di Massimo Maugeri
Cent’anni fa nasceva Elio Vittorini. Siracusano di Ortigia (l’isolotto attaccato al centro della città), ha ricoperto un ruolo centrale nella vita intellettuale dell’Italia del dopoguerra e fino alla metà degli anni Sessanta (morì a Milano il 12 febbraio del 1966). Ricordiamo lo scrittore, ma anche il consulente editoriale, il giornalista culturale, il direttore di riviste e il letterato a tutto tondo. Einaudi ha appena dato alle stampe una raccolta di articoli e interventi riferiti al periodo 1938-1965 (il primo volume copriva gli anni ’26-’37): un tomo di più di mille pagine, curato da Raffaella Rodondi.
In tanti hanno approfittato del centenario per ricordare la “grande pecca” di Vittorini: il noto rifiuto de Il Gattopardo (Vittorini dirigeva la collana “I gettoni” della Einaudi). Poi il romanzo di Tomasi di Lampedusa fu pubblicato, postumo, da Feltrinelli con prefazione di Giorgio Bassani (era il 1958; nel ’59 il libro si aggiudicò il Premio Strega). Una “mancanza”, questa, più che compensata da tantissimi meriti. Come la pubblicazione – e il “lancio” nazionale – di autori del calibro di Beppe Fenoglio, Carlo Cassola, Italo Calvino, Lalla Romano, Mario Rigoni Stern, Ottiero Ottieri.
È da sottolineare il ruolo fondamentale che Vittorini ebbe nello “sdoganare” la narrativa statunitense nell’Italia della seconda guerra mondiale: l’antologia Americana, che uscì in prima edizione nel 1941. All’epoca, la censura fascista contestò le note critiche (predisposte dallo stesso Vittorini) e la sequestrò. Americana, però, fu rimessa in vendita l’anno successivo da Bompiani (con l’eliminazione di quasi tutte le note). Al progetto collaborarono diversi intellettuali, tra cui Pavese (anche per lui, quest’anno, decorre il centenario della nascita) che – con missiva del 27 maggio 1942 – gli scrisse: “Caro Vittorini, ti sono debitore di questa lettera perché penso ti faccia sapere che siamo tutti solidali con te (…) e tutto il pregio e il senso dell’Americana dipende dalle tue note. In dieci anni dacché sfoglio quella letteratura non ne avevo ancora trovato una sintesi così giusta e illuminante.”
I brani inseriti nell’antologia furono scelti dallo stesso Vittorini e gli autori inclusi erano allora quasi del tutto sconosciuti in Italia. Ne cito alcuni: Poe, Hawthorne, Melville, James, London, Hemingway, Steinbeck.
Di Vittorini romanziere va subito ricordato il volume Conversazione in Sicilia (1941), dal noto e fulminante incipit: “Io ero, quell’inverno, in preda ad astratti furori”. Nel 1931, per le edizioni di “Solaria” pubblicò una raccolta di racconti intitolata Piccola borghesia (ristampata da Mondadori nel ’53). Tra il ’33 e il ’34 uscì su “Solaria” il romanzo Garofano rosso (pubblicato in volume nel ’48 da Mondadori). E vanno senz’altro ricordati: Uomini e no (1945, Bompiani), Il Sempione strizza l’occhio al Frejus (1947, Bompiani), Le donne di Messina (1949, Bompiani, ristampato con notevoli varianti nel ’64), Erica e i sui fratelli (1956, Bompiani), Le città del mondo (incompiuto e pubblicato postumo nel 1956 da Einaudi).
Fondò e diresse due importanti riviste che segnarono la storia culturale di quegli anni: “Il Politecnico” (nel 1945) e “Il Menabò” (nel 1959, con Calvino).
Infine mi piace ricordare il Vittorini abitante della bellissima Ortigia.
Me ne ha parlato l’amica scrittrice e magistrato Simona Lo Iacono, che vive lì: “Abito in Ortigia, proprio a due passi dalla casa natale di Vittorini, Via Vittorio Veneto, da tutti gli ortigiani chiamata ‘Mastrarua’, cioè ‘Strada maestra’. C’è ancora una bottega dove Vittoriani viene ricordato. Qui l’ho sentito descrivere come un signore distinto e fascinosissimo, occhi cespugliosi e ambrati, baffetti impeccabili, bastone da passeggio e paglietta ben calcata sulla testa. Al liceo classico Tommaso Gargallo, invece (sempre in Ortigia), il suo nome aleggiava tra le bocche di noi studenti come uno tra i più importanti: un alunno illustre che aveva frequentato quella scuola e che traspariva da qualche foto color seppia, da cui sorrideva senza tempo e senza nostalgia. Un ragazzo come tanti, assiepato tra compagni irrigiditi in giacca e cravatta, ritto al centro del chiostro e distratto solo dall’obiettivo.”
Un ragazzo come tanti, che fece poi molta strada, contribuendo notevolmente alla crescita delle patrie lettere.