A proposito di cinema, cinefili e New Italian Epic
di Guido Chiesa*
[In calce a questo post, link e novità dalla discussione sul NIE]
Da tempo avevo voglia di intervenire – da cineasta, spettatore di film e lettore di narrativa – sulle tematiche sollevate dal saggio di WM1, in particolare sulle considerazioni espresse da Mauro Gervasini nel suo Cinema e Gomorre. Esitavo per varie ragioni: tutti si sentono autorizzati a parlare pubblicamente di cinema, meno frequentemente ai cineasti è chiesto di esprimersi su altro che non sia il loro specifico, Nanni Moretti escluso; mentre è abitudine tra i letterati esprimere vedute critiche sui propri colleghi (come ribadisce correttamente WM1 nelle postille 2.0), lo è molto meno tra i cineasti, specie in anni recenti, forse a causa della scarsità di risorse finanziarie che determina una inevitabile concorrenza; dato che nel cinema più che altrove si misura il successo in termini di incassi, il rischio di venir scambiati per degli “invidiosi”, o peggio ancora dei biliosi, è sempre dietro l’angolo. Ma quando ho ascoltato la registrazione degli interventi al convegno di Cuneo — e spiegherò in coda perché – ho sentito l’esigenza di esporre alcune parziali, provvisorie osservazioni di dissenso a quanto sostenuto da Gervasini, a cui va in ogni caso riconosciuto il merito di aver per primo “contaminato” il dibattito, estendendo le ipotesi di WM al terreno del recente cinema italiano e del linguaggio cinematografico.
Preciso in prima battuta e per inciso che queste considerazioni non intendono affatto rappresentare un giudizio estetico o ideologico sui film da Gervasini affiancati alla cosiddetta Nuova Epica, vale a dire Gomorra di Matteo Garrone e Il divo di Paolo Sorrentino. Ritengo del tutto ininfluente la mia personale opinione su questi titoli e sono convinto che l’appartenenza o meno dei suddetti alla Nuova Epica non rappresenti né un merito né un demerito. Anzi, a voler proprio dirla tutta, pur nel rispetto dei narratori che sono stati annoverati (alcuni, a mio modesto avviso, “forzati”) nella categoria in questione, non ho alcuna ambizione di farne parte o di esservi inserito da altri.
Va da sé, infine, che, così come è evidente che né WM1 né gli altri intendevano semplicemente salutare con il termine NIE il successo di questo o quel romanzo, o una stagione di particolare fortuna della letteratura nostrana, altrettanto non ha senso pretendere che, per forza di cose, i film di Garrone o Sorrentino si situino nel medesimo contesto di questa o quella corrente culturale solo in virtù della loro coeva celebrità. Il loro successo, dal punto di vista industriale e culturale, è sicuramente un fatto positivo e condivisibile da chiunque abbia a cuore le sorti della cinematografia italiana. Ma il dibattito sulla natura e il senso dei due film, non può essere relegato nella dicotomia ricattatoria del “meglio loro che Muccino/Brizzi”, nè può basarsi acriticamente sulla loro alterità rispetto al resto della produzione corrente. Tanto più, questa diversità non può essere identificata tout court con il NIE, secondo il principio della mutazione/unicità, che WM1 indica tra le caratteristiche più appariscenti dei romanzi della Nuova Epica. Nell’ultimo decennio, anche Ciprì/Maresco, Olmi o Diritti hanno fatto film diversi dal resto della produzione corrente, opere uniche e mutanti, ma questo non li avvicina necessariamente all’universo evocato dalla Nuova Epica.
Partendo quindi, dall’esame dell’intervento di Gervasini — secondo cui Gomorra e Il divo rappresentano esempi cinematografici di Nuova Epica – il mio breve intervento vuole offrire un contributo sul come l’analisi ipotizzata memorandum di WM1 possa essere “spostata” oltre i confini della letteratura per investire quella diffusa forma di linguaggio/cultura che è il racconto cinematografico.
Inizio notando come Gervasini incorra, nei suoi interventi, in una serie di abbagli piuttosto macroscopici, che denunciano sicuramente l’eccesso di entusiasmo per i succitati film, dato che mai mi sognerei di attribuirli ad una sua ignoranza (lo conosco e lo stimo dai primi tempi di Duel su cui scrivevamo entrambi). Li cito non per fare il maestrino con la matita rossa, ma solo per segnalare come, spesso e volentieri, il discorso sul cinema si accompagni ad un uso di aggettivi iperbolici che, anche quando le intenzioni sono condivisibili, sottendono un atteggiamento da fan che può far sorridere, ma certo non giova né all’autorevolezza del critico, né alla scrupolosità dell’analisi.
Nel testo pubblicato su Carmilla, scrive infatti:
Garrone ha eliminato il soggetto del libro (l’io narrante) e ha scelto come punto di vista quello dell’oggetto, ovvero il contesto, Gomorra, intesa come non-luogo dove convivono uomini e donne in un ambiente indistinto e senza regole che non siano quelle del denaro e della sopraffazione. Già questo spostamento dello sguardo ha un che di rivoluzionario, perché parte dal basso, dalle figure minori.
Ora, che l’apprezzabile scelta di Garrone abbia qualcosa di “rivoluzionario” è contraddetto da mezza storia del cinema, che da Sciopero a Il grande uno rosso, tanto per citare sacro e profano, ha scelto innumerevoli volte uno sguardo dal basso, minore, plurale, per raccontare la Storia e le sue traiettorie. O pensiamo solo, per restare in Italia, ai film come Paisà o La notte di San Lorenzo, Salò o La battaglia di Algeri: non solo forse film dal basso? Su figure minori? Con storie individuali che declinano un protagonista collettivo, così come il film di Garrone (che comunque, all’interno di ogni narrazione, ben definisce i propri protagonisti)?
Nell’intervento a Cuneo, poi, Gervasini dedica una parte importante del suo intervento alla notizia che Gomorra, a dispetto dei ben sei sceneggiatori, indicati nei titoli di testa, è in realtà un film per molti aspetti (ri)scritto in sede di riprese. E, in virtù di questa caratteristica, giunge a definire il film “un oggetto non identificabile, non identificato”. Peccato che l’assenza di sceneggiatura o la sua riduzione ad una mera traccia, da Rossellini a Wenders, da Godard a Kiarostami, da Cassavetes a Fellini non sia che una delle tante opzioni di lavoro a disposizione dei registi. Poco praticata, mi si dirà, ma tutt’altro che “non identificabile”. E se Gervasini si riferiva al cinema italiano recente, vorrei invece ricordare, tra gli altri, Davide Ferrario, che da almeno un paio di film a questa parte ha smesso di scrivere delle vere e proprie sceneggiature. Insomma, lungi dal potere ascrivere, almeno nei due tratti citati, al film di Garrone caratteri di unicità o addirittura di “rivoluzionarietà”.
Entrando nello specifico, Gervasini esamina i due film in rapporto ai cinque punti individuati da WM1 come qualificanti la Nuova Epica (in realtà, se non sbaglio, sono sette, ma non è questo il problema) e, sulla base di questa disamina, giunge a ritenere i film sostanzialmente affiancabili agli oggetti della NIE.
E’ vero che lo stesso autore riconosce che alcuni punti sono difficilmente verificabili, ma non ha nessuna esitazione a definire Gomorra un film dallo sguardo obliquo, o a riscontrare nell’opera di Garrone, per usare le parole del saggio di WM1, “un’intensa esplorazione di punti di vista inattesi e inconsueti”.
In realtà, i punti di vista interni alla storia di Gomorra sono quanto mai omogenei al milieu narrativo, mentre lo sguardo del regista/operatore Garrone (questo, nel cinema italiano, quasi un unicum) oscilla con notevole consapevolezza dall’adesione al personaggio alla testimonianza oggettiva, creando uno scarto disturbante che è uno dei tratti forti del film, ma che non ha nulla a che fare con il suddetto punto 2 del saggio. In altre parole, nel film non c’è alcun sguardo eccentrico, inconsueto, inatteso.
Il film di Sorrentino adotta invece uno sguardo decisamente personale (l’autore stesso), che sottolinea ad ogni piè sospinto la propria soggettività espressiva (tramite la luce, l’angolazione, ecc.). Non c’è insomma alcun spiazzamento del punto di vista, che rimane saldamente nelle mani onniscienti dell’autore (ovviamente, la stessa cosa si potrebbe dire dei romanzi indicati da WM1: nulla accade “per caso”, anche l’adozione di un punto di vista inconsueto è opera di un singolo autore; la differenza sta nell’utilizzo o meno di, se mi si permette la parola, un intermediario scentrato, come negli esempi esposti nel saggio).
Lo stesso si potrebbe dire per il punto 4. Il film di Garrone è ambientato tutt’altro che in un “non luogo” e un “non tempo”, bensì esattamente nel suo opposto: le coordinate spazio-temporali sono talmente precise, identificabili — luoghi visti e narrati mille volte dai telegiornali, Ballarò, Santoro, ecc. — che Garrone ha il merito di rendere universali non sottraendo specificità, ma anzi esasperandola al punto da renderle mondo e non più location, cronaca contingente. Un’operazione le cui radici vanno cercate, almeno sotto questo punto di vista, in Guerra e pace o in Hugo più che nei non-tempi (o nei non-luoghi) di un J.G. Ballard o Philip Dick. Lo stesso, per altri aspetti, vale per il Il Divo, in cui l’elemento visionario non sottrae storicità, ma ancor di più vincola la narrazione al suo tempo e contesto (pensiamo alla scena dello skateboard, incomprensibile senza elementi storici che il film non fornisce). Insomma, nessuna ucronia.
A prescindere dalle effettive o meno aderenze individuate da Gervasini (del resto, a pensarci bene, molti romanzi della Nuova Epica non hanno tutti i tratti stilistici indicati nel saggio – e, paradossalmente, alcuni romanzi di Baricco, invece sì!), il punto in realtà è un altro.
Il critico sembra non tenere in considerazione alcuni degli elementi fondanti del discorso di WM1, questi sì veramente capaci di determinare un solco fra i testi indicati dal saggio e i film in questione. Mi riferisco alla questione dell’“empatia” e della “trasformazione”. Cito:
Le opere del New Italian Epic non mancano di humour, ma rigettano il tono distaccato e gelidamente ironico da pastiche postmodernista. In queste narrazioni c’è un calore, o comunque una presa di posizione e assunzione di responsabilità, che le traghetta oltre la playfulness obbligatoria del passato recente, oltre la strizzata d’occhio compulsiva, oltre la rivendicazione del “non prendersi sul serio” come unica linea di condotta.
Mentre nel caso del fastoso film di Sorrentino il dubbio del pastiche viene a Gervasini stesso (scrive il critico: “il film ha un rapporto ambiguo con il postmoderno”; del resto, ogni topos su Andreotti è chiamato in causa, e questo è tipicamente postmoderno), nel caso di Garrone il discorso si fa più complesso, ma non meno stringente.
Cito ancora dal saggio: “Ardore civile, collera, dolore per la morte del padre, amour fou ed empatia con chi soffre sono i sentimenti che animano le pagine di libri come Gomorra”.
Ecco una decisiva differenza tra un testo importante della cosidetta Nuova Epica e il film di Garrone: il punto di vista di Saviano non solo è interno alla storia (posizione del narratore), ma costruisce un rapporto caldo, sanguigno con il lettore proprio in virtù di questo calarsi; quello di Garrone, invece, osserva e testimonia, ma rimane sostanzialmente “fuori”, rappresenta il sangue, se lo fa scorrere addosso, non dentro. Nel primo caso domina il sentimento, nel secondo lo stile, la tecnica, nel senso originario di “perizia”, “saper fare”, “saper operare”. Ovviamente, lo stile, la tecnica ci sono in entrambi i casi (a meno di ricadere nell’insopportabile distinzione tra forma e contenuto!), ma il loro peso specifico è ben diverso perché è diverso il punto di vista dell’autore sul mondo che rappresenta. E’ questa, credo, la ragione profonda che ha fatto preferire a uno scrittore come Baricco il film alla pagina scritta — e non, come banalmente malignato da qualcuno, l’invidia. Nella pagina, la tecnica è al servizio del sentire, nel film del rappresentare.
Ripeto, perché è fondamentale, che con questo non intendo esprimere giudizi di merito su film decisamente importanti e meritori di attenzione, ma solo adottare una griglia interpretativa fuori dal contesto in cui è stata concepita.
Vado oltre con un’altra citazione dal testo di WM, estrapolato dalla parte finale del saggio (sezione in cui sono esposte opinioni su cui nutro numerose riserve, ma non è questa né la sede né l’occasione per parlarne). Arrivando alla conclusione, WM1 scrive, a scongiurare l’apocalissi dell’umano tracciata nelle righe precedenti:
Per troppo tempo l’arte e la letteratura hanno vissuto nella fantasmagoria, condividendo le pericolose illusioni dello specismo, dell’antropocentrismo, del primato occidentale, della rinuncia al futuro che riempie la terra di scorie. Oggi arte e letteratura non possono limitarsi a suonare allarmi tardivi: devono aiutarci a immaginare vie d’uscita.
Ovviamente non credo che WM abbia nostalgia dell’ “arte con messaggio”, ma non credo di essere il solo a ritenere che ogni prodotto della storia dell’arte (anche se detesto il termine “arte”, ma è l’unico vocabolo-ombrello che conosco per riunire le molteplici produzione umane di senso) degno di questo nome è tale non perché non fotografa una realtà, ma la interpreta, la rivela e, quasi senza accorgersene, ne indica il superamento.
Ho la netta sensazione, invece, che i film di Garrone e Sorrentino si fermino al terreno dell’apocalisse prossima ventura, senza porsi (artisticamente, intendo) né il problema della via d’uscita (c’è chi la chiamava speranza… parola degna che bisognerebbe sottrarre ai piagnistei dei sentimentalisti), ma neanche il problema dell’interpretazione.
Il post-moderno aveva decretato che tutto era già stato detto, la storia era finita e l’unica cosa che ci rimaneva da fare era “giocare” con i pezzi del passato, con ironia e stile. Oggi siamo oltre, siamo alla gelida affermazione che l’apocalisse è in corso e che l’unica cosa che ci rimane è narrarla con gusto, senza illudersi di fermarla, ma neanche provando a interpretarla.
Perché accadono le cose? Perché esiste il Male? In questo, i due film sono veramente affini, più di quello che a una prima analisi poteva sembrare: entrambi finiscono con ipostatizzare il Male, in un’estasi metafisica che rinuncia a dialogare con il mondo che rappresenta e si limita a specchiarsi in esso, senza neanche più il soccorso di una qualche trascendenza, buon a o cattiva che sia. C’è il Male e basta.
Non è più la vocazione del post-moderno a destrutturare ogni possibilità di senso attraverso la zappa dell’ironia e del cinismo ridanciano (anche nei suoi epigoni più seri e seriosi e ricombinatori), ma dell’abbandono completo di ogni progettualità alternativa, fino al punto di rinunciare persino alla interpretazione stessa della realtà.
Mi viene al proposito a mente quanto scriveva Roland Barthes prendendo a pretesto il film Le Beau Serge di Chabrol (e se non vi piacciono, come al sottoscritto, i termini sinistra/destra, sostituiteli pure quelli che più vi aggradano: autentico/inautentico, verità/menzogna, umano/post-umano, ecc.):
E’ nella confusione di queste questioni e nell’indifferenza alle loro risposte che si definisce un’arte di destra, sempre interessata alla discontinuità delle umane sciagure, e mai alle loro relazioni. I contadini bevono. Ma perché bevono? Perché sono poverissimi, perché non hanno nulla da fare. Perché la miseria, l’abbandono? A questa punto l’investigazione si ferma o si sublima: probabilmente sono bestie per essenza, è la loro natura. Non si pretende certo un corso di economia politica sulle cause del miserabilismo rurale. Ma un artista deve sapere che è interamente responsabile del termine che assegna alle sue spiegazioni: c’è sempre un momento in cui l’arte immobilizza il mondo, più tardi avviene, meglio è. Chiamo dunque arte di destra questa fascinazione dell’immobilità, per cui si descrivono i risultati senza mai interrogarsi, non dico sulle cause (l’arte non può essere determinista) ma sulle funzioni (…) Peccato che questi giovani autori non leggano Brecht. Vi troverebbero almeno l’immagine di un’arte che sa far partire un problema dal punto esatto in cui loro credono di averlo chiuso.
Così, mentre ogni discorso analitico (e quindi progettuale) è oggi relegato al volontarismo dei buoni sentimenti (sia esso l’amore o l’impegno sociale, Muccino o Michael Moore), il cinema contemporaneo (ma anche una parte importante della odierna letteratura, mi vengono in mente Houllebecq o a Palahniuk) fotografa impotente e affascinato il Male che trionfa e annienta l’umano, incapace di fornire una progettualità, un “possibile”, se non alla società, almeno all’individuo, che come diceva Ejzenstejn non è un pezzo della società, ma una cellula vivente di esso, autonoma eppure indissolubilmente collegata al piano collettivo.
Un’ultima annotazione, che prescinde dai film in questione, ma ci riporta al convegno di Cuneo. Gli interventi degli scrittori, a prescindere dalla validità delle cose dette, escono sempre fuori dal ghetto dell’arte per l’arte (il decadentismo è la culla del post-moderno) e cercano di ricomporre/rileggere il continuum del rapporto tra arte/umanità/storia. Gervasini, invece, si limita a un excursus sul cinema americano contemporaneo e la sua ipotizzata mancanza di epica.
E’ in questo significativo scarto tra i due discorsi – e non nella presunta mancanza di film da affiancare al NIE – che risiede il vero nodo irrisolto del cinema italiano contemporaneo (cineasti e critici).
Mentre gli scrittori hanno ripreso a confrontarsi con il mondo (e la storia della letteratura che ne fa parte, al pari del prezzo della frutta e della storia del jazz, dela battuta di Fiorello ascoltata per radio e dell’estratto conto appena arrivato, come giustamente sostiene WM1 in un recente Giap), il milieu cinematografico italiano contemporaneo si fonda sul cinema e sul discorso interno ad esso: è il cinema che parla del mondo usando il cinema come pietra fondante e di paragone (tra l’altro, in molti casi, neanche della storia del cinema in quanto tale, ma su quella parte della storia del cinema che i cinefili conoscono e difendono).
Non voglio affatto dire che l’atteggiamento di Gervasini, critico preparato e aperto con cui non ho alcuna intenzione di entrare in polemica personale, sia simile a quello di quegli universitari cinefili della Sapienza che mi dicevano che c’è più cinema in un’inquadratura di Mario Bava che in tutta l’opera di Antonioni.
Il problema è che il contesto in cui noi tutti operiamo, la weltanschauung del cinema italiano si sarebbe detto un tempo, è fatta di cinefilia e cinefili, dei figli della politique des auteurs che ha ridotto il discorso sul cinema al ghetto auto-referenziale degli addetti ai lavori o alle banalità dei politologi e dei giornalisti che usano il cinema in maniera sociologica e contenutistica, senza riflettere sul linguaggio che lo caratterizza e attraverso cui il senso è espresso.
E’ l’universo circolare di chi legge il mondo attraverso il cinema e il cinema attraverso i film: un universo di specchi che finiscono per riflettersi l’uno nell’altro e rimandare al Nulla.
O all’immagine di un Sé adolescente che s’illudono di ritrovare.
* Guido Chiesa è regista cinematografico e televisivo, sceneggiatore, scrittore e critico rock. Come assistente alla regia/produzione ha lavorato in film di Jim Jarmusch (Stranger Than Paradise, Down By Law), Amos Poe (Alphabet City) e Michael Cimino (The Year of the Dragon). Ha realizzato diversi videoclip, documentari, corti e lungometraggi, tra i quali ricordiamo Il partigiano Johnny (2000, tratto dal romanzo di Beppe Fenoglio) e Lavorare con lentezza (2004). Quest’ultimo film ha vinto il Premio Mastroianni per i migliori attori esordienti, il Festival de Cinema Politic di Barcellona, il Med Film Festival, un Ciak d’oro per la miglior colonna sonora, il premio Italian Film Fest per il montaggio e ha ricevuto tre nominations per i Nastri d’argento e due per i David di Donatello. Nel 2008 Guido ha diretto i sei film-episodi di Quo Vadis, baby?, primo prodotto seriale di Sky. Il suo sito ufficiale è www.guidochiesa.com
LINK, ANNUNCI, NOTIZIE SUL DIBATTITO NIE
NEW ITALIAN EPIC IN LIBRERIA (EINAUDI)
Esce il 27 gennaio New Italian Epic. Letteratura, sguardo obliquo, ritorno al futuro
(Einaudi, pagg. 208, € 14,50 – clicca per aprire il pdf della copertina).
Il libro contiene: prefazione; versione 3.0 (ancora inedita) del memorandum sul NIE; il testo dell’intervento di Wu Ming 1 “Noi dobbiamo essere i genitori”; un lungo saggio inedito di Wu Ming 2 intitolato “La salvezza di Euridice”.
GIOVANNI MARIA BELLU A “FANTASMI” DI RADIO TRE
Bellu è vicedirettore de L’Unità e scrittore, autore di due dei libri italiani più belli degli ultimi anni (l’inchiesta narrata I fantasmi di Portopalo e l’oggetto narrativo non-identificato L’uomo che volle essere Perón). Qui discute con Lisa Ginzburg del suo lavoro, di scrittura e realtà, di fine del postmoderno e New Italian Epic. La trasmissione è “Fantasmi. Viaggia e racconta”, la puntata è andata in onda su Radio 3 il 17 dicembre scorso.
Nel podcast di wumingfoundation.
UN DIBATTITO A PARIGI CON EVANGELISTI E CARLOTTO
“Une nouvelle épique italienne?”, con Valerio Evangelisti e Massimo Carlotto.
Sabato 7 febbraio 2009, h. 18, Fête du livre et des cultures italiennes, Parigi, Espace d’animation des Blancs Manteaux, 48 rue Vieille du Temple 75004. Ingresso libero. Per saperne di più, visita il sito ufficiale.
PINO CACUCCI SU NUOVA EPICA E DINTORNI (DAL MESSICO)
Il quotidiano messicano Reforma ha chiesto allo scrittore Pino Cacucci – scrittore, traduttore, attivissimo ambasciatore della cultura latino-americana in Italia e della cultura italiana in America Latina – di raccontare ai lettori di quel paese cosa sta accadendo nella letteratura delle nostre parti. Il lungo articolo è uscito il 30 novembre scorso col titolo “Explotar la realidad”. Raccontarsi agli altri forza a vedersi dall’esterno, ed è sempre interessante leggere questo genere di resoconti. Ecco il pdf.
IL “COSO” SUL NEW ITALIAN EPIC, PARTE 3
Prosegue sul blog Frogproduction il “coso” sul New Italian Epic che il pisano Daniele Esposito sta pubblicando a puntate. Questo è il terzo blocco di pensieri in libertà, si intitola “Il non romanzo, il quasi romanzo, l’UNO: o quello che é, insomma, che poi in realtá si tratta sempre del BLIVIT”. In calce, una filza di commenti che vanno dall’arguto al disorientato al furioso, tra eruditi e-rodimenti di culo.
Comunque interessante, ed Esposito è una brava persona.