di Gioacchino Toni
Matteo Boscarol (a cura di), I mondi di Miyazaki. Percorsi filosofici negli universi dell’artista, Mimesis, Milano – Udine, 2016, 122 pagine, € 12,00
Il saggio, curato da Matteo Boscarol, passa in rassegna la produzione del grande animatore, mangaka e regista Miyazaki Hayao. Non mancano pubblicazioni in lingua italiana sull’opera di Miyazaki ma l’intenzione del saggio appena dato alle stampe è quella di affrontare le opere del giapponese da un punto di vista filosofico e/o religioso al fine di individuare e creare connessioni e scoprire linee di pensiero non ancora, o non del tutto, esplorate dagli studi in lingua italiana. Il volume, che raccoglie scritti di Alberto Brodesco, Marcello Ghilardi, Andrea Fontana, Marco Casolino, Luigi Abiusi, Roberto Terrosi e Massimo Soumaré, affronta questioni che vanno dall’ucronia al pacifismo in Miyazaki, dalle presenze divine alle questioni filosofiche presenti nei suoi lavori come mangaka, da riflessioni sulla tecnica al rapporto tra natura e scienza.
Lo scritto di Alberto Brodesco (“La melanconia dell’ingegnere. Il sogno tecnoscientifico di Si alza il vento”) analizza l’ultimo lungometraggio del regista giapponese, ispirato a due diverse opere: il racconto autobiografico dell’ingegnere Horikoshi Jirō, progettista del celebre aereo Zero impiegato nel corso della Seconda guerra mondiale, ed il romanzo Kaze Tachinu (The Wind Has Risen, 1938) di Hori Tatsuo, che narra le vicissitudini di una donna malata di tubercolosi.
Brodesco evidenzia l’importanza della comparsa in sogno al protagonista dell’ingegnere aeronautico italiano Giovanni Battista Caproni; comparsa che evidenzia una delle questioni centrali del film, ossia se i desideri meritino di essere conseguiti a prescindere dagli effetti che essi potranno generare sul resto del mondo. In questo caso la domanda che attraversa l’opera riguarda la legittimità dei sogni aeronautici “puri”, estetici, in rapporto ad una realtà che finirà per sfruttarli a fini bellici. Lo studioso evidenzia anche come il sogno che accomuna il protagonista giapponese e la figura di Caproni coincida con il sogno delle rispettive nazioni che, percependosi arretrate, vedono nell’innovazione tecnologica uno strumento di riscatto collettivo.
Le figure dei due scienziati messe in scena di Miyazaki rimandano a quel tipo di scienziato che lo studioso Roslynn D. Haynes definisce “lo stupido virtuoso”, ossia quell’uomo di scienza che vive fuori dalla realtà senza avere coscienza delle implicazioni sociali del suo operare scientifico, ed i due ingegneri possono essere ricondotti a tale categoria proprio «perché si interrogano sì sull’utilizzo dei loro aeroplani, sulle conseguenze dei loro progetti, ma risolvono la questione rifugiandosi nell’ambito dell’estetica: l’importante è fornire al mondo degli oggetti che lo rendano più bello» (p. 18).
All’uscita del film il regista è stato accusato di dare scarsa importanza all’utilizzo militare dell’aereo, rifugiandosi quasi esclusivamente in una lettura estetica della tecnologia, inoltre, a Miyazaki è stato rimproverato di non fare riferimento al ricorso agli operai cinesi e coreani schiavizzati nella costruzione dell’aereo e di insistere sulle tragedie subite dal Giappone piuttosto che su quelle da esso provocate. Altra critica mossagli riguarda le figure femminili che, mentre in opere precedenti apparivano dotate di una certa indipendenza e di protagonismo, in questo ultimo lavoro sembrano rivestire ruoli esclusivamente sacrificali. A fronte di tutte queste obiezioni Brodesco invita ad analizzare meglio il film ed a passare in rassegna la produzione precedente di Miyazaki, ove viene esplicitato il suo anti-militarismo.
Miyazaki oscilla più volte nel corso degli anni tra un’impostazione tecnofila, volta ad elogiare la modernità ed il progresso, ed un ambientalismo che, invece, presenta un conto salato allo sviluppo sconsiderato che si è dato nel corso del tempo. Venendo invece all’ultima opera, lo studioso sottolinea come questa non si limiti a narrare la biografia di un progettista di aerei militari, ma racconti anche le vicende di una malattia e l’aver voluto intrecciare due storie così diverse si deve, secondo l’analisi proposta, al fatto che «la storia di tubercolosi serve a Miyazaki per ricondurre la biografia dell’ingegner Horikoshi all’interno della cornice timica tracciata dal concetto di melancolia» (p. 21). Quest’ultima non ha a che fare soltanto con la coppia alle prese con la malattia ma anche con il racconto del percorso professionale del progettista dello Zero; «Lo studio che guida il suo progetto di macchina volante lo lascia esposto a questo vento serotino. Il carattere della melancolia non ha infatti a che fare solo con la sfera patemica ed estetica del romanticismo, ma anche con la ricerca di perfezione. […] L’utilizzo del tema della melancolia non vuole quindi solo o semplicemente portarci a ragionare sul topos della solitudine del genio isolato (artistico o scientifico cambia poco), ovvero sui tratti della personalità creatrice, ma ci aiuta a interpretare, nel quadro del rapporto tra “macchina” e “modernità”, anche la relazione tra Horikoshi e il suo tempo, tra coscienza individuale e Zeitgeist, tra tecnoscienza e ideologia» (pp. 21-22). Tutto ciò, secondo Brodesco, risulta in linea con le riflessioni sviluppate dallo studioso Pierangelo Schiera (Specchi della politica. Disciplina, melancolia, socialità nell’Occidente moderno, 1999): «È il dilemma della scienza moderna che s’incarna nella moderna melancolia, impregnando di sé interamente l’attitudine al progetto, vera e propria “ideologia” della modernità» (p. 22).
Nel saggio viene, inoltre, individuata ne La montagna incantata di Thomas Mann un’altra fonte di ispirazione per il film; in entrambi i casi si ritrova il sanatorio e l’ambientazione tra le due guerre, il nome del dissidente tedesco Castorp coincide con quello del protagonista del romanzo ed, inoltre, anche nell’opera di Mann si ritrova la figura di un mentore italiano, l’umanista Lodovico Settembrini, che non manca di citare con ammirazione Prometeo, «prototipo di umanista, uomo coraggioso, martire della religione della scoperta» (p. 24).
Anche nell’intervento di Marcello Ghilardi (“Tempo, tecnica, esistenza nell’ultimo Miyazaki”) si parte dall’ultima opera del regista sottolineando come la dimensione del sogno abbia un ruolo centrale nel film; il protagonista però non sogna per fuggire dalla realtà ma per integrarla realizzando qualcosa in grado di incidere su di essa. La figura di Caproni che compare in sogno a Jirō svolge la funzione del Maestro che indica la strada al giovane allievo, è la figura dell’Altro, «il correlato oggettivo di un percorso interiore che è un cammino verso di sé proprio perché è anche un cammino verso l’Altro, attraverso l’Altro; il sé più intimo si dà sempre nella relazione con l’alterità e nella pluralità degli incontri» (p. 28). Buona parte della produzione del giapponese è attraversata dalla contraddittorietà della tecnica, dai rapporti tra i suoi esiti positivi e quelli negativi, tra emancipazione umana e distruzione planetaria.
Jirō sfrutta un difetto fisico che non gli consente di volare (la miopia) nell’occasione che gli consente di trovare una nuova strada. «La parabola esistenziale e la vocazione di Jirō coincidono con il tentativo di custodire il proprio desiderio, espresso nei sogni, e di proteggerlo dal tumulto delle epoche, dai disastri della guerra, dagli accadimenti storici che travolgono le singole vite. È proprio in questo tentativo estremo, che sembra votato allo scacco, che Jirō trova un valido alleato nella figura quasi leggendaria di Caproni, immagine del Sé con cui Jirō riesce a entrare in contatto e con cui dialoga per poter accedere a se stesso» (pp. 28-29).
Altra questione chiave che compare nel film riguarda il rapporto tra infanzia ed età adulta; ponendosi a livello delle nuvole anche l’adulto riesce a ritrovare la semplicità e la profondità dello sguardo infantile coniugata però alla consapevolezza della maturità.
Anche in questo intervento viene sottolineato come il rapporto con la tecnica sia contraddittorio nel film; si alterna la consapevolezza che quelle realizzate saranno macchine di morte ma al tempo stesso viene ribadito che la filosofia che muove gli inventori intende gli aerei come sogni e non come macchine da guerra e mezzi di profitto commerciale; il progettista intende dare forma ai sogni così come chi disegna conferisce corpo all’immaginazione. Verrebbe allora da domandarsi, continua lo studioso, se la «visione interiore di Jirō coincide con la vocazione di chi ha dedicato la vita ad animare figure disegnate, intessendole di suoni e parole. In quella voce risuona anche un’urgenza, una necessità interiore da cui dipende tutto il senso dell’esistere, di ciò che in esso reclama attenzione» (p. 31).
È interessate constatare, continua Ghilardi, che tanto Jirō quanto la giovane Nahoko sono tratteggiati da Miyazaki al fine di esprimere «la dedizione sincera a un ideale, la purezza dell’intenzione. Quando tutto sembra crollare e non si trova nulla a cui appoggiarsi, nessuna stampella a cui aggrapparsi, è la capacità di mantenere intatta la propria purezza interiore a custodire una radura luminosa da cui ripartire, un fondo di energia e di sicurezza da cui attingere nuova linfa» (p. 32). Il saggio indugia anche sulle trasformazioni produttive, politiche e sociali che attraversano il Giappone nel corso del Novecento in parte determinate dall’influenza esercitata dalla cultura occidentale soprattutto scientifica e tecnologia. «L’illusione che al progresso tecnico corrisponda un cammino razionale in grado di far aderire tutti gli esseri umani a una capacità di coesistenza nella società inibisce spesso la lucidità essenziale per comprendere la necessità di un’educazione in senso lato politica, per fare i conti con l’ambiguità della tecnica stessa, con i movimenti e le sterzate che imprime alla Storia» (pp. 33-34).
«Può essere che al Giappone in cui vivono, sognano, desiderano Jirō e Nahoko mancasse in quegli anni un pensiero in grado di pensare la tecnica e di pensare la Storia […] La risposta indiretta di Jirō e Nahoko al militarismo e allo scientismo tecnocratico degli anni Trenta passa attraverso l’adesione matura al proprio progetto esistenziale. Si traduce nel tentativo di proteggere anche nel mezzo della frenesia pre-bellica alcune forme di vita, di abnegazione e di impegno sincero, con valori diversi da quelli nazionalistici per cui vivere – senza per questo rinunciare a farsi interpreti della realtà di quell’epoca, senza cioè ritrarsi in una sorta di cieco isolamento» (p. 34). Il difficile e contraddittorio tentativo di far convivere progresso e tradizione, umano e tecnologico, lo si ritrova in diverse opere di animazione nipponiche a partire dalla seconda metà del ‘900.
Nella cultura giapponese è stata sviluppata una sensibilità particolare indirizzata all’effimero, all’apparire e sparire di tutte le cose. Secondo Ghilardi, Jirō e Nahoko testimoniano il desiderio di vivere il presente pur senza identificarsi pienamente con esso. Non intendono resistere al tempo in cui vivono ma resistere nel tempo, imparando nella quotidianità a esistere nel presente, ad accogliere ciò che viene, a essere in comunione con ciò che accade.
In apertura del suo intervento, Andrea Fontana (“Il pacifismo utopico di Miyazaki”) tratteggia brevemente la storia recente del Giappone evidenziando come, a partire dal suo aprirsi al mondo esterno di metà Ottocento, si sia determinata una compattezza interna votata al nazionalismo ed a un’ideologia della sottomissione. Le tragedie di Hiroshima e Nagasaki sono restate impresse fisicamente e psicologicamente nella coscienza collettiva del Giappone, tanto da modificarne profondamente l’immaginario ed il pacifismo che si sviluppa a livello diffuso nel dopoguerra, culminante nei movimenti del ’68, si radica fortemente nell’immaginario collettivo nipponico divenendo un elemento portante delle produzioni di carattere poetico ed artistico.
In epoca recente il Giappone è venuto meno ai dettami pacifisti scritti sulla carta costituzionale ed il paese si è trovato a supportare gli interventi in Afghanistan ed Iraq, soprattutto, sottolinea l’autore, per far fronte all’ascesa economica e politica della Cina ed in risposta alle minacce provenienti dalla Corea del Nord e dalla Russia.
In Conan il ragazzo del futuro (Mirai shōnen Konan, 1978, 26 episodi), serie ispirata a The Incredible Tide (1970) di Alexader Key, emergono i nuclei tematici che saranno poi ricorrenti nelle opere del regista: l’ambientalismo, l’antimilitarismo, il volo, l’amore portatore di serenità… La serie riflette sulle tragedie della Seconda guerra mondiale e ciò che viene raccontato in forma fantascientifica è il dopoguerra del Giappone in cui Conan e Lana si trovano a dover ricostruire il mondo.
Nell’ultimo lungometraggio realizzato dal giapponese si incrociano elementi onirici, ove tutto risulta possibile, con elementi di realtà, di una realtà che è anche dolore e tristezza. Il sogno consente al protagonista di superare i limiti ma questo sogno, nella realtà, finisce per essere strumentalizzato per fini militari. «Da Conan il ragazzo del futuro a Si alza il vento le convinzioni di Miyazaki sono rimaste le stesse: la pace deve necessariamente trionfare su tutto, poiché da essa dipende l’equilibrio del mondo. Ma da un’opera all’altra sono mutate le prospettive, l’amarezza e un pizzico di nostalgia hanno preso il sopravvento, divenendo così parti integranti di una visione che da utopica si è fatta leggermente più incrinata nella sua sublime ingenuità» (pp. 46-47). Proprio in un momento storico in cui il Giappone sta abbandonando quel pacifismo maturato dopo la tragedia della Seconda guerra mondiale, sostiene Fontana, occorre valorizzare l’impostazione pacifista di Miyazaki che con le sue opere immaginifiche è riuscito a trasmettere la visione del mondo di chi è stato testimone diretto degli orrori della guerra e non si è sottratto ad un’azione contestataria nei confronti di una società sempre meno propensa a far tesoro della storia e sempre più votata alla distruzione del pianeta. Tutto ciò viene dato a vedere, nei film, attraverso gli occhi innocenti dei bambini, attraverso il potere metaforico del linguaggio poetico che ribadisce la necessità di offrire ai bambini la possibilità di sognare e di essere ingenui.
L’intervento di Marco Casolino (“Scienza, tecnologia e natura in Miyazaki”) inizia dall’analisi della serie televisiva Conan il ragazzo del futuro (Mirai shōnen Konan, 1978), ove gli scienziati vengono presentati come individui ingenui che, pur tentando di porre rimedio ai disastri compiuti precedentemente, non si accorgono dei soprusi su cui si regge la loro società fortemente gerarchica e divisa in caste. Come in altre opere di Miyazaki, il lungometraggio si interroga circa la possibilità o meno di concepire una ricerca pura senza interrogarsi sulle sue conseguenze reali.
La visione pessimista che emerge in diverse opere di Miyazaki, non riguarda tanto la tecnologia, quanto piuttosto l’incapacità dell’essere umano di gestire quei mutamenti sociali e culturali portati dal progresso.
Anche nello scritto di Casolino torna la riflessione sull’aeronautica così cara al regista nipponico. Nel film Porco Rosso (Kurenai no buta, 1992), ambientato in Italia nel 1929, il protagonista, segnato dalla tragica esperienza della Prima guerra mondiale, non intende rendersi complice del fascismo e lo dichiara esplicitamente: “Meglio maiale che fascista”. Tale affermazione, scrive lo studioso, «riassume non solo la posizione politica del Porco (e di Miyazaki), ma soprattutto ne ribadisce l’allontanamento dal mondo umano» (p. 62). Lo scritto si sofferma sulle diverse risposte che nel film Si alza il vento i progettisti Giovanni Caproni (1886–1957), Hugo Junkers (1859-1935) e Horikoshi Jirō (1903-1982), danno al dilemma se e come ci sia la possibilità di opporsi all’uso bellico degli amati aerei progettati.
Secondo lo studioso, nei film di Miyazaki, non è la tecnologia in sé a corrompere l’essere umano, ma questa contribuisce a mettere in luce la natura peggiore dell’uomo. Analogamente, in altre opere, come Il castello errante di Howl (Hauru no ugoku shiro, 2004), la magia può provocare un pericoloso allontanamento dal mondo umano; da questo punto di vista tecnologia ed arti magiche hanno il medesimo ruolo.
Luigi Abiusi (“Geografie e gradi dell’ucronia-Miyazaki”) contestualizza la natura postmoderna delle opere di Miyazaki facendo riferimento a quel radicamento della televisione negli anni ’70 caratterizzata da un «proliferare simultaneo di mondi e personaggi che, da una serie all’altra […] si ripetevano, tra fauve e favola, sotto forma di varianti, si contraddicevano, sublimavano nella totale falsità del testo d’animazione, variopinto, stereotipato iperuranio di sagome volanti» (p. 71).
Abiusi, mantenendo sullo sfondo il confronto con le tesi proposte da Fredric Jameson, soprattutto nel suo celebre (Il postmoderno o la logica culturale del tardo capitalismo, 1989), propone una riflessione su quella che definisce «offerta tardo capitalista di visioni» (p. 71) tipica di quel momento storico e, dopo essersi soffermato su alcune produzioni di animazione realizzate a cavallo tra anni ’70 ed ’80, focalizza il suo studio sulle ucronie presenti nelle opere di Miyazaki, .
Nel suo intervento, Roberto Terrosi (“Il dio della foresta – una lettura di Mononoke hime”), analizza il ruolo del buddismo nella cultura giapponese soffermandosi in particolare sul rapporto tra monaci buddisti e potere che, secondo lo studioso, avrebbe portato il buddismo ad essere visto in Giappone «come una religione del sistema in contrapposizione allo scintoismo, che è visto come religione popolare, anche se tra la fine dell’Ottocento e la fine della Seconda guerra mondiale le parti sono state temporaneamente invertite. Questo fa sì che si possano trovare valutazioni molto difformi tra i giapponesi sul ruolo del buddismo e dello shintō, a seconda anche del periodo storico a cui si fa riferimento» (pp. 86-87). Terrosi sottolinea come recentemente vi sia stata una certa «rivalutazione dello shintō, percepito come religione spontanea della natura, contro le perversioni della civiltà incarnate qui in Giappone dal moralismo ipocrita del buddismo compromesso con il potere. Il buddismo era infatti la religione dei nobili e dei ricchi, di quelli che avevano studiato, anche perché ha un corpus teorico complicatissimo che esige l’accesso allo studio» (p. 87). Tutto ciò, secondo lo studioso, aiuta a comprendere l’immagine negativa che ha il monaco buddista nell’opera Principessa Mononoke (Mononoke-hime, 1997) di Miyazaki.
Il saggio, dopo essersi soffermato sulle diverse etnie che hanno dato vita al Giappone, ed aver passando in rassegna il loro rapporto con la natura ed alcune loro divinità, analizza diversi aspetti del film di Miyazaki alla luce di tali tradizioni. Il cervo è considerato in Giappone uno spirito messaggero e nell’opera di Miyazaki compare presentato come dio della foresta, cioè di un ecosistema in equilibrio che rischia, se ferito in profondità, di essere definitivamente compromesso a causa della perdita di quell’equilibrio su cui si basa. Terrosi invita a cogliere come, sul finire del film, l’autore mostri un’evidente contrapposizione: «Da una parte ci fa vedere un’umanità incattivita verso la natura che si rifugia nella tecnica per colmare le sue paure senza accorgersi della distruzione che porta. Dall’altra mostra, quando il bonzo con astuzia riesce ad attentare alla vita del Diocervo, il dio nella sua natura finalmente estrinseca di dio-foresta. Infatti l’anima della foresta che era concentrata e custodita nel corpo del cervo divino ora si libra e si manifesta come creatura a se stante prima di perdersi e svanire del tutto […] Ma fortunatamente questo avvio verso il disfacimento dello spirito della foresta e della sua riduzione a materia inerte viene avventurosamente fermato dal nostro eroe in combutta con la principessa Mononoke. Riusciremo anche noi a salvare il mondo dalla perdita della sua anima?» (pp. 92-93). La grande abilità di Miyazaki, secondo lo studioso, è quella di essere riuscito, attraverso il film, «a realizzare non solo una storia soggettivamente espressiva ma un “mito” universale per l’età della crisi ecologica» (p. 93).
Massimo Soumaré (“Il Principe Cane: elementi della filosofia e della poetica di Miyazaki Hayao in una fiaba tibetana”) affronta la poetica di Miyazaki a partire da Shuna no tabi (1983), manga che, secondo lo studioso, può essere visto come pietra fondante ove sono già presenti elementi da cui attingeranno diverse opere cinematografiche del maestro giapponese. Tale manga, che letteralmente può essere tradotto con “Il viaggio di Shuna”, è tratto da una fiaba popolare tibetana e narra le vicissitudini di un principe di un regno povero costretto ad assumere le fattezze di un cane come punizione per avere sottratto alcuni chicchi di grano al re drago. Come spesso accadrà nelle successive produzioni cinematografiche del giapponese, si tratta della storia di un eroe benefattore leggendario sullo sfondo del rapporto uomo-natura. Soumaré sottolinea come tale storia sia in linea «con le pulsioni animistiche e la credenza tipica dello shintoismo che in ogni essere vivente e oggetto dimorino degli spiriti» (p. 98). Le opere cinematografiche che maggiormente si avvicinano al manga Shuna no tabi, sono Nausicaä nella valle del vento (Kaze no tani no Naushika, 1984) e Principessa Mononoke (Mononoke-hime, 1997). Dall’analisi delle opere emerge come in entrambi i lungometraggi si palesi «una preferenza non per il racconto scritto, ma per quella tradizione orale che a lungo è stata l’elemento portante della trasmissione del sapere e che è molto più emozionale della semplice scrittura, perché le storie sono narrate con la partecipazione delle sensazioni del parlante» (pp. 102-103). Inoltre, secondo Soumaré, è possibile riscontrare analogie con H.P. Lovecraft e la sua mitologia pervasa da divinità aliene in grado di far perdere il senno agli uomini.
I protagonisti messi in scena da Miyazaki sono spesso adolescenti che si trovano ad attraversare il momento di passaggio verso l’età adulta; «Sono quasi la descrizione di un rito d’iniziazione per divenire esseri umani indipendenti, e Miyazaki non addolcisce per nulla questo processo. Si tratta di un momento lacerante sia fisicamente che spiritualmente per i protagonisti, ma necessario. Un momento con cui ogni uomo e donna ha dovuto confrontarsi nel corso della sua vita, indipendentemente dal risultato ottenuto. In ciò è definita quella differenza con altre storie di mangaka e registi d’animazione dove tutto spesso è più attenuato» (p. 104).
Miyazaki ha spesso criticato l’invadenza nella cultura giapponese di immaginari che mescolano ragazzine con personaggi dal carattere bambinesco che sembrano create appositamente per sostenere il desiderio dell’economia nipponica di mettere a profitto un certo tipo di subcultura fomentando l’acquisto di merci. Mentre nel paese proliferano tematiche, scenari ed immaginari utili al consumismo più sfrenato, tematiche come la solitudine e lo sfruttamento dell’essere umano faticano a trovare spazio nei manga contemporanei che, in molti casi, sembrano del tutto in linea con la deriva reazionaria della politica nazionale.
Non resta che segnalare come, in chiusura del volume, si trovi una breve, ma interessante, analisi di alcuni cortometraggi di Miyazaki prodotti dallo Studio Ghibli: Il ragno d’acqua Monmon (Mizugumo Monmon, 2006), Il giorno in cui allevai una stella (Hoshi wo katta hi, 2006) ed In cerca di casa (Yadō sagashi, 2006). Terminata la lettura di I mondi di Miyazaki, non resta che riguardarsi l’intera produzione del grande animatore, mangaka e regista giapponese e, se fosse possibile, meglio farlo al cinema, di fronte ad un grande schermo.