola ma prodotto dell’ordito delle filatrici — che Athena e Aracne siano, ambiguamente, fuori e dentro l’arazzo sullo sfondo — è qui mostrato forse per la prima volta. Prendiamo allora queste filatrici come allegoria di quel soggetto insubordinato, irriducibile ai riformismi di bassa leva che scomparivano davanti ai grandi riformismi del decennio precedente (dando il là ad una caduta tendenziale del saggio di intelligenza del reale che non s’è ancora arrestato) – «ma come fai a metterli in fila questi operai in scarpe da tennis, queste femministe “impunite”, questa giovane forza lavoro intellettuale che proietta la sua mobilità sull’arco dell’immaginazione?» [p. 157]. La doppia chiave di lettura — il mito è dissolto nei rapporti di produzione, o è ancora fisicamente lì, objectum contrapposto al soggetto — rende l’idea di quell’impasse tragica. È possibile che un residuo di finalismo abbia distorto la lettura dell’operaio sociale? Che un resto di iperpoliticizzazione abbia proiettato false ombre sulla scena sociale? La consapevole dissipazione cui l’operaio sociale andò incontro, prolungando la dissoluzione della giornata lavorativa praticata negli anni Settanta nella fuoriuscita individuale dalla schiavitù del lavoro salariato negli anni Ottanta, non svela forse un ordito irriducibile ai pur legittimi e speranzosi desiderata del tempo?
Si insiste spesso, quando si vuol liquidare la ricerca che Negri conduce nell’epoca della sussunzione della vita stessa all’interno della rendita finanziaria, sulla filiera “operaio sociale—moltitudo spinoziana—moltitudine”, assunta acriticamente e usata per affermare una troppo facile metabasis senza residui del vecchio soggetto in nuove forme. Non è così, ça va sans dire. Eppure, c’è forse qualcosa da imparare, da temprare nel concreto, proprio nel rapporto tra quelle tre figure: forse la critica andrebbe rovesciata in strumento euristico. Pongo qui tre questioni, troppo complesse perché ne possa parlare compiutamente — ma anche, troppo importanti perché le ignori.
1. Il rapporto moltitudo—moltitudine. La crisi del movimento esploso a Genova e imploso due-tre anni dopo, e l’egemonia culturale di una destra rozza e razzista, prodotto di una crisi finanziaria di lunga durata che era in marcia dall’inizio del terzo millennio, pone il problema di un lato oscuro della moltitudine. Di una moltitudine rancorosa, assoggettata alle passioni tristi, esposta sul lato arendtiano della plebe. Lungi dal tenere distinti i due capi del dilemma, non è forse la dinamica della moltitudo machiavellica e spinoziana una preziosa chiave interpretativa che il passato consegna all’avvenire?
2. Il rapporto operaio sociale—moltitudo. L’origine del rancore come passione politica (quell’impasto di disincanto e rivendicazione che nutre il popolo leghista) non è forse già presente nella trasformazione dell’operaio sociale in piccolo padroncino, nel riversare sul terreno dell’accumulazione e della rendita individuali l’odio verso Stato e sindacato — e verso la stessa condizione operaia — che aveva animato le lotte degli anni Settanta? Di nuovo, non ridiventano preziose forme di indagine sociale le complesse trame delle passioni spinoziane (e laboétieane), a fronte della semplificazione riproposte oggi dalle forme teocratiche e tecnocratiche del comando?
3. Il rapporto operaio sociale—moltitudine. La comparsa, l’esplosione dell’operaio sociale dispiegato nella sua multilateralità coglie Negri a parco Lambro, nell’estate del ’76. Con un gesto interpretativo che anticipa il grande libro su Leopardi, Negri usa il poeta recanatese per leggere un soggetto che manifesta già i tratti della moltitudine del terzo millennio. E a permetterglielo sono i Paralipomeni della Batracomiomachia, ai quali dedicherà pagine finissime in Lenta ginestra. «Verso cosa andava quella costituzione collettiva del soggetto? Nella sua genesi concreta aveva trovato la festa come elemento creativo — di che cosa?» [p. 150]. Nei Paralipomeni, figura chiave è il conte Leccafondi, allegoria di un’intellettualità che eccede persino quella leopardiana: «fu di sua specie il conte assai pensoso / filosofo morale, e filotopo». Il conte Leccafondi è oggi il General Intellect, che il baron Camminatorto, «faccendiere grande e gran raggiratore», acuta figura del comando poliziesco, bada a tenere distinto dalle trame topesche: «ma non sostenne poi che capo e fonte / di queste trame divenisse il conte». La cinica astuzia del comando ha avuto buon gioco, rispetto all’operaio sociale, nell’inserire un cuneo tra la dismisura del General Intellect e il corpo sociale che si disperdeva in mille rivoli e derive nel sociale. Comprendere il come e il perché di questo iato che s’aprì allora è essenziale alla comprensione della crisi del movimento No Global, è propedeutico alla ricomposizione di potenza intellettuale e capacità produttiva ancora una volta divisi dall’uso politico delle passioni tristi, ma anche dalla mitologia dell’iperpoliticismo — dell’arazzo scambiato per il reale. Comprendere il radicale a-finalismo dell’operaio sociale di ieri significa attrezzarsi alla comprensione dell’a-finalismo della moltitudine oggi: che rifugge, come il suo fratello maggiore, la riduzione della complessità.
Chi leggesse per la prima volta questo pipe-line potrebbe provare sconcerto davanti ad un’affermazione che all’epoca era consueta: il carattere anticostituzionale dell’insubordinazione sociale. La Costituzione è vista oggi, da più parti, come un argine al dispotismo illimitato: e per certi versi, lo è. Aggiungo: la comprensione biopolitica dell’esistenza (il cui alfabeto ci è stato insegnato da Foucault) ci mostra come concetti quali “vita” e “salute”, che ieri ci sembravano astrazioni ereditate dalla tradizione liberale, sono concretamente radicati nel Bios, e sui quali ci sono battaglie da combattere. Ma oggi la Costituzione scritta, fondata sul lavoro, è largamente superata da una Costituzione materiale che nella precarizzazione del lavoro e nella ThyssenKruppizzazione dell’esistente ha rinnegato quella funzione che i costituenti attribuirono al lavoro: la rimozione degli ostacoli che consentono il reale godimento dei diritti, il pieno dispiegarsi della potenza vitale nel comune. Impotenza costituente del lavoro salariato: le lotte dell’operaio sociale avevano reso patrimonio comune la critica del lavoro salariato come servaggio e sfruttamento, svelando l’ipocrisia della “Costituzione fondata sul lavoro”. Oggi, nelle lotte dei migranti e dei precari che devono fronteggiare un livello di sfruttamento e di illegalità capitalistica molto al di sotto delle cosiddette garanzie costituzionali, queste pagine ci ricordano il senso e il significato — più che mai attuale – che ebbe il rifiuto del lavoro: «Il lavoro non è un modo di vivere ma l’obbligo di vendersi per vivere. Ed è lottando contro il lavoro, contro questa vendita forzata di se stessi che [gli operai] si scontrano con tutte le regole della società. Ed è lottando per lavorare meno, per non morire più avvelenati dal lavoro che lottano anche contro la nocività. Perché nocivo è alzarsi tutte le mattine per andare a lavorare, nocivo è fare i turni, nocivo è anche andarsene a casa con un salario che ti costringe il giorno dopo a tornare in fabbrica» [p. 82].