di Alberto Prunetti
Alessandro Angeli, Maginot, Nardò, Controluce, 2008, p. 96, 12 euro
“Ero stato a Roma a sentire la presentazione di “ardecore”, il primo disco omonimo degli Ardecore, che riprendono le canzoni della tradizione popolare romana, dove spesso si parla di storie di coltelli e galera e del Tevere come di un corso vitale impervio e minaccioso. I pezzi mi piacquero molto, comprai il cd e al quarto quinto ascolto decisi che avrei provato a buttar giù una storia su Roma… scrivendo, è venuto fuori il titolo e poi il racconto…”
Così, intervistato da chi scrive, Alessandro Angeli ricostruisce la genesi del suo ultimo romanzo. Una storia su Roma, una storia “nera” che racconta le vite marginali di alcuni proletari di borgata: l’iniziazione alla violenza nello schiaffo di un adulto, l’amore in una camerata polverosa di un centro sociale, poi i lavori a termine come stradini e infine la svolta illegale: gli espropri, le rapine, i regolamenti di conti.
Fino a quando la legge viene a riprendersi quel brandello di vita che si è acceso per un istante in un amplesso notturno su una spiaggia battuta da un mare grosso. Alla fine il carcere, la tomba e l’ospedale psichiatrico saranno l’inevitabile nemesi per chi ha tentato di sfondare i limiti di quella linea invalicabile — una sorta di “maginot” — che la società ha costruito tra inclusi ed esclusi.
Angeli racconta la sua Roma violenta illustrandola con slides fotografiche che squarciano il buio con improvvise proiezioni di luce. Non c’è tutta la trama: solo frammenti su cui l’autore apre l’otturatore. Ed è proprio questo il meccanismo compositivo di Maginot, come si evince dal sottotitolo: “Fotogenesi di un romanzo”. Un romanzo cresciuto per scatti fotografici, brevi capitoli che montano le istantanee di tre vite ai margini: Sisto, Rossana e Lorenzo, l’io narrante. Quasi una storia di cronaca nera (così fa intendere l’epilogo del romanzo), se non fosse che tutta la vicenda è partorita dalla fantasia dell’autore — a parte i riferimenti alla morte di Valerio Verbano, ucciso dai Nar, per il quale i muri di Roma hanno gridato per anni vendetta. Quasi appunti di un romanzo a venire, per quel che il sottotitolo lascia pensare, e invece c’è il romanzo vero e proprio: secco, rapido, cupo hardcore romano.
Un estratto da Maginot di Alessandro Angeli:
Sisto ci aveva provato altre volte a vivere una vita normale,
come avevano fatto i suoi vecchi. Attaccava alle due, in un
mondo bianco, lunare, fatto di farina, con le fiammate di
calore che gli sbollentavano la schiena, era un non stop fino
alla mattina. Il sole fioriva e lui sfornava pagnotte, pezzi su
pezzi, quattrocento chili a notte e dopo sfrecciava dentro
Roma su un furgone bianco, con le strade insensibili al suo
sonno, e la gente che già baccajava, con le mani a cucchiarella,
fuori dai finestrini. Strade che non finivano mai, erano
loro a comandare. Le sigarette, la bottiglia di tè e due caffè
dalla macchinetta, non uno di più, che se no bisognava pagare.
Fumare poteva fumare, ma senza fermarsi, che altrimenti
il padrone si straniva. La cenere della sigaretta si mischiava a
quel bianco, alla pasta, al lievito, mentre la stanza bruciava,
sotto la lampadina spenzolata. Il mondo stesso bruciava, gli
oggetti accanto a lui sembravano sudare e da quel fuoco, da
quel calore svilito, nascevano sostanze. Sisto voleva imparare
e la novità lo incuriosiva, ci si era messo con impegno, ma
dopo due mesi di quella trafila, una notte la stanchezza aveva
preso il sopravvento. Questione di secondi, una disattenzione
e tutto si era capovolto.
Era fermo a traccheggiare con l’impasto e si era scordato
di sfornare.
“Ma che cazzo hai fatto aòh, che fai dormi in piedi?”
Il padrone con la panza sporgente gli stava addosso, la
teglia bruciata accanto. Sisto non sentiva più quello che diceva,
vedeva solo i denti marci del capoccia andare per conto
loro, come la filastrocca di uno scheletro.
Poi si era sentito afferrare, e lì aveva reagito. Si era levato
le sue mani dal colletto e gli aveva puntato l’indice addosso.
“Fortuna per te che stai qua dentro, che sennò vedevi”.
Non si erano più detti niente, ma al momento delle consegne
Sisto ci aveva ripensato e invece di partire col furgone
era tornato indietro e aveva aspettato con calma che il padrone
uscisse, per andarsene a casa. Quando era arrivato, lo aveva
attaccato al portone dei palazzi, la testa sbattuta contro i campanelli,
quattro, cinque volte, con tutti che rispondevano Chi
è… Chi è?
“Pubblicità in cassetta”, aveva risposto Sisto dopo un po’
che s’era scocciato, poi lo aveva lasciato cadere a gambe larghe
per terra e all’ennesimo chi è “Venitevelo a prenne” aveva
detto e se ne era andato.
[Ringraziamo A. Angeli per averci concesso la pubblicazione di questo estratto dal suo romanzo] A.P.