di Dziga Cacace
244-I soliti sospetti di Bryan Singer, USA 1995
Inaugurazione ufficiale della stagione del Lumière con il film votato dal pubblico del Nettuno come il migliore della passata stagione. Beh, a soli tre mesi dalla prima visione mi sono di nuovo abbastanza divertito anche se è affiorato il prepotente dubbio che tutto il film fosse un raffinato ma non onestissimo gioco intellettuale per confondere lo spettatore. Proviamo a capire perché (recensione didattica, andiamo bene). Abbiamo due piani narrativi distinti: quello dei fatti al presente e uno raccontato da Verbal, piano narrativo che poi scopriremo non (pienamente) attendibile. Facciamo atto di fede che il presente filmico sia attendibile (se no, allora, si fa un giallo surreale in cui il colpevole è un tizio che non conoscete, lo zio del regista); la prima scena ci fa vedere il confronto tra Keaton (Byrne) e Sose: nonostante manchi un totale chiarificatore, non ci sono dubbi che sia Sose a uccidere Keaton. Dal rogo della bagnarola dove è avvenuto il duello, escono vivi solo Verbal e un grande ustionato ungherese che non parla una parola d’inglese (secondo logica pedestre si può già intuire che Sose sia tra i due superstiti e che difficilmente sia magiaro, comunque…); adesso il film procede per flashback, narrati da Verbal durante l’interrogatorio che deve subire da Palminteri, e, durante l’ora e mezza che segue, non viene fuori un motivo chiaro per cui lo spettatore possa capire chi cazzo sia ‘sto benedetto Keyser Sose.
Oddio, nessuno vieta di fare un finto giallo, insomma non c’è legge che obblighi di mostrare tutto allo spettatore etc. etc. ma non in questo film che gioca tutto sulla ricostruzione meticolosa dei fatti, sul dialogo serratissimo, sulla marea d’indizi e di sospetti… Oltre a tutto (e questa è disonestà, cacchio) il racconto di Verbal del duello, cui dice di aver assistito nascosto dietro le gomene, coincide con la realtà della prima scena: il patto tra spettatore e regista è infranto in modo subdolo. Se Verbal conta una mussa, perché la cinepresa, sempre nella prima scena, inquadra a lungo il suo (falso) nascondiglio? Provate poi a ricostruire tutti i casini a catena che investono i soliti sospetti: perché? Perché incastrarli su quella nave? Per sfruttarli, farli fuori e fuggire con il bottino… OK, idea vecchia come il cucco ma nulla da eccepire… ecco però che, per dare pepe alla vicenda, cresce la figura mitologica di Sose, il cattivone (inesistente) cui affidare tutte le colpe: per quale cacchio di motivo Verbal si ostina a negare che il colpevole possa essere, per esempio, Keaton, come Palminteri vuole sentirsi dire? Troppo semplice? Boh. Trovo troppo semplice e comodo costruire tutto ‘sto ambaradan e poi rivelarci che, SCHERZO!, Verbal è un pallonaro è niente di quello che avete sentito è vero. Certe genialate le ha già fatte Welles venti anni fa e LUI non fregava lo spettatore. La prima volta avevo notato tanti tranelli per confondere lo spettatore ma stavolta, non più preso dalla vicenda, ho proprio percepito il film come un esercizio intellettuale in cui vieni fatto fesso. (Per un illuminante esempio di spettatore irretito dalla difficoltà e spettacolarità del film e di conseguenza infinocchiato senza che peraltro se ne renda conto, cfr. la recensione n°166). Tutti escono dal cinema pensando “Cacchio! Con l’ultima scena ti spiega tutto! Geniale!”… ‘sto cazzo! Con l’ultima scena si capisce che Verbal ha preso per il culo Palminteri e il regista tutti noi. Puta caso che Sose fosse Kobayashi (forse omaggio a un vecchio regista giapponese appena passato a miglior vita): avreste avuto qualcosa da eccepire? Ora: è chiaro che i gialli sono sempre un po’ disonesti. Nessuno riesce a vedere l’assassina di Profondo rosso riflessa nello specchio, etc., etc., però… I soliti sospetti si maschera da film raffinato e in realtà non sta in piedi come giallo bensì come sardonico pastiche del genere che prende per il culo gli appassionati che si scervellano a trovare logicità in una vicenda che probabilmente non pretende d’averla. Mi ha comunque divertito e questo è l’acido sfogo di un turlupinato. Del resto I soliti sospetti è un film che, proprio per l’unicità dell’idea che lo contraddistingue, dovrebbe essere visto soltanto una volta e giudicato di conseguenza. Per cui, se la prima risposta è quella che conta, devo ammettere che m’è piaciuto. Qualche altra nuova idea sul film? Massì… un classico: non intravedete una velata omosessualità nei rapporti interpersonali dei soliti sospetti? Vabbeh, taccio, dai. (Cineclub Lumière; 27/9/96)
245-Il prezzo di Hollywood di Uno Sfigato, USA 1994
Film di mezzanotte del Lumière e omaggio a Kevin Spacey come attore rivelazione dell’anno. Claudio e Enrico non lo avevano visto prima e lo si capisce dopo cinque minuti: è infatti un salutare bagno nel letame. Ogni tanto bisogna guardarsi qualche porcata se no non si riescono più a stabilire scale di valore… oddio, qui siamo vicini allo zero assoluto ma tuttavia… Dunque: Guy è un ragazzotto impacciato, seppur ambizioso, che cerca fortuna ad Hollywood diventando segretario di un improbabile e tirannico produttore cinematografico (Spacey). La regia vuole farci vedere un personaggio goffo ma tenero, debole ma valido. Io, dopo pochi secondi, l’avevo inquadrato come un perfetto coglione. Ma tralasciamo le mie divagazioni lombrosiane: Guy, preoccupato per un futuro licenziamento, va dal produttore e lo pesta come una bistecca ricordandogli (e raccontandoci) tutte le odiose dimostrazioni di potere che ha dovuto subire. Il gioco al massacro ha del ridicolo, specialmente quando il raffinato torturatore si avvale di una busta da lettera per tagliuzzare la pelle al principale: roba da Pallottola spuntata. Tra microfoni che pendono malinconicamente in mezzo agli attori, si arriva, in uno sfacelo narrativo, a un finale a sorpresa che non sorprende manco per il cazzo. Formalmente deprimente, con dialoghi orrendi e un’aspirazione al politically correct falsa e stucchevole (tanto più che il film l’avranno prodotto dei figli di puttana simili al personaggio interpretato da Spacey) è una porcata che, ‘anvedi gli insondabili misteri della psiche umana, mi ha tenuto sveglio e divertito, fino alle due del mattino. E pensare che ha avuto anche delle belle recensioni. (Cineclub Lumière; 27/9/96)
246-Una gita in campagna di Jean Renoir, Francia 1935
Tenerissimo e incompiuto capolavoro che commuove nonostante la brevità. L’amore che fugge, la comunione con la natura, la recitazione soffusa e i convincenti dialoghi: Renoir è decisamente un idoletto; probabilmente oggi apprezzerei anche La carrozza d’oro che nel 1991 mi aveva un po’ depresso. Oscillazioni del gusto. (Vhs)
247-Jules et Jim di François Truffaut, Francia 1962
Finalmente ho visto questo film. È bello. Cazzo, è tardi e per una volta sono stanco tanto da aspirare a otto ore di sonno (eeeh! Va’ là!): il film è veramente molto bello ma so che direi delle banalità imbarazzanti. Tant’è, però a dormire non ci vado e guardo il monitor come se qualche incredibile ispirazione dovesse venirmi incontro, per cui: il film è bello e triste, con un ritmo narrativo sciolto e coinvolgente fin dalla concitata presentazione iniziale dei personaggi; bellissimi alcuni movimenti di macchina e tante soluzioni di découpage tipiche della Nouvelle Vague. Altro da dichiarare? Sí: durante tanti raccordi narrativi si vedono spezzoni tratti dai film di Clair e del fratello Chomette, gonfiati e deformati per il diverso formato di pellicola (gli spezzoni, non i fratelli), chicche che Giochi di luce, riflessi, velocità ha fatto conoscere al grande pubblico genovese. Buona notte. (Era meglio se non scrivevo niente e dormivo). (Vhs)
248-Il segreto dell’isola di Roan di John Sayles, USA 1995
Dunque: finalmente riesco a vedere un’opera di Sayles, regista indipendente americano che nel 1984 aveva firmato il video di Born In the USA, consegnandomi a una insana follia springsteeniana. Il film è curioso e piacevole: la piccola Fiona, curiosa come una scimmia e stimolata da antiche leggende celtiche, va a cercare sulla isola deserta di Roan il fratello, scomparso tra i flutti del mare a pochi giorni d’età. Potere del cinema: le foche, che lo hanno amorevolmente allevato e protetto, lo rendono all’affetto dei suoi naturali familiari. Carino, sospeso tra fiaba e realtà, delude un po’ nella fotografia del paesaggio (sembrava dovesse essere il punto di forza) ma soddisfa nella composizione delle inquadrature (sono stanco, sì). (Cineclub Lumière; 30/9/96)
249-La Vie est à nous di Jean Renoir, Francia 1936
Opera di propaganda, semplice e ingenua, commissionata dal Partito Comunista francese a una troupe di artisti sotto la guida di Renoir: un esile filo narrativo lega tre diverse prese di coscienza mescolandole a immagini documentarie. Filmicamente non impressiona ma l’alto valore storico ed emozionale e alcuni momenti in cui Renoir sfodera la sua vis comica (i fascisti che marciano con un commento sonoro circense, Hitler che abbaia, la vendita dei beni dei contadini falliti) lo rendono comunque godibile. (Vhs)
250-Johnny Suede di Tom Di Cillo, USA 1991
Primo film del regista di Si gira a Manhattan. Mereghetti osserva il forte debito nei confronti dei numi tutelari Kaurismäki e Jarmusch; sí, innegabili; però, alla luce di quanto è venuto dopo, si nota già una certa originalità e la presenza fissa di alcuni temi (ancora i sogni ma stavolta col nano). Pitt è bravo e autoironico (oppure è proprio tonto e perfetto per la parte) e gli altri attori non deludono. Film decente e tutto sommato molto più divertente di quelli dei maestri cui Di Cillo si ispira (l’abbonamento mi fa apprezzare qualunque cosa: sembra tutto gratis). (1/10/96, al Cineclub Lumière)
251-Down By Law di Jim Jarmusch, USA 1986
Sarà, ma più vedo le vecchie cose di Jarmusch più mi convinco che Dead Man sia il suo film migliore. Era la quarta volta che vedevo Daunbailò (nella pessima e inutile trascrizione italiana) e non posso certo dire di essermi scocciato però, mamma mia che lentezza… Quando arriva Benigni il film ha un’impennata e il ritmo cambia leggerissimamente, regalando una vivacità paragonabile a quella del gioco di Perdomo (stazzo centrocampista uruguayano del Genoa che sul finire degli anni Ottanta rimase inchiodato nel cerchio di centrocampo per un intero campionato). Humour rarefatto, paesaggi suggestivi in una scintillante fotografia, attori stralunati e belle musiche. Lo critico ma tant’è, anche se non voglio ammetterlo, l’ho apprezzato. Straordinaria la prima scena con i tetti, le terrazze e i portici delle case della vecchia New Orleans. Ricetta per un film italiano in omaggio a Jarmusch: ambientato sulla Sila e fotografato in un b/n high key, minaccioso e poco definito; come attori principali qualche cantante o rockettaro cult, p.es. Bobby Solo e, boh, l’inquietante Pupo; musiche sinistre del Balletto di Bronzo; trama semplice da dilatare per almeno 2 ore. Rilasciare enigmatiche interviste, partecipare ai film degli amici e tingersi i capelli di bianco. Il gioco è fatto. (Cineclub Lumière; 2/10/96)
252-La bella vita di Paolo Virzì, Italia 1994
Costretto da Barbara a rivederlo dopo neanche tre mesi. Sempre dignitoso. (Per una più completa serie di cacchiate cfr. la recensione n°200). (Diretta TV; 4/10/96)
253-Bellissima di Luchino Visconti, Italia 1951
Amara vicenda dove la Magnani trova spazio per una prova attoriale esagerata ma convincente. Nannarella tenta in ogni modo di spingere la sua bambina nel mondo del cinema. Si dissangua, si illude e nel momento in cui la figlia potrebbe sfonnare preferisce lassà perde (eccheccazzo! le offrivano du mijoni e lei rifiuta, dopo tutto il casino… mah!). Il soggetto zavattiniano rinuncia al lieto fine e dà poche speranze (lo si vede nell’amaro sarcasmo con cui son dipinti i burini, non più pietisticamente brava ggente) ma il copione regala anche qualche azzeccato spunto comico; è uno dei tanti classici che mi mancava: l’ho visto e son contento. Ah beh. (Vhs)
254-Niente di personale di Thaddeus O’Sullivan, Gran Bretagna 1995
Registicamente deludente, piatto e senza qualità, ma narrativamente coinvolgente: una giornata di ordinaria follia a Dublino, nel serrato confronto tra repubblicani e lealisti; l’apologo finale è schematico e retorico (una bimba irlandese uccisa per errore da un ragazzino suo amico e tre lealisti paramilitari massacrati dai soldati inglesi, loro presunti difensori) ma la descrizione dei personaggi, nella prima parte, e l’azione, nella seconda, sono abbastanza convincenti. Ispirandosi all’asciuttezza e all’oggettività de La battaglia d’Algeri, esplicitamente citata nei titoli di coda, O’Sullivan produce un’opera discreta ma intensamente civile. Si fa vedere. (Cineclub Lumière; 3/10/96)
255-Il pranzo di Babette di Gabriel Axel, Danimarca 1987
Checcarino! Visto distrattamente non so quanti anni fa, ho avuto finalmente l’occasione di rivederlo e apprezzarlo. La regia è molto asciutta nella prima parte (la lenta narrazione della vita di una comunità nordica dello Jütland, sotto la guida spirituale di un severo pastore luterano) poi, con l’arrivo di Babette in questo consesso di bifolchi bigotti e tristi, la narrazione si scioglie, le luci assumono tonalità più calde, il ritmo diventa più giocoso fino al celeberrimo pranzo (in realtà una cena) che libera la gioia repressa dei poveri danesi e gli regala emozioni papillari mai provate. Purtroppo neanch’io, nella mia (g)astronomica ignoranza, ho mai gustato un brodo di tartaruga o le quaglie en sarcophage: intuisco che devono essere qualcosa di unico e di grande. Ben girato (soprattutto per la lenta e sapiente crescita), con bravi attori e una morbida fotografia che ricorda la pittura fiamminga. Gastrico e soddisfacente. (Vhs)
256-Invito a cena con delitto di Robert Moore, USA 1976
Ennesima visione. La prima parte è scoppiettante: la presentazione parodistica di tutti i grandi detective della letteratura consente numerose gag divertenti, poi prevale il giallo e la vicenda diventa meno intrigante (anche se è un po’ un controsenso). Probabilmente le ripetute visioni mi impediscono di dare un giudizio sereno. Gli attori sono tutti notevoli, la sceneggiatura è ben scritta (Neil Simon) e la regia è sobria. Un divertissement piacevole. (Vhs)
257-La felicità è dietro l’angolo di Etienne Chatiliez, Francia 1993
Gradevole, ma non entusiasmante: François, scrupoloso industrialotto, è vessato da moglie e figlia, oche e stronze. Gli si presenta l’occasione di rifarsi una vita quando viene riconosciuto come un tizio scomparso 25 anni prima; tutti capiscono che non è lui, ma lasciano fare: François troverà la felicità e così sua moglie, con Gerard, suo migliore amico. La prima mezz’ora è molto divertente e compatta, poi la narrazione si sfilaccia quando Serrault (bravissimo) inizia a indagare sull’identità dell’uomo di cui ha preso l’identità. L’umorismo diventa più puntuale e, in alcuni casi, inutilmente greve. Peccato che queste commedie non riescano a tenere lo stesso ritmo per più di mezz’ora (vedi La crisi). Apparizione convincente di Eric Cantona. Dunque: carino, ma nulla più. (Cineclub Lumière; 14/10/96)
258-Accadde una notte di Frank Capra, USA 1934
Capolavoro! Divertente e ben costruito: Gable ha un’irresistibile faccia da schiaffi mentre la Colbert sembra una mela; perfetti i tempi e le caratterizzazioni. Per l’epoca, tra l’altro, doveva essere anche un po’ osé. Molto piacevole: “Scriverò un libro su questo!”. (Vhs)
259-Il milione di René Clair, Francia 1931
Da intollerante ormai godo soltanto dei Classici, ma dopo tanti onesti filmetti senza palle ecco un buon vecchio Clair! Basta un pretesto futile per mettere su un furioso inseguimento per rintracciare un biglietto della lotteria: Clair orchestra i tempi alla perfezione e si concede beffarde trovate che ricordano gli anni del surrealismo; comiche mute, esperimenti d’avanguardia (le scenografie, i montaggi del sonoro etc.) e leggera, ma arguta, satira sociale sono dosati con sapienza: un autentico spasso. (Vhs)
260-Messaggero d’amore di Joseph Losey, Gran Bretagna 1971
Classico drammone sulla fine dell’adolescenza nel torbido e oscurantista clima post vittoriano dell’Inghilterra dei primi del Novecento. La messa in scena e lo svolgimento narrativo sono notevoli però, sorry, Messaggero d’amore è una violenta badilata sui testicoli: il piccolo Leo si appassiona a scambiare i messaggi d’amore tra Marion, nobile e scocciata signora, e Ted, robusto e carnale contadino; tra una missiva e l’altra ci scappa anche qualche bucolica chiavata, con conseguente logico e tragico epilogo. La ricostruzione è minuziosa e la regia è di classe (anche se talvolta scappa qualche veloce zoomata da rabbrividire): Palma d’oro a Cannes secondo una giuria evidentemente scoglionata da cose ancora più noiose. Mah! (Vhs)
261-Mystery Train di Jim Jarmusch, USA 1989
Sempre più algido! Stavolta Jarmusch rinuncia anche al bianco e nero (sembrerà strano, ma dava colore) e, in una fotografia dai toni bluastri, ambienta a Memphis tre piccole storie su cui aleggia lo spirito di Elvis. Le tre vicende confluiscono nello stesso albergo ma i loro protagonisti non si incontreranno mai: umorismo rarefatto, icone del rock (Joe Strummer, peraltro bravo, e Screamin’ Jay Hawkins), tempi lenti, il solito tema dello straniero in terra d’America, sottili ironie sulla società statunitense e sui miti di plastica che vende etc., etc. Accusato dai più di essere una prova di maniera, mi ribello! Troppo comodo! Ve lo siete cresciuto voi Jarmusch e mo’ ve lo tenete! Io, che non stravedo per il genere e mal sopporto le orde di finto-punk che si riversano sul Lumière, l’ho trovato convincente. E poi, perché questo no e Down By Law sí? E l’avevo anche già visto. (Cineclub Lumière; 16/10/96)
262-Nanuk l’eschimese di Robert J. Flaherty, USA 1922
Nanuk è un povero eschimese che vive in una terra inospitale che fa venir freddo solo a vederla per fotografia. Tant’è, lo stolido indigeno continua a rimanerci e non sverna, non dico alle Hawaii, ma neanche, chessò, nelle foreste canadesi. Hai voluto la slitta? Dunque il selvaggio (che ride sempre, nonostante se la passi piuttosto male) caccia in modi astrusi (aspetta la foca, la fiocina e poi si fa trascinare per mezz’ora dall’agonizzante bestia), abita costruzioni assurde (l’igloo) e mangia male (sia come galateo, con le mani e leccando il coltello, sia dieteticamente, ingurgitando quantità di colesterolo da competizione). Assistiamo alla sua tenace lotta per la sopravvivenza e non possiamo che compatirlo: le pellicce si comprano da Annabella, tonno! Il film è bellissimo e Nanuk commuove: si spacca un culo che non ha eguali e sopravvive a stento, sfidando una natura che definire ostile è eufemistico. Le riprese sono molto belle, particolarmente l’ingegnosa costruzione dell’igloo o le scene di caccia, nonostante siano evidenti alcune falsità cinematografiche (l’interno dell’igloo simulato con una quinta emi-igloo) e la costruzione della giornata del coraggioso eschimese è ben ritmata. Permane un po’ di paternalismo di fondo (il buon selvaggio) ma prevale il commosso omaggio a un popolo straordinario. Proprio bello. (Vhs)
263-I bambini ci guardano di Vittorio De Sica, Italia 1943
Capolavoro misconosciuto, al livello delle cose più famose del regista: il piccolo Pricò vive con enorme sofferenza la separazione dei genitori ma questi, pur accorgendosene, antepongono i loro egoismi alla serenità del figliolo. Il tema (un Quattrocento colpi alla vaccinara), molto in anticipo sui tempi, è trattato con sobrietà: niente scene madri, nessuna condanna moralistica, solo un’amara constatazione. Punteggiato qua e là da intelligenti e sarcastiche punzecchiature (i vicini di casa pettegoli, i gagà in villeggiatura, etc.) il film offre anche momenti tecnicamente esaltanti (fotografia e movimenti di camera) come la stupenda sequenza in cui Pricò fugge sul litorale di Alassio. Una bella sorpresa. (Cineclub Lumière; 17/10/96)
264-Un garibaldino al convento di Vittorio De Sica, Italia 1942
L’altro lato di De Sica: un film disimpegnato ma divertente, dove si raccontano le avventure di due ragazze (una nobile e spiantata, l’altra “nuova” ricca) in un convento dell’Italia borbonica. Toni e tempi da commedia (qualche gag surreale e molte acute note di costume, attuali nel 1860 come adesso): il risultato è leggero ma soddisfacente. De Sica si riserva un cameo presentandosi come Nino Bixio; Hilda direbbe “Bixio: chi era costui?”. (Cineclub Lumière; 17/10/96)
265-Le persone normali non hanno niente di eccezionale di Laurence Ferreira Barbosa, Francia 1993
Irritante: Martine è stata appena lasciata dal suo uomo e ciocca come una lama (la cosa potrebbe essere consequenziale, o viceversa). Ricoverata in un ospedale psichiatrico si confronta con altri mattocchi e fa un po’ di casino. Non si capisce cosa cacchio si voglia dimostrare: riflessioni sulla pazzia non ce ne sono, al di là di una irritante simpatia per degli psicotici da cabaret; la Bruni Tedeschi non sa correre né recitare (e la sua parte avrebbe richiesto una grande prova attoriale) e il doppiaggio è avvilente; le due o tre gag dei pazzerielli, inoltre, fanno cascare le palle. Talvolta il montaggio diventa nervoso ma l’episodicità fa pensare piuttosto a degli errori (scherzo, ma certe cose lasciamole fare a chi è capace). Insomma: una tremenda cazzata con pretese “alte”; del resto, da una regista che si chiama Barbosa… Se questi sono i film che dovrebbero riportare la gente al cinema (secondo i nobili intenti dell’operazione Playbill) allora siamo fritti. E a Pier (siamo all’assurdo!) è piaciuto: sono senza parole. (Cineclub Lumière; 18/10/96)
266-Vesna va veloce di Carlo Mazzacurati, Italia 1996
Dunque, mi accosto al film con curiosità: le cose che ho già visto del regista mi sono piaciute (Il toro, molto) ma tutte le persone che hanno già visto Vesna sono rimaste un po’ deluse (fino alla crudele stroncatura via radio di Pier). Diciamocelo subito: mi rammarico per Mazzacurati; se Pier è proprio inacidito nella sua totale condanna del cinema italiano, stupisce come, a Venezia, tanta critica abbia portato in palma di mano questo film. Al solito Mazzacurati è asciutto e sobrio, la storia è coraggiosa e affronta il tema dell’immigrazione secondo un’originale prospettiva, ma, reso merito al coraggio del regista, devo stigmatizzare i tanti, per conto mio, banali riferimenti alla realtà italiana (il buono, muratore di sinistra che frequenta un locale con tanto di bandiera del Che in bella mostra, e i cattivi, ingiacchettati, cafoni e con la BMW) e al mondo dell’emigrazione (il chirurgo di colore che fa il muratore, il maghrebino con nostalgia del calore femminile che balla da solo sulla spiaggia etc.). So di esser ingiustamente irritato: il film è molto onesto nel dipingere personaggi veri, comunque equivoci. Albanese (bravo e misurato) non è cristallino nei suoi comportamenti e Vesna, comunque, non è per niente una semplice vittima. Non ci sono esplicite condanne o assoluzioni (è uno dei punti di forza del film) né consolatori finali, ma mi sembra tutto un po’ superficiale, molto, troppo, lasciato all’interpretazione dello spettatore (Hilda ha colto un sacco di cose che io proprio non riesco a vedere), per non parlare dei deprimenti simbolismi (la pioggia o il bagno a lavare la sporcizia della prostituzione, il vomito di Vesna dopo il partouze, il conseguente regalo del golfino da parte dell’altra prostituta e, dopo un mese, l’incontro pieno di effusioni tra le due). Il film ha comunque dei meriti: al di là della civiltà del tema, è costellato di pungenti osservazioni sul mondo della prostituzione, la scelta degli attori e la recitazione sono convincenti etc., ma è proprio dal confronto con le cose riuscite che deriva l’insofferenza per alcune cadute di tono che mi hanno abbastanza avvilito. Sono un intollerante, I know. Probabilmente ha contribuito alla mia delusione (e so che non è giusto, ma son critico di panza, io) il fatto che il perfuntorio Mazzacurati abbia tirato il pacco e non si sia presentato al dibattito, come invece annunciato (presunta frattura del piede, mah!). Chissà… Pier Paolo? (Cineclub Lumière; 19/10/96)
267-Trainspotting di Danny Boyle, Gran Bretagna 1996
La cosa inizia a farsi fastidiosa: o sono io che ormai non mi godo più un film, data la mia facile irritabilità, oppure circolano troppe cacchiate vendute come opere convincenti… o ancora, è tale e tanta la latitanza di buoni film che basta un nonnulla, un’idea, un tema azzeccato, per far emergere, dal mare magno di sterco che circola sugli schermi, qualunque cosa appena decente… boh, non so. Sta di fatto che Trainspotting non mi ha impressionato manco pe’ nniente. Beninteso, il film sa essere divertente ma anche assolutamente cattivo e spietato: non mancano scene ben costruite (il tuffo nel cesso della toilette “peggiore di Scozia”, la scena d’amore montata in parallelo all’incontro Scozia-Perù, la crisi d’astinenza), illuminanti inquadrature e un’intelligente fotografia; la musica è bella e il ritratto della società britannica è tragicamente, per esperienza, attendibile. Oltre a tutto, anzi soprattutto, il tema della droga è trattato in modo ambiguo, con un misto di attrazione e repulsione, intelligente e non scontato ma… non so, il primo tempo è un po’ troppo piacione; nel presentare i personaggi il regista deborda in scene esornative. Nel secondo tempo il tono è molto più drammatico e cattivo (e il film risulta più convincente); ora, non che il disequilibrio sia di per sé negativo, ma il risultato finale non mi convince del tutto. Cosa mi aspettavo? Non devo più parlare con gli amici o leggere i giornali? Man mano che passano i minuti inizio a rivalutarlo, non vorrei scrivere domani un post scriptum in cui mi sconfesso… Insomma, la prima impressione all’uscita dal cinema era di intolleranza (anche perché la sala era affollata da un pubblico bove tipo Foro Italico, attirato dalla massiccia campagna stampa pro e contro il film) poi, ripensandoci, non è malaccio. Ma, e di questo ne son sicuro, non è il gran film di cui tanti (il caro buon vecchio Pier compreso) sproloquiano. È preoccupante che dopo ogni visione venga colto da un attacco di coprolalia nei confronti del film appena visto, ma ancor peggio è che dopo solo due ore sia già pentito. Buonismo senile? Vabbeh, tagliamo la testa al toro: film discreto ma azzeccato. Un colpo alla botte e uno al cerchio. (Cinema Verdi; 20/10/96)
(8 — CONTINUA)