di Jago Malteni
Il racconto che segue è stato concepito dall’autore come uno spin-off (com’è che si dice) del romanzo a puntate “L’arca della fattanza”, in tema con la recente e quantomeno discutibile apertura di una mostra di street art a Bologna.
Spaccare tutto.
A metà tra l’imperativo categorico e l’istruzione per l’uso, Giobi vede la scritta campeggiare sul muro di fronte, in una foto che circola da un po’ in rete. Chi l’ha scattata, però, non poggiava le suole sull’asfalto di un marciapiede, accorto magari a non spiaccicarle su una merda fresca di cane, ma sopra al marmo lucido e disinfettato di una stanza chiusa. Il muro in questione, d’altronde, non è un muro esterno, appartato dietro un gomito della Bologna universitaria o sul ciglio di un viale di periferia, ma la parete di una sala, la sala di un palazzo, il palazzo che da poco è stato adibito a m(a)us(ol)eo di arte urbana.
Murales, scritte e graffiti levati di sana pianta dalla strada, scrostati alla lettera dai muri sui quali abitava la loro sola ragione d’essere e appesi sottovetro sulle pareti di un posto che è più un “obitorio”, come è stato detto, che altro.
Un po’ come allestire una mostra di sostanze psicoattive lungo i corridoi di una clinica per disintossicazione da droghe. Il che sarebbe pure una gran bella idea, a pensarci, se non fosse che la clinica è privata e l’ingresso esclusivo, riservato a pochi, meglio se proibizionisti.
Spaccare tutto.
Facile che l’autore della scritta, per mai che avesse voluto vederla in un posto come quello, fosse proprio a un posto come quello che volesse riferirsi. E il peggio, la cosa che più fa bestemmiare per il senso d’impotenza che arriva veloce appena dopo l’incazzatura, è che chi ha allestito la mostra ne è perfettamente consapevole.
Quella scritta, messa lì, non è che una provocazione bella e buona. È il potere che piglia per culo l’antagonismo derubricandolo a stupido gioco infantile, ma solo dopo averlo represso con la forza e rinchiuso nella gabbia di quattro mura domestiche, asettiche e sterilizzate.
Ci manca solo che ti mettono pure qualche attrezzo a disposizione per invitarti a “spaccare” tutto sul serio, – pensa Giobi al riguardarsi la foto, – tipo quei martelletti che trovi sui mezzi pubblici per infrangere i vetri, “da usare solo in caso di emergenza”. Cioè, nel caso in questione, subito! Immediatamente!
Pezzi di arte urbana che da un giorno all’altro vengono sottratti al loro contesto originario e incorniciati a uso e consumo di migliaia di visitatori paganti, tutti in fila per ingrossare le tasche di qualche magnate gallerista: se non è emergenza questa?
E non è manco per il costo del biglietto in sé, e cioè tredici fottutissimi euri più uno di cauzione (che pure è una mezza randellata nelle reni per uno studente spiantato e fuorisede). È proprio che certe cose… certe cose no, porcaputtana!
Specie se a farle sono quelli che fino all’altro ieri si riempivano la bocca di “decoro” urbano, gli stessi che mo pretendono di fare soldi con parte di quel “degrado” che a parole hanno sempre osteggiato, condannato, combattuto con ogni mezzo, ma che tutt’a un tratto si rivela fonte di profitto, gallina spennata dalle uova d’oro (a patto però che il messaggio sociale e politico sotteso non oltrepassi i cancelli d’ingresso).
Queste cose, però, le hanno già dette in tanti, al punto che è pure inutile starsele a ripetere. C’è tra gli altri chi al proposito ha parlato di “decontestualizzazione” dell’opera d’arte, chi è andato a scomodare Benjamin, chi Foucault e chi addirittura Marx, tirando in ballo il concetto di “accumulazione originaria del capitale”.
Tutto giusto e condivisibile, per carità. Ma certe cose Giobi si è scocciato di leggerle, tanto più se le vede spegnersi davanti agli occhi non appena lo schermo del portatile gli va in standby.
Vorrebbe fare qualcosa, invece, qualcosa di più concreto. Di fronte a uno schifo del genere si sente chiamato a non starsene più con le mani in mano, lui che appresso alla street art si è inceppato fino quasi a perderci la testa. Specie ora che alcuni pezzi di quel puzzle che da tempo cerca invano di ricomporre non sono più per strada, disseminati sotto i portici e per le vie della città, ma nel chiuso di una specie di camera ardente.
Qualcosa deve farla. Ma cosa? Sabotare, boicottare. Certo, ma come?
Blu, per esempio, ha cancellato le sue opere con un’audace, poetica e sacrosanta passata di grigio. Le cose fatte sui muri, del resto, mica sono là per restarci in eterno? Tanto vale, sennò, trasferirle veramente in un cazzo di museo! Per non dire che di recente lo stesso Blu ha cancellato un paio di sue opere a Berlino, senza però che in quel caso ci fosse il rischio di vedersele snaturare in una galleria d’arte.
Quelli che lo hanno aiutato a ripulire le pareti si sono pure beccati una denuncia. La più assurda delle denunce che mai graffitaro si potesse beccare: quella di aver cancellato un murales invece che di averlo fatto!
Giobi, però, non è un graffitaro. Non è Blu, soprattutto, e di sottrarre graffiti ai mercanti d’arte non se lo può permettere (senza poi contare che cancellarli tutti è veramente un’impresa impossibile).
Eppure, se proprio non si può evitare che delle opere d’arte urbana finiscano surgelate in vetrina, tanto vale agire in senso inverso, portando cioè un po’ di strada dentro le mura dove stanno imprigionate, restituire loro un po’ del contesto in cui hanno visto la luce, un po’ di sano lerciume, un po’ di “degrado”.
Questo s’è detto Giobi, e da quando l’idea gli è entrata nella capoccia non se n’è più voluta uscire. Si è messo perciò a studiare una maniera per realizzarla, un piano d’azione, una strategia. Almeno cinque le cose che servono: una bomboletta spray, una vescica gonfia sul punto di implodere, un passamontagna per eludere telecamere e sorveglianza, scaltrezza da faina e tanto, tantissimo culo.
Di entrare per l’ingresso principale, ovviamente, non se ne parla. Il palazzo è costantemente piantonato dalle guardie e i controlli saranno persino raddoppiati da che la mostra è salita agli onori della cronaca. Giobi però, sviscerando meglio la mappa dei sotterranei bolognesi (quella che si era procurato grazie a Luca), ha scoperto l’esistenza di un passaggio che sbuca giusto nel seminterrato del palazzo in questione. Il primo sopralluogo fatto gliene ha dato conferma; il secondo gli ha addirittura suggerito il modo di raggiungere il piano allestito senza passare per la porta principale. La fregatura è che la sola entrata per dove può passare è in realtà un’uscita, una porta d’emergenza sul retro. Che, come tutte le cazzo di porte d’emergenza sul retro, si apre solo da dentro. Dovrà perciò appostarsi fuori e aspettare che qualcuno, un custode o un addetto, la apra per qualche motivo; al che, senza farsi sgamare, dovrà intrufolarsi dentro in punta di piedi, raggiungere le sale della mostra e una volta là aspettare il momento giusto per…
No, da solo non potrà mai farcela.
Perciò ha provato a sentire Luca, che subito si è detto d’accordo a fargli da palo. Pure domani stesso, che alla mostra aveva comunque già pensato di andarci. Giobi allora, vista la disponibilità dell’amico, gli ha chiesto di andare lui ad aprirgli quella cazzo di porta d’emergenza sul retro. A un orario concordato, certo, e magari dopo essere entrato un po’ di tempo prima nei locali della mostra, non più di quello che basta a farsi un’idea della vigilanza e delle misure di sicurezza. Le due di pomeriggio è l’ora in cui è presumibile che ci siano meno visitatori, e che si abbassi pertanto la guardia. E per quell’ora sono rimasti d’accordo.
Fino a che, il giorno dopo, quell’ora non è arrivata.
Le due, le due e cinque, le due e dieci… Giobi è là fermo in posizione, con l’aria di un ratto risalito per le fogne e venuto fin là a impestare l’impestabile. Il passamontagna è già infilato in testa, la bomboletta in un tascone e la vescica grossa quanto un pallone da basket. È da stamattina che non piscia, e per poco la tensione non gliela fa fare addosso.
Alle due e un quarto Luca apre finalmente la porta, giustificando il ritardo col fatto che fino a un momento prima ci fosse uno dei vigilanti a sorvegliare l’uscita.
Giobi si fida e lo segue fino al primo giro d’angolo, dove lo vede sporgersi a osservare la situazione mentre con una mano gli fa segno di aspettare. Poi, passato un minuto o forse due, gli dà il via libera. E Giobi si fionda allo scoperto.
I passi rimbombano nel silenzio mostruoso di quelle sale stranamente vuote. Le pareti sono tappezzate per intero da quadri entro cui si trovano costretti pezzi di muro, vecchie porte in legno e saracinesche divelte, persino cartoni per pizze, con sopra stencil e graffiti affiancati da insulse targhette che ne specificano l’autore, l’anno, la provenienza.
A un momento gli sembra pure di vedere quelle scritte cominciare a muoversi, fluttuare in spirali ipnotiche che si allargano fino a sfondare le cornici e sconfinare per sopra alle pareti. Strano: era sicuro di non aver assunto sostanze allucinogene prima di uscire. (Non invece come quella volta che si era risvegliato in piena notte su una panca ai giardini di San Leo, tra gli anatemi e le bottigliate della signora Anna).
Luca intanto gli fa strada, finché, percorse alcune sale fino a quella principale, salite poi alcune scale e svoltato un altro paio d’angoli, l’occhio non gli cade sulla scritta che aveva visto in foto.
Spaccare tutto.
L’atrio è deserto, il momento propizio. Con le spalle copertegli da Luca, che resta a fare da palo poco distante, Giobi si sbottona la patta dei calzoni e vuota la vescica lungo la base della parete. Un minuto e passa di pisciata fumante, roba che manco Fiabeschi! (Tipo l’ultima volta che aveva pisciato nei cessi al piano seminterrato del 36…)
Poi sfodera la bomboletta e la fa cantare, imbrattando di scarabocchi ogni minimo angolo della stanza. Ne scrive di ogni: La street art senza street non è manco più art, Padroni ladroni, Musealizzatemi ‘sta minchia, La proprietà è un furto… con diverse A cerchiate da per tutto.
Luca, nel frattempo, è ancora là con le mani in tasca, tranquillo, forse pure troppo. Fatto sta che non dà segni di allarme, per cui Giobi riprende fiato e si ferma a contemplare il lavoro fatto: proprio un bel servizio, non c’è che dire. In culo a chi vorrebbe l’arte di strada senza più la strada per torno.
Spaccare tutto.
Ancora quella scritta, là immobile a caratteri cubitali, sotto la luce fredda di due lampade al neon. Pare avercela con lui ora, come fosse un invito, un promemoria a concludere il lavoro cominciato e lasciato a metà. Martelli non ce ne stanno in dotazione, ma in un angolo Giobi scorge un estintore e non può mantenersi d’esaudire il desiderio che appena gli sfiora le cervella: abbrancarlo di colpo e schiantarlo contro la parete dove la scritta si staglia.
Il fracasso è tale da far scattare l’allarme, e l’allarme tale da far risvegliare Giobi nel suo letto, di colpo, con una sirena d’ambulanza spiegata nelle orecchie e un impellente bisogno di pisciare.
Cazzo!
Nemmeno dopo il caffè si leverà di dosso la netta sensazione che fosse tutto successo per davvero. Incapace a capacitarsene, acchiapperà il telefono e cercherà il numero di Luca tra le ultime chiamate:
«Pronto Lù! Senti qua, avrei una cosetta da proporti…»