di Girolamo De Michele
Eliana Bouchard, Louise. Canzone senza pause, Bollati Boringhieri, 2007, pp. 230, € 13.60
Louise de Coligny (1555-1620) nasce nell’anno della pace di Augusta e dell’abdicazione di Carlo V, e muore mentre la battaglia della Montagna Bianca pone fine alla fase boema della Guerra dei Trent’anni per spalancare la porta della storia su un abisso di orrori e fanatismi. Figlia della guida politica e militare degli ugonotti di Francia Gaspard de Coligny, sposerà in seconde nozze Guglielmo d’Orange, detto il Taciturno, capo della neonata Repubblica delle Province Unite, che cadrà, come il padre, il primo marito e buona parte della famiglia di Louise, sotto le armi benedette del fanatismo cattolico.
La vita di Louise de Coligny [a sinistra] attraversa, ed è attraversata da, la Strage di san Bartolomeo e la Rivoluzione olandese, le guerre civili di Francia e il tradimento della repubblica da parte di Maurizio di Nassau: eventi centrali in quel secolo lungo nel quale viene forgiata la nostra contemporaneità. Questo frangente storico, che ha ancora qualcosa di decisivo da dire al lungo Novecento tutt’ora in corso, poteva essere narrato attraverso i “grandi uomini” del tempo — gli Angiò e gli Orange-Nassau, i Borbone e gli Asburgo: merito di Eliana Bouchard, alla sua prima prova narrativa, avercelo reso vivo e palpabile attraverso gli occhi, i gesti, la rammemorazione di questa donna secondaria per gli storici, che percorre il suo tempo guidata dal modello di un’altra donna, Renata di Francia, alla quale le leggi dinastiche e le intolleranze tolsero due corone (il regno di Francia e il ducato di Ferrara) senza sminuirne la grandezza: «Renata faceva parte di quella categoria di persone che la storia distribuisce in modo diseguale nel corso dei secoli, persone che sanno pensare in grande, vedere attraverso il tempo e capire i nessi che sfuggono ai comuni mortali. L’averla incontrata mi aveva insegnato a distinguere le voci delle sirene, a non fidarmi delle apparenze, a non stancarmi nell’osservare gli eventi» (p. 179).
Avrebbe potuto, Eliana Bouchard, scegliere la forma del romanzo storico convenzionale, o rifugiarsi nell’altrettanto sicuro confine della biografia: ha scelto invece un registro narrativo singolare, la rammemorazione di una vita che è di fatto un lungo esame di coscienza dell’ugonotta Louise, cui allude il sottotitolo, Canzone senza pause. La scelta di cimentarsi nella produzione di un oggetto narrativo non identificabile nei confini dei generi ha ragioni importanti. In primo luogo, la centralità che il ricordo del vissuto come ri-proposizione vivificante del passato ha per la fede protestante che accomuna l’autrice al soggetto della narrazione: un esercizio di fede — ma anche un pensare ed agire minoritario: protestante, femminile, tollerante — che apre, con voce pacata, la questione del carattere plurale di quella che con arroganza è oggi pretesa essere l’univoca “radice cristiana” dell’Europa. Pluralità delle radici, come anche pluralità della, radici tra altre radici, cristiane. In secondo luogo, una costante meditazione sull’importanza delle parole («amo le parole quasi quanto le persone e i loro nomi hanno sul mio cervello una presa sublime che spalanca mondi mai visti e storie infinite di radici», scrive sul finire dei suoi giorni Louise) che costringe il lettore a riflettere sul portato etico delle scelte lessicali, sulle conseguenza che scaturiscono dalla recisione tra parole e cose — uomini, idee, eventi, sentimenti. Infine, una profonda comprensione delle relazioni tra fatti e narrazione, che rivela un’attenta lettura delle opere di Simon Schama, storico che con opere anch’esse di non facile identificazione (chi può dire con certezza a quale campo appartenga Gli occhi di Rembrandt?) ha rivendicato, contro la scuola degli Annali e lo strutturalismo di Braudel e Wallenstein, la centralità della narrazione in storiografia. Senza nulla sottrarre alla grandezza di Braudel e della sua scuola, ciò che Schama (e, nel suo piccolo, Bouchard) ha innovato è il palpitare, sotto l’astrattezza dei grandi cicli sistemici, di una moltitudine di vite ed eventi, con grandi e piccole passioni: come aveva compreso Luciano Ferrari Bravo, tra i primi in Italia a leggere Il disagio dell’abbondanza. L’immagine di un’Olanda sin troppo felice, che non rompeva del tutto col mito del “Secolo d’oro” di Huizinga, si arricchisce di sfaccettature, sconosciuti momenti di crisi dai quali sorgono rancori e intolleranza solitamente ignorati dagli storici. Una ricchezza di immagini che, nella scrittura di Bouchard, assorbe e restituisce al lettore quel patrimonio iconografico e pittorico che popola il nostro immaginario quando pensiamo ai Paesi Bassi. Attraverso i singoli gesti, mai gratuiti, un’operazione chirurgica ci riporta all’interno della Lezione di anatomia del dottor Tulp, e il movimento del braccio di Guglielmo il Taciturno che indica verso il porto di Anversa ci richiama alla mente le grandi vedute pittoriche dei porti fiamminghi e neerlandesi. Convocati all’interno della storia — una delle caratteristiche del teatro epico secondo Benjamin, e della nuova epica della narrativa italiana — comprendiamo, ad esempio, il carattere di Guglielmo il Taciturno dalla sola descrizione dei movimenti delle mani: una tecnica espressiva che dalla pittura di Rembrandt passa al cinema di Eisenstein, per giungere fin qui. Ma è l’intero corpo che acquista dignità nel recepire e restituire ogni singola sensazione, in un gioco di rimandi tra anima e corpo nel quale l’una materializza quelle sensazioni che, a loro tempo, avevano messo in vibrazione l’anima stessa: «ancora oggi — sono passati quarant’anni — sento sul palmo delle mie mani l’impronta del viso, aderente come un calco, la punta fredda del naso, il tepore delle labbra, il delicato solletico dei peli della barba sulla punta dei miei polpastrelli» (p. 110).
Questa macchina narrativa di inattesa perfezione ed esattezza, nella quale tutto è giocato nella relazione tra singole parole (si veda l’autodichiarazione di poetica che traspare dietro la riflessione sul «legame indissolubile» che istituisce la «piccola e mite» congiunzione e) non è un calligrafico esercizio di stile. Obbedisce a un’urgenza dettata dal tempo presente: da quel presente che si riconosce come chiamato in causa dalla sua origine passata. Louise è infatti, tra le molte cose, la storia di una vita tesa tra la strage degli ugonotti nella notte di san Bartolomeo, alla quale Louise sfuggì quasi per caso, e il rovesciamento degli ideali repubblicani nell’intollerante e rancorosa monarchia istituita di fatto da Maurizio di Nassau. Della prima crediamo di sapere tutto, o quasi; ma l’orrore nel massacro degli inermi ugonotti rimanda ad altri orrori germinati da quella “cristiana radice”, e ad altre narrazioni: dalla Magdeburg di Alan D. Altieri all’ex Jugoslavia di Babsi Jones. Poco o nulla si sa invece della repressione di Stato degli arminiani e dell’assassinio di Barnevelt, repubblicano moderato e padre, assieme a Guglielmo d’Orange [a sinistra], della Repubblica olandese: dell’estromissione della borghesia repubblicana, colta e aperta, ad opera della plebe intollerante, incolta e rancorosa, convocata e innalzata al potere da Maurizio di Nassau. Un evento che vedrà la sua esatta replica, una generazione dopo, col linciaggio dei fratelli de Witt ad opera della plebe scatenata dagli Orange, e di cui il filosofo Spinoza fu testimone. Eventi che parlano all’epoca presente nella descrizione delle dinamiche che rovesciano le relazioni sociali in passioni negative, in odio per la diversità e rancore per l’avversario. Dal secondo eccidio Spinoza trasse la conferma, con importanti mutamenti nella propria visione politica, che la pratica individuale della consolazione filosofica, della passione stoica, non è la soluzione al proliferare nella società delle passioni distruttive: che è necessario costruirla, la società politica dalle cui pratiche possono sorgere le relazioni politiche amichevoli e gioiose. Che la moltitudine è un processo in fieri, non un epifenomeno. Questo corto circuito tra il Seicento olandese e il tardo Novecento, del quale il Secolo olandese è potente allegoria, ci sembra una salutare secchiata d’acqua sulle beate ed estatiche evocazioni ed invocazioni della moltitudine e delle passioni gioiose cui oggi con troppa consolante facilità si indulge in ambito antagonista, finendo col rimuovere il lato oscuro della moltitudine: come afferma a un certo punto Guglielmo il Taciturno, interrompendo con un laconico motto una concatenazione di paure e timori della sposa, «sono tutte parole, e con le sole parole non andremo lontano».
Un critico disattento, dopo una frettolosa occhiata sugli scaffali di una qualunque libreria, potrebbe affermare che ormai tutti finiscono con lo scrivere “romanzi storici”: da Oriana Fallaci a Tiziano Scarpa e Cinzia Tani. In cosa risiede allora la potenza di alcune narrazioni storiche, e più in generale della nuova narrazione epica (NIE)? Nell’uso dell’allegoria: la minuziosa ricostruzione dello specifico storico non si esaurisce nella sterile antinomia fittizio/fattizio, ma si metamorfosa in allegoria, incasellando un frammento del passato nel presente del lettore, chiamato a cooperare a questo movimento. La funzione allegorica, nel senso in cui Benjamin l’ha chiarita in Parigi capitale, si avvale dei mezzi tecnici propri del figurale auerbachiano: ritrova cioè la propria origine nel rilanciarsi, con un movimento a vortice, in avanti. La lunga fatica della ricerca storica, unita all’estrema attenzione all’uso delle parole, è finalizzata a questo compito.
Una lunga rammemorazione, dicevamo: un romanzo nella, e della, anima. La cui necessità per il presente (e per il futuro), al di là della lezione sulla tolleranza che deve di necessità allargarsi nello spazio creato dalla separazione tra fede e potere, emerge dal confronto con un’altra notevole opera prima di quest’epoca in cui i narratori continuano a narrare, insensibili alla proclamata morte del romanzo da parte di critici che, come i carabinieri delle barzellette che non fanno più ridere , leggono senza capire o credono di poter capire senza leggere: La solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano. In Louise troviamo molte, diverse solitudini: il rifugio del perseguitato, l’isolamento nel cui spazio si crea la relazione amorosa, l’essere in compagnia di sé nel correre del tempo della gravidanza, l’astensione disillusa dalla politica, il momento quotidiano della riflessione… Tutte queste solitudini sono possibili, e ciascuna di esse può costituire un diverso principio di un nuovo essere con gli altri, grazie al carattere denso e spesso della società civile dell’età classica, alla quale corrisponde un’anima affollata da passioni molteplici. Nel romanzo di Giordano, al contrario, la solitudine dei due personaggi (alla cui espressione è finalizzata una scrittura accuratissima, che depotenzia il linguaggio di ogni ridondanza emotiva) è una necessità, l’unica forma di difesa dall’assenza del sociale, dal vuoto lasciato dalla distruzione di ogni parvenza di società civile. L’anoressia di Alice e il semi-autismo di Mattia sono ben più che un facile espediente narrativo, come qualche lettore incapace di andare al di là della lettera ha creduto di vedere: la ristrutturazione del corpo sulla base di un diverso equilibrio che non tiene conto delle aspettative sociali (Alice), la ridefinizione delle relazioni comunicative secondo una modalità di continua sottrazione rispetto alla superfluità comunicativa del quotidiano (Mattia) sono due forme di sfondamento della norma sociale imposta. Come lo era la pratica della tolleranza rispetto alle dottrine della “vera interpretazione” che animavano il fanatismo della Lega cattolica in Francia, e il fanatismo calvinista in Olanda.
Che le passioni della mente siano lo specchio delle figure sociali, tale da poter raccontare le une attraverso le altre, è stata una delle cifre narrative di Kubrick: utilizzando questa chiave di lettura ci rendiamo conto di come in questi anni in Italia la società delle passioni tristi sia stata descritta da una lunga serie di film solo in apparenza incentrati sulle relazioni personali, per i quali si potrebbe richiamare (com’è avvenuto sulle pagine di FilmTV) l’espressione “western dell’anima”; e da alcuni romanzi, anche di successo, che attraverso un’epica dell’anima mettono in scena l’impossibilità di fuoriuscire dal circuito della negazione autodistruttiva, l’assenza di relazioni affettive, la mancanza di una relazione condivisa dalla quale possa scaturire un principio di identificazione. Sino all’elisione stessa delle parole per raccontare se stessi: nella loro diversità, i pieni di Bouchard e i vuoti di Giordano si richiamano a vicenda come due estremi che vedono nell’altro un possibile esito, da scongiurare o da costruire. I due “numeri primi” di Giordano non possono che abitare il vuoto, tenendosi a distanza come cariche elettrostatiche. Il Seicento nel quale Louise de Coligny termina il proprio memoriale redigendo il testamento è invece un passato che ci sta non alle spalle, ma davanti agli occhi. Questa donna, eccezionale della propria semplicità, rievoca un ricordo del futuro nel quale dovrà essere di nuovo possibile vedere il brulicare delle singolarità nella trama fitta dei tessuti sociali, e sarà di nuovo possibile trovare i nomi per trattenerne ciascuna nel reticolo di relazioni di cui è fatta un’esistenza degna di essere vissuta: «voglio offrire ai nomi, e quindi alle persone che li rappresentano, un ultimo tributo alla mia passione e fissarli in un testamento che non dimentichi nessun cocchiere, carrozziere, cuoco, lacchè, cameriere, impiegato, scrivano e segretario e poi cassiere, pastore, damigella e guardarobiere, giardiniere, sguattera e paggio e poi ancora cantiniere, dispensiere, levatrice e nutrice. Li voglio nominare uno per uno…» (p. 227).
qui un’intervista a Eliana Bouchard dal sito Riforma in rete