di Sandro Moiso
Luca Baiada, RACCONTAMI LA STORIA DEL PADULE. La strage di Fucecchio del 23 agosto 1944: i fatti, la giustizia, le memorie, Ombre corte, Verona 2016, pp.331, € 25,00
La strage di Fucecchio è la quinta, per ordine di grandezza, fra quelle compiute in Italia dalle truppe tedesche di occupazione. 174 morti accertati e di quelle attribuibili direttamente alla Wermacht, e non alle SS, è la maggiore.
Luca Baiada, magistrato che ha indagato anche sull’«Armadio della vergogna», l’insabbiamento dei fascicoli sulle stragi naziste in Italia rimaste impunite, e che collabora alle riviste “Il Ponte” e “Questione giustizia” oltre che ad altre pubblicazioni politiche e giuridiche, ha dedicato alla ricostruzione dell’evento molti anni di attività. Sia in veste di magistrato che di storico.
Ma assimilare il suo ultimo testo sull’eccidio del 23 agosto 1944 ad un’opera di carattere soltanto storico o giuridico sarebbe estremamente riduttivo.
Nell’arco dei diversi anni che l’autore le ha dedicato, la ricerca si è trasformata in un’autentica ricerca partecipata in cui in gioco non sono entrati soltanto i testi consultati, le sentenze emesse, le testimonianze degli accusati e degli accusatori (ovvero dei soldati ed ufficiali tedeschi autori diretti o responsabili della strage e dei superstiti della stessa), ma anche le sue personali memorie famigliari, la passione e la lingua dei sopravvissuti, le testimonianze inscritte nel paesaggio e nel tempo e anche quella, apparentemente muta, di coloro che egli chiama i diversamente vivi. I morti, appunto, che parlano ancora attraverso le parole, i sogni, gli incubi e gli stessi silenzi dei loro congiunti rimasti in vita.
Un’opera unica nel suo genere, che scatena nel lettore un’autentica tempesta di sentimenti, passioni, dolore e orrore. La stessa che lo stesso Baiada non nasconde di aver vissuto sia come magistrato che come ricercatore e scrittore. “Scrivo con le lacrime agli occhi” afferma ad un certo punto l’autore e in un’altra parte spiega: “L’esito di questo libro riconduce all’impossibilità e insieme alla necessità di dire l’indicibile, perché questa contraddizione è un altro volto della necessità e dell’impossibilità di dare un senso all’insensato, del rischio di giustificare l’ingiustizia. Il testo è nato per accumulo, poi per frammentazione, e so che non esaurisce i fatti, e che per questo si rifiuta di riordinarli in un andamento lineare. E’ una caratteristica che rivendico e che in fondo mantiene la promessa, quella appunto di non dire l’ultima parola su una strage fra le più gravi dell’occupazione tedesca in Italia, forse la più assurda. L’incompiutezza può sfidare a proseguire il cammino, la memoria non si ferma” (pag. 306)
“La precisione non è la verità” aveva affermato in un suo testo Henry Matisse e, anche se il contesto della pittura moderna e quello della ricerca storica sembrano così distanti, è vero che la trasmissione delle realtà umana, sensibile ed extrasensibile (quella dei ricordi, del dolore, dei sentimenti e delle passioni), non può avvenire soltanto attraverso la fredda rappresentazione o catalogazione dei fatti mentre la loro interpretazione non può sfuggire all’influenza dell’inconscio collettivo, o anche soltanto di chi scrive o dipinge, e dei suoi percorsi. Tutti elementi che introducono in qualsiasi rappresentazione più di un elemento contraddittorio che soltanto una necessità di riordinamento e aggiustamento, detta altrimenti spiegazione, istituzionale o politica che sia, può far finta di rimuovere oppure cancellare del tutto.
“C’è un sentiero del lavoro intellettuale che è difficile da percorrere, ma che è più solido e più piacevole, proprio perché non è dell’intelletto ma del sentimento. Pochi riescono ad attingerlo […] Persino le ricerche e gli studi , a volte, tradiscono questa consapevolezza, quando verificano ossessivamente i dettagli, illudendosi che la maggiore esattezza significhi migliore memoria e più condivisione” (pag.290)
E’ un tema scottante quello che Baiada, con estrema lucidità, porta alla ribalta e che contiene al suo interno diversi elementi di carattere giuridico, politico, conoscitivo e di classe. Perché anche la verità può non coincidere con la realtà. Troppo spesso, infatti, la ricostruzione delle storie delle lotte oppure delle violenze del potere diventano retoriche, pur essendo magari partite con le migliori intenzioni. Mentre le spiegazioni che vogliono essere definitive o complete, troppo spesso finiscono col giustificare, anche indirettamente, ciò che è ingiustificabile. La brutalità dell’oppressore viene così inserita in una strategia spiegabile, forse addirittura condivisibile; al contrario delle strategie di resistenza messe in atto dagli oppressi, che continuano ad essere molte volte considerate irrazionali o inadeguate, sia nel caso in cui prevedano l’uso della violenza sia nel caso opposto. Diciamolo pure: una mal interpretata obiettività del lavoro storico rischia così, molte volte, di colpevolizzare le vittime quanto i carnefici.
Nel leggere il testo sulla strage del Fucecchio vengono in mente in continuazione riferimenti ad episodi a noi più vicini, dalle stragi americane in Vietnam, agli agenti di polizia che ingiuriano e umiliano e torturano i giovani della scuola Diaz oppure ai tormenti dei milioni di disperati che cercano di sfuggire a guerre odiose ( ma quando mai una guerra non lo è?) finendo col ritrovarsi soltanto in una terra di nessuno (Calais, la frontiera macedone o ungherese o qualsiasi altro luogo in Europa o nel Vicino Oriente) dove, così come gli sfollati, gli sbandati, i disperati e i renitenti alla leva rifugiatisi nel padule, potrebbero essere in qualsiasi momento trasformati in corpi da eliminare e rimuovere. Con qualsiasi mezzo.
Episodi talvolta altrettanto gravi ed altre no, ma che sempre vedono tra i loro esecutori uomini e soldati comuni. Nel caso di Fucecchio soldati dei reparti esplorativi meccanizzati della Wermacht. Non delle SS che la vulgata popolare, troppo spesso, tende ad individuare come uniche colpevoli degli atti di crudeltà; mentre dal magnifico saggio “La banalità del male” di Hannah Arendt in avanti abbiamo imparato che sono troppo spesso proprio gli uomini, e talvolta le donne, comuni1 a perpetrare i crimini più orrendi soltanto perché hanno burocraticamente ricevuto un incarico
“E’ la guerra” sembra essere spesso la spiegazione più ricorrente, in cui il pur sotteso intento morale finisce sempre con lo sfociare semplicemente in una giustificazione. Generale e non vera, perché, come afferma chiaramente Baiada, non si tratta soltanto di guerra.
Certo le truppe tedesche nel 1944 stavano abbandonando Firenze (dove la battaglia con gli insorti italiani appoggiati dagli Alleati si era protratta fino al 20 agosto), dopo aver già abbandonato Roma il 4 giugno.
Così “Si può immaginare che in un angolo buio la percezione della disfatta inducesse i tedeschi a lasciarsi dietro una scia di lutti […] in cui i superstiti avrebbero letto un monito indelebile: anche vincendo una guerra, mettersi contro i tedeschi costa troppo sangue […] Potrebbe esserci il sangue delle stragi nel fatto che nel volgere di un secolo la Germania, pur avendo perso due guerre, ha un peso che nel 1914 sarebbe stato inimmaginabile. La domanda sul perché, insomma, potrebbe nasconderne un’altra: per chi?” (pag.263)
Perché “intorno al Padule di Fucecchio, soprattutto lungo i suoi margini settentrionali e orientali, i tedeschi irrompono nelle case, percorrono i campi, invadono le aie, e uccidono e uccidono, anche donne, bambini, vecchi.[…] L’eccidio è in un’area povera, con legami tra vaste famiglie “ (pag.11), ed evitano accuratamente di addentrarsi nel cannellaio, il centro della palude, dove effettivamente si nascondono i membri di una formazione partigiana. “Per i tedeschi la distinzione tra partigiani e italiani è confusa quando si uccide. Ma nitida quando c’è da combattere. Non entrano nella palude, sopravvalutando la formazione partigiana, ma uccidono nella zona circostante dove non rischiano nulla […] Qui gli armati si dirigono contro i disarmati e ne fanno strage” (pag.60)
Ma all’autentica festa di morte svoltasi nel padule non partecipano nelle vesti di aguzzini soltanto soldati ed ufficiali tedeschi: ci sono anche italiani. Fascisti, in veste di interpreti, informatori, spie e guide. Spesso mascherati, con divise tedesche e cappucci per non farsi riconoscere da coloro che saranno uccisi o che vedranno le loro famiglie massacrate. Gli stessi che dopo essersi ritirati al seguito delle truppe germaniche, ritorneranno di lì a qualche anno sul luogo del delitto. Impuniti e ancora capaci di incutere timore tra i superstiti. Alla faccia di tutti i piagnistei della destra e dei “pacificatori democratici” sugli omicidi di fascisti e le vendette che sarebbero state consumate dopo la Liberazione.
La cosa più straziante e allo stesso tempo bella del libro è costituita dal fatto che a narrare i fatti, gli omicidi, gli stupri, l’assoluta arbitrarietà della violenza, la paura non è quasi mai la voce distaccata dello storico o del giureconsulto, ma la voce dei testimoni diretti, nel loro dialetto così distante dal fiorentino esibito dall’attuale premier o dai comici di regime. L’uno così vivo, nonostante tutto, e l’altro così morto.
E’ la lingua dei poveri e degli incolti a narrare, cioè proprio di coloro la cui testimonianza è spesso rimossa dai testi di storia, scritti quasi sempre dai depositari di una “istruzione” lontana dai meno abbienti. Privarli della parola può costituire infatti, troppo spesso, l’ultima e più crudele forma di espropriazione e di esclusione, facendo così che anche la memoria dei “vinti” della storia diventi patrimonio dei “vincitori”.
Ne è consapevole una delle testimoni superstiti, Maria Grazia Gallegani, che rileggendo, nel 1997, gli atti del 1945, quando fu sentita dai britannici, si domanda: ”La storia viene sempre poi, cioè, artefatta, perché non riporta mai le cose vere, non capisco perché. Come fanno i posteri poi a sape’ la verità?” – Intervistatore: “Beh, guardando questi documenti” – “Eh, lo so. Ma non corrispondono sempre, alla verità” (pag.292)
Non è il caso di Baiada che, al contrario, organizza un saggio di autentica storia orale ricostruita attraverso le testimonianza rilasciate in tempi diversi prima agli ufficiali britannici incaricati di indagare sulla strage nel periodo immediatamente successivo alla stessa, poi a carabinieri e in seguito ai magistrati dei processi. Ma raccolte anche dallo stesso autore tra i superstiti o i loro famigliari ed eredi ancora in vita.
Famigliari ed eredi cui i vari processi non hanno dato reali soddisfazioni. Così è possibile notare che “Una larga parte della strage avviene nella tenuta dei Poggi Banchieri, e stermina le famiglie dei loro contadini, dei parenti e degli sfollati che vi hanno trovato ospitalità. All’edificio padronale si accede dalla via Francesca, è una grande villa con giardino, e una targa dice: «Villa Banchieri Castelmartini, restaurata con il contributo dello Stato»; è probabile che lo Stato abbia dato più per il restauro della villa che per il risarcimento alle famiglie delle vittime” (pag.24)
A riassumere le vicende giudiziarie inerenti l’eccidio, successive alla fine del conflitto, basterebbe il titolo di uno dei capitoli: Settant’anni e quattro processi. Giustizia no.
I primi tre processi sono militari, “nessuno può chiedere i risarcimenti e di responsabilità dello Stato tedesco non se ne parla neanche; le condanne sono miti o espiate solo in parte” (pag.266). Tutti e quattro i processi, comunque, riguardano soltanto i militari tedeschi, mentre per i fascisti prosegue l’impunità iniziata con l’amnistia Togliatti.
Non a caso però nel processo di Firenze del 1948 a carico di uno dei comandanti dei militari coinvolti nell’eccidio si invocano e si ottengono le attenuanti “per coloro che, pur non appartenendo alle forze armate italiane, hanno, nel corso di un’alleanza, versato il loro sangue in una guerra comune”. Insomma poiché prima dell’8 settembre 1943 i tedeschi erano alleati degli italiani, ciò che hanno compiuto dopo quella data a danno delle popolazioni italiane può essere ritenuto meno grave. “Il giudice relatore è Enrico Santacroce: diventerà procuratore generale militare, e il 14 gennaio 1960 firmerà la sconcia «provvisoria archiviazione degli atti», lucchetto dell’armadio della vergogna” (pag.272)
Soltanto nel 2006, con il processo per le stragi di Civitella, Cornia e San Pancrazio, arriverà una prima condanna della Germania a risarcire i danni causati ai cittadini italiani in quei drammatici eventi. Ma già “nel 2008 la Germania ricorre alla corte internazionale di giustizia dell’Aia, che dopo un lungo procedimento le dà ragione, a febbraio 2012, con una sentenza che fa notizia […] Comunque, ancor prima della pronuncia della corte internazionale, per il solo fatto che Berlino ha proposto ricorso, l’Italia penalizza gli interessi dei suoi cittadini con due leggi. Non negano il diritto al risarcimento né la responsabilità tedesca: si limitano a sospendere l’esecuzione. Con le dovute proporzioni, lo stesso effetto della mancata estradizione degli imputati: condanna sì, esecuzione no” (pag. 274) Cosa che il riconoscimento, dalla municipalità tedesca di Engelsbrand, a uno degli uomini che si macchiarono di una delle peggiori stragi naziste, quella di Marzabotto, sull’Appennino bolognese, fra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944, Wilhelm Kusterer oggi 94enne, non fa altro che confermare con l’aggravante dell’autentica beffa per il dolore di chi quella strage la subì.
Germania che sembra rivendicare, nonostante le prese di distanza della Cancelliera Merkel dall’ultimo fatto, una sua precisa continuità d’azione, come ben dimostrano gli stretti rapporti con il regime turco del presidente Erdogan che sembrano rinnovare i fasti dell’alleanza tra Impero Ottomano e Impero Guglielmino ai tempi del primo conflitto mondiale e della strage degli Armeni2 che servì da modello alla successiva “soluzione finale” per gli Ebrei dell’Europa Orientale occupata dalle truppe naziste.
Nel dicembre del 1942, Hitler aveva dichiarato. “A chi porta le armi deve essere assicurata assoluta copertura, affinché il povero diavolo non si debba chiedere se poi sarà ancora chiamato a rispondere delle sue azioni” (cit. pag.194) La decisione sembra funzionare ancora oggi, tanto che con il decreto del 10 febbraio scorso, secretato per motivi di sicurezza, i nostri militari di unità speciali, per missioni speciali decise e coordinate da Palazzo Chigi, avranno le garanzie funzionali degli 007 e, dunque, licenza di uccidere e impunità per eventuali reati commessi.
All’epoca la Germania massacrava non per difesa o per costruire fortificazioni, come si è sentito ripetere dai difensori degli imputati in tanti processi, “ma per il controllo del territorio, in funzione del saccheggio e della deportazione” (pag. 278), in funzione primariamente terroristica. Ma l’imperialismo non si può processare, così “la giustizia negata è una prosecuzione del crimine con altri mezzi” (pag.249)
Il grande merito di Luca Baiada e del suo terribile e magnifico libro, è proprio quello di voler mantenere aperta la ferita, di non volerla lasciar richiudere facendo finta che suturarla sia l’unica cosa utile e saggia da fare; perché quella suturazione consisterebbe soltanto nel buttare altra terra sui cadaveri delle vittime, cancellandone la memoria e favorendo una presunta pacificazione che non c’è mai stata e mai potrà esserci. Perché il tempo dei “vinti” continuerà a scorrere diversamente da quello dei vincitori fino a quando sopravviveranno le differenze di classe.
Vittoria Tognozzi, un’altra testimone superstite, nel 1999 affermava: ”Dice bisogna scusare, dice chi ha fatto male, dice, bisogna. Perdonare, dissi io? Io non farei altro, se l’avessi davanti all’occhi, dissi io, l’ammazzerei, subito immediatamente” (pag.154). Ricordando, successivamente, la morte di Ugo Romani, ucciso il 6 luglio 1944 mentre cercava di difendere la sua famiglia dallo stupro e dall’omicidio che i tedeschi intendevano mettere in atto, ricorda “E allora lui l’ammazzò un tedesco, lo spezzò col pennato 3 e lo buttò nel pozzo nero. E lui lo ‘mpicconno in cima alle scale” . Il tedesco fu tagliato in due, racconta Vittoria allo stesso Baiada e sorride soddisfatta mostrando come l’arnese possa andare su e giù. Mentre alla domanda perché secondo lei non ci sia stata giustizia , risponde: “Perché non c’è sangue nelle vene degli italiani” (pag. 45)
Si legga anche in proposito il saggio di Christopher R. Browning, Uomini comuni. Polizia tedesca e “soluzione finale” in Polonia, Einaudi 1999 ↩
Si veda La questione della complicità tedesca e Il genocidio armeno raffrontato all’Olocausto e ai processi di Norimberga in Vahakn N. Dadrian, Storia del genocidio armeno. Conflitti nazionali dai Balcani al Caucaso, Guerini e Associati 2003 ↩
roncola ↩